La disciplina delle concessioni autostradali non è certo un esempio di buona regolazione. Senza ipotizzare un improbabile ritorno al controllo pubblico, si può invece cercare di ridurre la contaminazione fra attività concesse e attività a mercato.
Le colpe dello stato e quelle dei gestori
La guerra fredda che dalla tragedia di Genova si è instaurata fra lo stato italiano e Autostrade sembra stia sfociando nell’occupazione per mano militare del territorio nemico. Il risentimento della pubblica opinione è vivo – a ragione – e da parte del governo qualcosa s’ha da fare.
La disciplina delle concessioni autostradali non si è guadagnata un posto d’onore fra le migliori pagine della nostra storia. È stata un misto di politica industriale di corto respiro e cerchiobottista, di deficit amministrativi gravi e di gravi mancanze regolatorie, cause ed effetti anche di non commendevoli fenomeni di reciproca e impropria influenza fra pubblici poteri e concessionari. È emblematico che nel 1990 la rete italiana fosse pressoché uguale a quella francese e che da allora sia cresciuta del solo 11 per cento contro il 67 per cento. Più che ogni altro settore, quello autostradale è stato caratterizzato da una regolazione politica dei pedaggi mista a ignoranza tecnica (cosa diversa da una politica tariffaria), ondivaga, attenta a obiettivi immediati e per contro blindata a lungo andare. Non ha teso a incentivare le imprese a utilizzare al meglio le leve gestionali di cui dispongono e ha accollato loro rischi derivanti da fattori non prevedibili e non controllabili, quali la dinamica del traffico, che rappresenta il driver di gran lunga principale di produttività, e l’andamento dell’inflazione che nei modelli che regolamentano la gran parte dei pedaggi è stato astrusamente posto a base dell’obiettivo di produttività e del conseguente abbattimento dei pedaggi. Il regolatore ha preferito coprire se stesso da eventi esogeni, quali appunto l’inflazione e l’andamento del traffico, e per il resto lavarsene le mani.
Vi è però anche corresponsabilità dei gestori, poiché a partire dal 2007 è stato rimesso alla loro libera scelta il modello tariffario all’interno del menu di sei piatti proposto dal concedente-regolatore (poiché tanti sono, ancora oggi, i regimi tariffari) e non si può dire che siano stati lungimiranti, perché hanno preferito blindarsi dal rischio regolatorio e accollarsi in cambio rischi di mercato non controllabili. Tutto sommato l’azzardo non gli è andato male poiché la redditività non è mancata, anche se in misura minore di quanto comunemente si ritiene e di quanto il mercato scommettesse. La buona sorte è stata che hanno vinto la scommessa giocando a dadi contro l’inflazione e sostanzialmente pareggiando nella partita con il traffico; occorre infatti sfatare la leggenda secondo la quale l’andamento del traffico sia stato lastricato di rose e fiori poiché, se guardiamo all’insieme del ventennio passato, quello a consuntivo è stato, seppure lievemente, inferiore alle previsioni del regolatore. Di proprio i gestori ci hanno messo l’abbattimento dei costi, incassandone i benefici senza che il regolatore si sia preoccupato di permettere agli utenti di condividerli. Volendo essere positivi, verrebbe da dire che a conti fatti l’impianto tariffario nel complesso “ci ha azzeccato”, ma sarebbe come affidare la regolazione alla dea bendata.
Venendo ad Aspi (Autostrade per l’Italia), da quanto è emerso negli ultimi mesi sulla manutenzione è lecito dedurre che vi sia stata, almeno negli effetti, oggettiva violazione di impegni contrattuali, né l’eventuale responsabilità di mancato controllo del concedente può essere addotta a giustificazione. Sacrosanto dunque intervenire imponendo severe sanzioni e riformando il sistema regolatorio.
