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E ora Johnson fa i conti con la vera Brexit

Al di là di una maggioranza schiacciante in Parlamento, Boris Johnson non sembra avere un’idea chiara di che cosa significhi “Brexit”, soprattutto sulla spinosa questione dei confini. Intanto si iniziano a misurarne gli effetti sull’economia britannica.

Lo slogan “Brexit significa Brexit”

È davvero cambiato qualcosa per la Brexit dopo il trionfo di Boris Johnson alle elezioni parlamentari britanniche dello scorso dicembre? Sembra proprio di sì, ma non per le ragioni che molti pensano, e cioè che si è fatta finalmente chiarezza sulla volontà del popolo, su chi comanda in democrazia e su che tipo di Brexit ci possiamo aspettare.

A dicembre 2019 i conservatori di Boris Johnson hanno vinto le elezioni (figura 1), ottenendo una maggioranza di 80 seggi (la più grande per i Tory dal 1987) grazie al 43,6 per cento dei voti (la percentuale più alta di qualsiasi partito dal 1979). Con una tale maggioranza Johnson non dovrà più duellare, come in passato, con un Parlamento in larga parte ostile alla Brexit, che si potrà fare nella sua versione dura e pura.

Il problema è che la “versione di Johnson” dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea resta avvolta nelle nebbie del solito mantra conservatore “Brexit significa Brexit” (“Brexit means Brexit”): le questioni sul tappeto sono sempre le stesse, le soluzioni concrete continuano a latitare. La ragione fondamentale è che Johnson vuole quello che la Ue continua a dire di non essere disposta a concedergli: il libero accesso delle imprese e delle banche britanniche al mercato unico senza mantenere l’allineamento con le norme che regolano il mercato unico e senza sottostare alla Corte di giustizia europea che sovrintende alla corretta applicazione di quelle regole.

Figura 1 – Risultati elettorali del Regno Unito

Fonte: The Independent

Dopo le elezioni, l’atto più importante del nuovo Parlamento britannico è stata l’approvazione, il 24 gennaio 2020, dell’accordo di uscita dall’Unione Europea (“Brexit withdrawal agreement”), che disciplina aspetti cruciali quali la gestione degli impegni reciproci pregressi tra il Regno Unito e i restanti stati membri o i diritti degli immigrati europei oltremanica e degli immigrati britannici nel resto della Ue. Disciplina anche la gestione dei nuovi confini che a fine anno verranno eretti tra i sudditi di sua maestà e i cittadini dell’Unione.

La questione del confine

Quello dei confini resta un’annosa questione, commerciale e politica, soprattutto per quanto riguarda l’Irlanda del Nord. Gli irlandesi non vogliono il ritorno di un confine fisico tra le due Irlande perché temono di mettere a rischio l’Accordo del Venerdì Santo (Good Friday Agreement).

Con quell’intesa, di cui sono garanti gli Stati Uniti, nel 1998 si è posto fine a decenni di guerra civile strisciante tra i fautori dell’annessione dei territori nordirlandesi alla Repubblica d’Irlanda e i sostenitori della lealtà al Regno Unito. Per questo motivo l’Ue ha sempre chiesto, con gli irlandesi, che il confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord restasse invisibile (“no hard border”) anche dopo la Brexit. Il cortocircuito è che la richiesta, se soddisfatta, impedirebbe di fatto al Regno Unito di perseguire accordi di commercio internazionale in piena autonomia, restando di fatto uno “stato vassallo” dell’Unione in tema di politica commerciale contro lo spirito stesso della Brexit.

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Per capire di che cosa si tratta, pensiamo per esempio al ventilato accordo di libero scambio tra Regno Unito e Stati Uniti. Senza un confine con efficaci controlli doganali tra le due Irlande, le merci americane potrebbero entrare senza dazi in Irlanda del Nord, da lì nella Repubblica d’Irlanda e quindi nel mercato unico europeo. Ciò potrebbe avvenire anche senza un accordo parallelo di libero scambio tra Stati Uniti, origine delle merci, e Unione europea, loro destinazione. Inoltre, aspetto taciuto dal governo Johnson, lo stesso potrebbe accadere in direzione opposta alle merci europee, che a loro volta potrebbero entrare senza dazi nel mercato americano attraverso l’Irlanda del Nord, a dispetto dell’amico Donald Trump.

L’idea ottimistica di Johnson è che la questione irlandese rappresenti un problema solo transitorio perché si troverà presto una qualche ingegnosa soluzione tecnologica (per ora inesistente) che permetterà di effettuare controlli doganali virtuali senza la necessità di un confine fisico. In attesa che la tecnologia faccia la sua parte, la dogana potrebbe essere messa temporaneamente tra le due isole di Irlanda e Gran Bretagna (figura 2), sempre che i lealisti di Belfast non protestino troppo per essere stati abbandonati dalla loro sovrana in “territorio nemico”. Con buona pace della chiarezza su che tipo di Brexit ci possiamo aspettare.

