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Politici, attenti: l’elettore è volubile

I dati delle elezioni europee mostrano una crescente tendenza alla volatilità nelle scelte degli elettori. Ogni tornata elettorale consegna nuovi rapporti di forza tra i partiti. Ma l’ennesima giravolta italiana forse prelude a ulteriori cambiamenti.

Parola chiave: volatilità

Il primo fu il Pd con il 40 per cento alle Europee del 2014. Poi venne il 33 per cento del Movimento 5 stelle alle politiche del 2018. Ultimo, per il momento, il 34 per cento della Lega alle recenti elezioni europee. Nel giro di cinque anni, nel nostro paese tre partiti hanno conquistato un sorprendete consenso, per poi (in due casi su tre, per ora) dilapidarlo in breve tempo.

C’è una parola chiave per comprendere questa fase della politica italiana, e non solo: volatilità. Molti politologi, tra cui Ilvo Diamanti, ne hanno parlato come il tratto caratterizzante della Seconda Repubblica, contrapposta alla staticità del comportamento elettorale degli italiani nel corso dei primi cinquant’anni della storia repubblicana. Come spesso accade però, un fenomeno sociale diventa ancora più chiaro e interessante nel momento in cui si riesce a rappresentarlo in cifre. Parlando di volatilità, ciò è possibile grazie a una preziosa banca dati curata da Vincenzo Emanuele, Davide Angelucci, Bruno Marino, Leonardo Puleo, Federico Vegetti disponibile online e ora aggiornata alla luce dei risultati del 26 maggio 2019.

La volatilità complessiva calcolata rappresenta il cambiamento netto all’interno del sistema partitico risultante dal travaso dei voti individuali. L’indice si muove quindi tra un minimo di zero (gli stessi partiti hanno preso le stesse percentuali nella tornata elettorale successiva) e un massimo di cento (ogni possibile cambiamento è avvenuto: i partiti pre-esistenti sono scomparsi e nuovi partiti hanno assorbito tutti i voti). L’approccio utilizzato nella banca dati si basa su quello delineato originalmente dal politologo danese Mogens Pedersen: è bene sottolineare che questo indice di volatilità deriva da una analisi sui risultati aggregati e non da inferenze sul comportamento individuale o da analisi campionare delle scelte degli elettori. Inoltre, l’indice tiene conto di eventuali scissioni o fusioni tra partiti nell’intervallo tra una elezione e un’altra: per esempio, in caso di fusione di due o più formazioni politiche, la comparazione viene effettuata tra la percentuale di voti ottenuti dal nuovo partito e la somma delle percentuali di voti ottenuti nelle elezioni precedenti dai gruppi ora fusi.

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I dati europei

Figura 1

Vediamo, dunque, cosa ci dicono i dati. La mappa permette di orientarsi nelle elezioni europee dal 1984 (seconda tornata elettorale di questo tipo, la prima quindi per cui si possa calcolare il tasso di volatilità) a oggi. Le elezioni del 26 maggio vedono sul podio per volatilità il Regno Unito (dove il neonato Brexit Party di Nigel Farage ha cambiato le carte in tavola), Slovacchia e Italia (con la netta affermazione della Lega, forza assai minoritaria nel 2014). Nel complesso, nel corso del tempo il continente ha visto aumentare pian piano il livello volatilità media, che ha raggiunto circa il 24 per cento, dal 13 per cento del 1999. A livello di distribuzione geografica, invece, non sembra esservi un chiaro percorso (nord-sud o est-ovest, ad esempio) in quanto a volatilità.

I dati italiani

Con l’ausilio di un’altra banca dati realizzata dallo stesso Vincenzo Emanuele, possiamo analizzare con più attenzione il nostro paese, integrando le informazioni sulle elezioni europee con quelle sulle elezioni nazionali e allargando la prospettiva fino al 1948. La figura 2 riassume i risultati.

Figura 2

Guardando le due linee, è possibile notare come le elezioni europee risultino simili, in quanto a volatilità, a quelle nazionali. Ciò ci accomuna a Francia e Germania (inserite a titolo di esempio per un paragone internazionale), ma ci differenzia rispetto al Regno Unito, dove invece le Europee (complici anche le diverse regole elettorali) hanno andamenti molto diversi da quelle nazionali.

Il secondo elemento chiave del grafico riguardai due picchi degli andamenti: il primo, nel 1994, segna la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda, caratterizzata da un ventennio di maggiore stabilità. Gli ultimi cinque anni invece registrano un nuovo aumento della turbolenza, con un picco raggiunto proprio alle ultime elezioni europee (sebbene il livello di volatilità sia più o meno lo stesso delle politiche del 2013). L’Italia sta attraversando una fase di forte volatilità, come la Francia, alle prese con un complessivo riassetto del panorama partitico. In Germania e Regno Unito, al contrario, la parola chiave sembra essere stabilità.