Altro è però saltare sulla barricata spinti dal giudizio popolare e dalle prossime tornate elettorali. Il minimo che si deve chiedere alla dignità dello stato è ripudiare la giustizia sommaria e confrontare invece i pro e i contro di più scenari, magari prendendosi qualche dose di immediata impopolarità (non immeritata, se la delusione è il prodotto di non ponderati proclami), se tutto questo serve all’interesse generale. Fa (amaramente) sorridere la soluzione-ponte di affidare il tutto – temporaneamente, beninteso – all’Anas e viene da chiedersi: “un ponte per dove”? Anche a ignorare la disaffezione prodotta nei mercati dalla qualità dell’attuale dibattito, quanti la propugnano dove pensano di trovare investitori italiani disposti e finanziariamente capaci di accollarsi l’intero pacchetto? Oppure, come conciliare l’ingresso dello straniero con il rampante sovranismo che sposta in su, alle Alpi, la linea del Piave? O si pensa di affidare ad Anas il compito di spacchettare il tutto per poi procedere ad affidamenti-spezzatino? Oppure si pensa di ricorrere ancora una volta alle Ferrovie (già, che fine ha fatto la marcia indietro di Anas dal gruppo Fsi?) o al deus ex machina della Cassa depositi e prestiti come supporter di un’Anas pigliatutto? E che dire dello “scudo penale”, per il quale già l’Anas ha giustamente messo le mani avanti, così come faranno i suoi improbabili aventi causa? Uno scudo tombale su tutti i 3 mila chilometri di rete o selettivo su pezzi singoli (selezionati da chi)? Ancora: per quanto tempo e con quale credibilità dopo il pastrocchio sull’Ilva? Medesima destinazione avranno altre concessioni dove si sono riscontrate carenze di manutenzione, addirittura documentate con tanto di foto “ricordo” dal precedente ministro in persona?
Cosa fare con Atlantia
Atlantia ha dato prova di avere ben vivi gli animal spirits di schumpeteriana memoria, diversificando le proprie attività ed espandendosi in quelle già in portafoglio. È una strategia che però richiede di scommettere su una crescita continua dei mercati, tanto più quando questa è collante per rassicurare i creditori della sostenibilità dell’indebitamento (44 miliardi di euro nel 2018) accumulato per finanziarie l’espansione e fidelizzare gli azionisti. Ciò ha un prezzo che chi opera sul libero mercato può, appunto, liberamente accollarsi; assai meno per chi è investito anche di responsabilità pubbliche. Leve finanziarie spinte espongono a turbolenze che mal si conciliano con quella di concessionari di attività svolte in nome dello stato ai sensi dell’articolo 43 della Costituzione. Difficile però pretendere dalle imprese di farsi spontaneamente carico di frenare i propri animal spirits. È invece grave la benevola indifferenza del concedente (più precisamente la reciproca convenienza), in particolare con riguardo alle acquisizioni a debito di società concessionarie e all’accollo alle stesse dell’indebitamento contratto; è così che lo stato, come azionista uscente, è riuscito a fare cassa. Un repentino “ribaltamento del tavolo”, ora, avrebbe per effetto di ribaltare nei mercati finanziari aspettative che la negligenza del concedente ha finora contribuito a giustificare.
Nessuna “rivoluzione” o ripresa del controllo pubblico è oggi perseguibile o auspicabile. È invece da sperare che il seguito della riflessione in corso non si limiti a introdurre una sana regolazione tariffaria (che già sarebbe tanto), ma si ponga anche la questione di costruire barriere, che, senza inattuabili propositi di repentina frammentazione, riducano la contaminazione fra attività concesse e attività a mercato.
È da 20 anni che i governi che si sono succeduti si passano l’un l’altro il cerino, ben sapendo che prima o poi a qualcuno sarebbe toccato di scottarsi le dita. Non resta dunque che auspicare che a quanti oggi è stato passato il cerino, o a quanti toccherà domani, non siano tentati di appiccare il fuoco e che invece la politica pubblica manzonianamente si ispiri al buon senso anziché a quel «senso comune» che non di rado l’ha guidata.
* L’articolo sintetizza le conclusioni del volume di SIPoTra Le concessioni di infrastrutture di trasporto – Fra fallimenti dello Stato e fallimenti del mercato di prossima pubblicazione (visibile su www.sipotra.it).
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Massimo Consorti
Nell’articolo non si accenna al fatto che la redditività è stata garantita anche dalla possibilità di evitare le gare di appalto affidando i lavori alle proprie società , rovesciando poi i costi sugli utenti sotto forma di aumenti dei pedaggi, si fa fatica a vedere tutto questo rischio d’impresa di cui parla. Animal spirits sembra una bella espressione ma andrebbe tradotta come inaccettabile scorrettezza. Infine i morti sono iniziati prima del ponte Morandi, le ricordo che sull’autostrada A14 fecero ruotare un cavalcavia sollevandolo in modo squilibrato , e falciando via 2 vite un anno prima del ponte Morandi, tanto per rinfrescare la memoria