Figura 2 – Irlanda del Nord: un piede in due staffe

Fonte: Bloomberg

Prime stime degli effetti sull’economia

Che cosa ci dicono i dati? In primo luogo, ci dicono che la crescita del Pil del Regno Unito è diminuita, portando il tasso di espansione dell’economia britannica dal vertice della classifica dei G7 a una posizione di rincalzo. Anche la produttività ha sofferto: non solo la sua crescita è rimasta stagnante, ma, cosa più preoccupante, il divario tra il Regno Unito e la media dei paesi Ocse in termini di produzione per addetto si è ulteriormente allargato (figura 3).

Figura 3 – Tasso di crescita del Pil pro capite del Regno Unito

Fonte: De Lyon e Dhingra

In secondo luogo, la sterlina si è notevolmente deprezzata. Durante la notte del referendum, il tasso di cambio nei confronti del dollaro è passato da 1,50 a 1,33 dollari per sterlina. La speranza era che quel crollo senza precedenti avrebbe portato a un boom delle esportazioni, ma questo non è avvenuto. Come mostra la figura 4, il valore delle esportazioni britanniche non è cresciuto di più di quello degli altri paesi del G7. In alcuni settori particolarmente esposti ai possibili effetti negativi della Brexit, come quello automobilistico, le esportazioni britanniche sono addirittura diminuite sia verso i paesi Ue sia verso quelli extra-Ue. A ciò si è aggiunto il calo degli investimenti diretti esteri nel Regno Unito.

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Figura 4 – Tasso di crescita delle esportazioni del Regno Unito

Fonte: De Lyon e Dhingra

In terzo luogo, dopo il referendum, anche la crescita del valore delle importazioni del Regno Unito ha subito un rallentamento, dovuto all’aumento del prezzo dei prodotti esteri in sterline (figura 5).

Figura 5 – Tasso di crescita delle importazioni del Regno Unito

Fonte: De Lyon e Dhingra

Non si tratta di una buona notizia: una quota importante dei prodotti è rappresentata da beni intermedi necessari al funzionamento delle fabbriche britanniche. Proprio i settori che ne fanno maggior uso sono quelli che, dopo il referendum, hanno mostrato una crescita dei salari più bassa e una riduzione degli investimenti delle imprese in formazione di forza lavoro specializzata. Così gli effetti negativi del referendum in termini di redditi più bassi e minori opportunità di sviluppo professionale riguardano soprattutto quei colletti blu che per la prima volta hanno votato i conservatori di Boris Johnson. Vi si aggiunge la diminuzione del potere d’acquisto, dovuta a un brusco aumento dell’inflazione dopo il referendum, con stime che indicano un tasso medio di 1,7 punti percentuali annui, equivalente a 7,74 sterline a settimana.

In sintesi, oggi l’economia reale d’oltremanica mostra segnali di rallentamento della crescita del Pil accompagnati da una stagnazione della produttività e dei salari reali, in controtendenza rispetto a prima del referendum. Sembra avvenire soprattutto in alcuni settori di importanza cruciale per i nuovi bacini elettorali del partito conservatore che ha voluto la Brexit. Se, come sembra, i nuovi elettori conservatori avranno di che preoccuparsi, Boris Johnson non dormirà sonni tranquilli.

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Culle vuote: i dati che ne spiegano le cause

  1. Francesca

    Solo una nota a margine.
    Vi rendete conto vero che in questo sito sono anni che si dice che: Brexit impossibile; gli inglesi si sono accorti di avere sbagliato; ora rifanno referendum; brexit morbida; sono le campagne a votare contro il moderno rappresentato da Europa; … .
    E poi ad ogni sacrosanto turno elettorale, perfino quello alla europee che avrebbe almeno dovuto dare un segnale, i fautori del STAY sono una ridicola minoranza.
    Delle due l’una: fate informazione e analisi sul campo o esprimete semplicemente desiderata di non so quale sponsor economico che vi foraggia?
    Solo una domanda la mia, dettata dalla lettura continua di analisi intrinsecamente fallate.

