Nel giudicare l’equità del trasferimento di risorse implicito nel finanziamento pubblico degli atenei va considerato che i benefici associati all’acquisizione della laurea sono per lo più individuali. E una parte preponderante dei contribuenti meno abbienti non ha figli iscritti all’università.
LA LAUREA, CHI LA FINANZIA E CHI NE BENEFICIA
Giudicare l’equità del sistema di finanziamento dell’università è difficile, sia per le limitazioni dei dati disponibili, sia per problemi concettuali che attengono alla natura dell’investimento in istruzione superiore.
In un articolo sul Corriere della sera del 10 dicembre 2012 e nella versione a stampa del nostro libro avevamo posto la questione in questi termini: qual è il saldo tra quanto ciascuna classe di reddito riceve del servizio offerto dall’università e quanto paga per finanziarlo? (1) Avevamo dato una risposta che, utilizzando i dati allora a disposizione, richiedeva l’integrazione di due fonti diverse e per questo soffriva di una limitazione. Di questa limitazione ci siamo in seguito resi conto, anche grazie a nuovi dati non ancora pubblici che solo recentemente abbiamo potuto avere dalla Banca d’Italia. Soprattutto, ci siamo convinti che la questione vada posta in termini diversi, più coerenti con la natura fondamentalmente privata dei rendimenti dell’investimento in istruzione superiore. Nella versione elettronica del libro, così come nell’intervento su Scienza in Rete del 5 gennaio 2013, la affrontiamo quindi chiedendo: ci sono cittadini poveri che pagano per finanziare il servizio offerto dall’università senza usufruirne? Quanti sono? Quanto pagano? E chi riceve il trasferimento da loro effettuato?
Il contributo di Ugo Gragnolati e Emanuele Pugliese ritorna a porre la questione nei termini in cui l’avevamo originariamente formulata. Utilizzando i nuovi dati, che noi stessi abbiamo loro fornito, possono superare la limitazione del nostro primo calcolo e ottengono una risposta diversa da quella che avevamo dato noi. Dati i termini in cui tornano a porre la questione, la loro è la risposta corretta.
Ma quel che loro affermano non è in contrasto con le conclusioni derivanti dal nostro nuovo modo di porre la questione, che crediamo sia quello giusto per giudicare dell’equità del finanziamento dell’università. Quelle conclusioni ci portano a confermare l’idea che ci sia un trasferimento dai poveri ai ricchi; non si tratta però di tutti i poveri, come inizialmente pensavamo e come è giustamente negato dall’analisi di Gragnolati e Pugliese, ma di un gruppo preponderante: quelli che non mandano i propri figli all’università. Vediamo perché.
Il nostro calcolo iniziale si basava sull’integrazione tra i dati del dipartimento delle Finanze e quelli dell’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, che rileva solo il reddito al netto delle imposte, non quello lordo. La difficoltà dell’integrazione deriva dal fatto che l’Irpef è pagata dai singoli percettori di reddito (e quindi a loro si riferiscono i dati delle Finanze), mentre gli studenti universitari sono associati a famiglie di cui possono fare parte numerosi percettori. Non è agevole quindi una corrispondenza tra le due fonti che consenta di associare univocamente ciascuno studente con le tasse pagate da chi guadagna nella sua famiglia. Il problema può essere superato utilizzando nuovi dati non ancora pubblici, prodotti da ricercatori della Banca d’Italia e che abbiamo potuto avere dopo la stampa del libro: i dati contengono una ricostruzione analitica dell’Irpef effettivamente pagata dai percettori dell’indagine della Banca d’Italia e dei redditi familiari e personali al lordo dell’imposta.
Anche indipendentemente dalla disponibilità dei nuovi dati, crediamo però che l’equità del trasferimento di risorse implicito nel finanziamento pubblico dell’università vada affrontata in un modo diverso, più coerente con la natura dell’investimento in istruzione superiore. Come argomentiamo diffusamente nel libro, i benefici associati all’acquisizione di una laurea sono, almeno in larga parte, individuali: chi ha provato a misurare i benefici indiretti di cui godrebbero i cittadini non in possesso di un’istruzione superiore, semplicemente come conseguenza del fatto che dei loro concittadini hanno invece acquisito quel livello di istruzione, ha trovato poco o nulla. (2) Nel gergo economico, le esternalità associate all’istruzione superiore sembrano essere modeste. Quindi, se vogliamo valutare i benefici netti derivanti dal servizio universitario, una famiglia povera senza figli all’università è in una posizione molto diversa da una che, pur con lo stesso reddito, ha figli universitari; piuttosto che guardare ai trasferimenti tra classi di reddito, sembra più appropriato tenere conto anche della presenza o meno di figli universitari, adottando una classificazione bivariata.
