Il governo ha rinviato al 2021 l’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi di impresa. Nella riforma ci sono elementi di rigidità e un ruolo del giudice che ostacolano i suoi stessi obiettivi. Sfruttiamo il tempo a disposizione per migliorarla.

Il rinvio della riforma della disciplina della crisi

Tra i provvedimenti d’emergenza assunti dal governo per contrastare le conseguenze economiche del Covid-19 vi è la posticipazione dell’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa (Cci), emanato all’inizio del 2019. La legge riforma l’intera materia del fallimento (che ora si chiamerà “liquidazione giudiziale”) e delle procedure per prevenire o risolvere le situazioni di crisi e si applica a tutte le imprese, escluse solo banche, intermediari finanziari e grandi imprese. Salvo alcune previsioni già in vigore, relative alla gestione e organizzazione delle imprese anche non in crisi, il grosso delle novità doveva essere applicato dall’agosto di quest’anno. Il decreto legge n. 23 dell’8 aprile, tuttavia, sposta il termine di un anno, a settembre 2021.

Il Cci ambirebbe a facilitare il risanamento delle aziende in difficoltà, trattare meno severamente le insolvenze e anticipare l’emersione della crisi, tuttavia il differimento si giustifica per evitare che i tribunali e gli operatori, che nei prossimi mesi saranno verosimilmente (e tristemente) impegnati con numerose insolvenze e tentativi di risanamento, si trovino ad applicare una disciplina nuova, complessa e non rodata. Meglio quindi, ha ragionato il governo, continuare con la collaudata, seppur perfettibile, legge fallimentare già in vigore.

Il più lungo periodo prima dell’applicazione del Cci consente di riflettere sulle nuove regole, valutare cosa non funziona e proporre miglioramenti. Ciò sia perché un anno passa comunque in fretta e vi è ragione di temere che l’onda lunga della pandemia farà vittime economiche anche nel 2021; sia perché al governo è stato dato il potere di integrare e correggere il Cci e conviene sfruttare la pausa forzata imposta dal lockdown; sia perché occorrerà tener conto di alcune norme europee nel frattempo emanate.

Il concordato: uno strumento maltrattato ma essenziale

Qui vogliamo concentrarci su un punto specifico: il concordato preventivo (articoli 84-120 Cci).

Si tratta di una procedura giudiziale per risolvere situazioni di crisi o di insolvenza, che si affianca ad altri strumenti, con l’obiettivo di preservare la continuità aziendale o attuare la liquidazione evitando il fallimento, secondo modalità concordate con la maggioranza dei creditori e sotto il controllo del tribunale. Proprio il ruolo del giudice, come ridisegnato dalle nuove regole, è però eccessivamente penetrante e sconfina in aree nelle quali ha dubbie competenze. In diverse fasi della procedura, il tribunale è chiamato a verificare non solo la fattibilità “giuridica” del piano di ristrutturazione, come nell’attuale disciplina, ma anche quella “economica”. Questi poteri andrebbero limitati, oltretutto perché ci sono già le valutazioni degli esperti e degli stessi creditori. Anche la disciplina europea è improntata a un ruolo meno invasivo del giudice, che ha l’ulteriore vantaggio di non sovraccaricare la giustizia civile, già in affanno.

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Condizioni poco sensate

Un altro limite del concordato in continuità, che prevede la conservazione dell’attività aziendale e quindi è economicamente “meno traumatico”, è l’averlo condizionato al fatto che i flussi positivi derivanti dall’esercizio dell’impresa superino quelli della liquidazione. Non ha senso: per quale ragione non dare possibilità a una società in difficoltà con la liquidità, ma con un consistente patrimonio, la cui cessione renderebbe poco di più di una gestione d’impresa che comunque genera flussi positivi? Sarebbe come dire che, a parità di prospettive di risanamento, e con l’accordo dei creditori, può continuare a lavorare un artigiano che affitta il proprio laboratorio, ma non uno che ne è proprietario, solo perché vendendo l’immobile otterrebbe più denari.

Il concordato liquidatorio, che prevede la disgregazione dell’azienda ma senza il trauma del fallimento, è relegato a un ruolo marginale: è infatti necessario un apporto minimo di risorse finanziarie esterne penalizzante e problematico. La procedura è percorribile solo se viene immessa finanza fresca che aumenti di almeno il 10 per cento la soddisfazione dei creditori rispetto a una liquidazione giudiziale per insolvenza. Posto che nel concordato liquidatorio i creditori – che hanno accettato il progetto – devono per legge ricevere almeno il 20 per cento dei propri crediti, perché aggiungere questa condizione, difficile da ottenere e che magari non risponde alla logica imprenditoriale?

Livelli occupazionali e voto dei creditori

Altri tre punti, tra i tanti, sono poi da segnalare in modo particolare. Il concordato in continuità aziendale con sostituzione dell’imprenditore è condizionato al mantenimento, per un certo periodo, di livelli occupazionali significativi (metà dei dipendenti). Sarebbe un risultato auspicabile, ma la realtà è purtroppo diversa. Quando si giunge al concordato è spesso impossibile mantenere quelle soglie di dipendenti, con una evidente eterogenesi dei fini: la condizione può risultare insuperabile, scoraggiando l’intervento di terzi e conducendo alla liquidazione, con perdita di tutti i posti di lavoro. Quei limiti andrebbero resi più flessibili.

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I concordati devono poi essere approvati dai creditori con specifiche maggioranze. Si è però persa l’occasione per reinserire forme di silenzio-assenso che facilitano l’accordo, soprattutto quando il debito è polverizzato tra tanti piccoli creditori. Discutibile è anche la doppia maggioranza dei creditori, per percentuale di credito e per teste, quando un singolo detiene oltre il 50 per cento del credito: chi controlla la maggioranza del credito e intende sostenere la manovra – così come l’imprenditore, i lavoratori e l’indotto – è esposto al rischio del voto contrario di numerosi piccoli creditori.

Si dovrebbero, infine, rafforzare gli automatismi per cui sono sospese le azioni dei singoli creditori, una volta avviato un tentativo di risanamento. L’assenza di questa pausa di respiro rischia di far affondare l’operazione.

In sintesi, la riforma contiene elementi di rigidità e un ruolo del giudice che ostacolano i suoi stessi obiettivi, frutto di un’impostazione teorica che difetta di senso pratico, timida nella portata innovativa, e poco in linea con l’evoluzione europea e il dibattito internazionale.

Speriamo che il tempo a disposizione, le esperienze drammatiche della crisi economica e le aperture del governo consentano di porvi rimedio.

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