    • Francesco

      Cara Francesca la invito a contare i voti presi (non i seggi) da partiti Remain and Stay nell’ultima elezione. Semplice somma algebrica e mi dica chi è in netta maggioranza.

      https://www.bbc.com/news/election-2019-50779901

      Sugli effetti economici ne riparliamo tra 10 anni. Queste sono le previsioni fatte in UK

      https://www.niesr.ac.uk/sites/default/files/publications/NIESR%20Report%20Brexit%20-%202018-11-26.pdf

    • Catullo

      La Voce è in buona compagnia perché in tanti dicevano questo. Peraltro questo concetto viene ripetuto ad ogni vittoria delle destre più o meno populiste in Europa.

    • Luca

      Ridicola minoranza? Di ridicolo c’e’ la storiella che contro la Brexit ci sarebbero i poteri forti. Infatti Mr Johnson arriva da umile famiglia dei sobborghi di Liverpool…… vero? Poi tra qualche mese ci toccherà tutti pagare x il visto di ingresso in UK

    • Amegighi

      Mi scusi, non spetta a me difendere gli economisti e analisti della Voce.info. Ma nel suo commento non esiste un dato straccio a supporto delle sue affermazioni. Lei sta contrapponendo dati analizzati e numeri all’opinione espressa da persone. Se volessimo essere ancora più seri, il 43% dei cittadini non è la maggioranza dei cittadini…ma questo è un problema elettorale e non voglio discuterne. Anche Lei giustamente può avere un’opinione, ma non credo che voglia mettere in discussione che 1+1=2. O invece mi sto sbagliando ?
      Ho l’impressione che le persone tendano a guardare le analisi dei dati come ad un giochetto fatto da persone in grado di divertirsi, i cui risultati poi devono essere immediati come i like del telefonino.
      Simile atteggiamento ha portato a disastri, regolarmente misconosciuti da chi li ha creati. Se vuole Le posso citare la situazione della Xylella e la distruzione della produzione di olio pugliese, il riscaldamento globale, l’inutilità e pericolosità dei vaccini di cui ora ovviamente nessuno parla.
      Cerchiamo di darci una calmata e soprattutto ragioniamo. Sui numeri e sui dati si ragiona concretamente. Se non sei daccordo devi produrre altrettante analisi (sugli stessi numeri) che supportino la tua ipotesi. Altrimenti 1+1=2; 3; 4.5; 10.2345; eccetera

    • Antonio Carbone

      Johnson ha fatto ampio ricorso (eufemismo) alle bufale per sostenere le sue campagne politiche:
      dall’affermazione secondo la quale ogni settimana il Regno Unito inviava 350 milioni di sterline a Bruxelles (cosa ovviamente non vera) alla “aringa incartata per colpa dell’Ue” (ma la legge che lo stabilisce è britannica).
      Il fatto che abbia avuto successo elettorale, non rende tutto a un tratto vere le sue panzane e “fallate” le posizioni di chi cerca di analizzare qualche dato.
      Le elezioni servono solo a decidere chi avrà il potere di decidere! Non chi ha ragione.
      Questo errore, fatale per la democrazia, è proprio quello che induce a ritenere, come fa la gentile Francesca, il 48,11 % degli inglesi che erano per lo STAY, “una ridicola minoranza”.
      Quando i terrapiattisti diventeranno maggioranza, la terra continuerà ad essere una sfera bitorzoluta. Pazienza.

  2. Michele Lalla

    Si parlava del muro di Berlino, ma il “£muro£” c’è stato e ci sarà in Irlanda del Nord. Si tratta di un obbrobrio. Direi, l’Irlanda agli irlandesi! … Alla faccia di quelli che parlavano e parlano tanto del muro di Berlino … Gli argomenti economici, giusti o sbagliati, non dovrebbero essere decisivi sull’exit o remain; perché l’economia UK (per quanto detto, meglio solo inglese) dopo qualche anno potrebbe risalire. Bisognerebbe essere europeisti a prescindere e bisogna andare avanti con l’unificazione: l’unione fa la forza … ma tanto, come chi ha commentato, uno spera che con la divisione, prima del Lombado Veneto dall’Italia, poi l’Italia dall’Europa, ma sono sempre gli stessi suonatori stonati e male interpretati dagli elettori, almeno quelli del Sud, uno spera di guadagnarci, dimenticando che l’egoismo porta all’isolazionismo. Appena parte l’azione di autodifesa degli altri, questi vili-coraggiosi súbito dicono che scherzavano. Ecco: sono di quelli che vogliono “la moglie piena e la botte ubriaca”. Un chiaro chiasmo.

  3. donata lenzi

    sulle analisi del voto suggerisco “the revenge of the places that don’t matter (and what to do about it) di Rodriguez-Pose . il titolo dice già tutto. il paradosso è che sel astrada scelta da Johnson darà quelle della finanza, Londra come Singapore allora gli sconfitti della globalizzazione non en avranno alcun vantaggio

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