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In conclusione, i dati sulla volatilità sono di certo un monito per chi celebra come definitivi e immutabili i risultati delle ultime elezioni e anche per quei politici che pensano di potersi adagiare sugli allori dei grandi risultati. Nel nostro paese, forse un po’ schizofrenico, non si può mai dire cosa riservi il futuro. E non è un caso che il prudente sottosegretario Giancarlo Giorgetti abbia, a quanto pare, consigliato ai suoi di tenere una foto di Matteo Renzi sulla scrivania, come avvertimento.

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  1. Henri Schmit

    Molto interessante. Al cleavage tradizionale lineare DX-SX si sta sovrapponendo un altro più difficile da inquadrare: apertura e competitività o protezione e identità, mercato o stato (ma non è nuovo), Europa forte (ma quale?) o ritorno alle sovranità nazionali (mai abolite!). L’errore dell’establishment politico (entrambi i lati del vecchio panorama) è di pensare che basti muoversi al centro della linea tradizionale per prevalere. Sono invece altri temi che in tutti i paesi hanno fatto irruzione: soprattutto 1. l’immigrazione e 2. il bilancio vantaggi-svantaggi dell’UE e dell’euro, ma anche in un mondo nuovo, digitale, liquido, immediato dove gli estremi pesano sempre di più 3. le vecchie questioni irrisolte del ruolo dello stato in un’economia di mercato, della garanzia sociale dei perdenti. La volatilità elettorale NON è un fenomeno UNIVOCO. Alcuni sistemi sanno reagire meglio alle sfide (cambiamento, nuova classe politica, riforme, sistema confermato), altre meno bene (cambiamento finto, riforme fasulle, personale meno preparato, declino, sistema messo in questione), altre sono proprio incapaci di reagire, di comprendere e di adattarsi (immobilismo, forzature politiche per mantenersi al potere, stress sociale e politico, rischio di cambiamento di regime). In Francia la volatilità esprime un cambiamento netto del primo tipo, nonostante le questioni rimaste inevase, in Italia essa sta per graduale indebolimento e regresso, in UK saremo a vedere, le tre opzioni sono aperte.

  2. Fabrizio Balda

    La mia impressione è che gli elettori siano sempre più alla ricerca di leadership credibile e siano sempre meno interessati ai programmi e alle ideologie di partito. Logica conseguenza della rottura della contrapposizione storica destra / sinistra. E i leader vengono “bruciati” molto più velocemente rispetto al passato e molto più velocemente rispetto ai partiti.

  3. Savino

    Il popolo non sa che pesci prendere e sta sbagliando bersaglio: non è con la politica che deve prendersela, ma con la burocrazia. Per questo, mentre, nell’attuale legislatura, non esistono pressocchè più i cambi di casacca tra i parlamentari (siamo quasi ad una rigida fedeltà di mandato col partito di origine, non coerente, peraltro con quanto sancisce la Costituzione), i cambi di casacca sono frequenti e repentini, anche a distanza di pochi mesi, tra gli elettori. Quindi, è nella natura insita dell’elettore (gattopardista e contrario al vero cambiamento) il vendersi per un piatto di lenticchie o per la sola illusione che lo otterrà.

  4. Steve Fuckiny

    Articolo profetico. Gia’ me lo vedo il capitone capitolare se toglie gli 80 euro di Renzi-Gutgeld forse pensando di punire un elettorato comunistoide per favorire qualche privilegiato. Avvisatelo che in Italia lo stipendio medio e’ molto basso ed i percettori del bonus sono milioni, e probabilmente anche un po’ vendicativi.

  5. Henri Schmit

    Il problema di quest’analisi molto interessante è doppio. Premessa: la volatilità esprime la possibilità di cambiamento, presupposto della democrazia (cambiare coloro che governano. Cambiare è positivo, ma cambiare troppo è distruttivo. I dati empirici segnalano un aumento della volatilità elettorale più marcato in alcuni paesi. Impossibile ignorare il segno positivo o negativo, non più scientifico ma politico e valoriate del cambiamento: un governo di populisti votati da oltre 50% degli elettori è una cosa, cambiare per un partito nuovo che sostiene un presidente nuovo contro i due principali partiti tradizionali può essere esattamente l’opposto, ma la misura della volatilità tratta entrambi fenomeni nello stesso modo, creando un’illusione, non cogliendo quello che veramente conta. Un secondo problema d’interpretazione (NON chiarito nell’articolo) è se i dati empirici si riferiscono al voto (dato sociologico, simile al sondaggio) o all’elezione (dato politico), due dati che divergono a seconda del sistema elettorale di riferimento. Conclusione: i paesi sono meno paragonabili di quanto i dati della volatilità elettorale possono far pensare; dietro il voto e il risultato elettorale sono i sistemi politici- elettorali contano, e quello che fanno coloro che sono eletti. Da questo punto di vista capita che i numeri ingannano.

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