TRASFERIMENTI COMUNQUE INIQUI
Definiamo poveri quei percettori di reddito che guadagnino meno di 31mila euro lordi all’anno e appartengano a famiglie in cui nessun percettore guadagni più della stessa cifra. La soglia corrisponde a circa 1.600 euro netti mensili per un lavoratore dipendente senza familiari a carico. Questi percettori sono (su dati 2010; nella versione elettronica del libro riportiamo questi conti per il 2008) poco meno dell’80 per cento di chi paga l’Irpef in Italia; una parte consistente di essi (che corrisponde al 70 per cento del totale dei contribuenti Irpef) vive in famiglie di cui non fanno parte studenti universitari. Quindi, il 70 per cento dei contribuenti sono relativamente poveri e non ricevono alcun servizio diretto dagli atenei italiani. D’altro canto, pagano il 37 per cento dell’Irpef. Contribuiscono perciò, per il 37 per cento, a finanziare tutta la spesa pubblica, anche quella per l’università. Dati i quasi 7 miliardi annui spesi dallo Stato per gli atenei (ci limitiamo al solo Ffo), possiamo allora concludere che il 37 per cento di questa spesa, ossia circa 2,5 miliardi, è finanziata da contribuenti poveri che non ricevono alcun servizio diretto dal sistema universitario, perché non hanno figli all’università.
Chi beneficia di questo finanziamento? Una parte dei beneficiari sono gli studenti universitari appartenenti alle famiglie relativamente più abbienti, ossia quelle in cui almeno un percettore di reddito guadagna più di 31mila euro lordi. Questi studenti sono quasi il 40 per cento del totale (sempre nel 2010) e quindi le loro famiglie ricevono quasi 1 miliardo di euro all’anno dai percettori poveri che pagano l’Irpef e non hanno figli (o altri parenti conviventi) all’università. A noi sembra indiscutibile che questo sia un trasferimento iniquo.
La restante parte dei 2,5 miliardi va a finanziare gli studenti universitari provenienti invece dalle famiglie composte da contribuenti altrettanto poveri, ma con figli all’università; da queste famiglie proviene circa il 60 per cento degli studenti universitari. Si tratta, in questo caso, di un trasferimento “tra poveri”: da quelli senza a quelli con figli all’università.
È lecito pensare che, essendo un trasferimento tra poveri, non debba destare problemi di equità. Noi lo interpretiamo invece come un trasferimento verso i ricchi di domani. Sappiamo, confortati da un’ampia evidenza nazionale e internazionale, che uno studente universitario guadagna molto dal conseguimento di una laurea, e quindi l’affermazione che gli studenti universitari di oggi siano (mediamente) i ricchi di domani ci sembra abbia una solida base empirica. Quindi anche la seconda componente del trasferimento ci sembra iniqua: se uno di questi studenti universitari provenienti da famiglie povere dovesse diventare in futuro un brillante professionista, per quale motivo avrebbe diritto all’ingente regalo ricevuto da altri poveri che non traggono alcun beneficio diretto dal suo successo professionale?
Comunque la si pensi su questo ultimo aspetto, tuttavia, resta il fatto che una parte preponderante dei contribuenti meno abbienti finanzia l’università senza beneficiarne, e che quasi la metà del trasferimento implicito di risorse va a favore di contribuenti più abbienti. Osserviamo peraltro che la nostra stima di quanto grande sia questa parte è verosimilmente per eccesso, poiché alcuni di coloro che oggi non hanno figli all’università possono averli avuti nel passato, o averli nel futuro. Per fare una valutazione più accurata servirebbero dei dati longitudinali, che non abbiamo. Sappiamo però che la mobilità sociale nel nostro paese è molto bassa, e quindi non crediamo che un’analisi più accurata darebbe risultati significativamente diversi.
Per concludere, l’analisi di Gragnolati e Pugliese giustamente rileva, correggendo nostre precedenti affermazioni, che se consideriamo i poveri nel loro insieme essi beneficiano dal finanziamento pubblico dell’università, perché la progressività dell’imposta è sufficiente a compensare il ridotto utilizzo che fanno di questo servizio. Tuttavia, è solo una parte limitata di questi poveri che realmente riceve un ingente trasferimento netto positivo: i pochi che mandano i loro figli all’università. La parte preponderante paga senza ricevere nulla.
Inoltre, pensiamo che abbia ragione Kenneth Arrow quando sostiene che l’utilizzo di risorse pubbliche nell’istruzione terziaria porta all’effetto paradossale di aumentare la disuguaglianza nella società: chi frequenta l’università proviene prevalentemente da famiglie che già hanno risorse intellettuali maggiori e talento superiore; quindi finanziare i loro studi con denaro pubblico significa dotarle di strumenti che rafforzeranno il loro vantaggio, a spese degli altri. (3)
Infine, osserviamo che se anche si volesse effettuare un intervento redistributivo attraverso il finanziamento dell’università, sembrerebbe più trasparente e soprattutto meno aleatorio realizzarlo attraverso tasse universitarie opportunamente differenziate in modo progressivo, cioè che incidano proporzionalmente di più sui redditi familiari più elevati (ben diverse da quelle attualmente previste nelle università pubbliche del nostro paese): nella situazione attuale il grado di trasferimento tra classi di reddito finisce per dipendere dalle decisioni decentrate e indipendenti delle famiglie circa l’iscrizione dei propri figli all’università, invece che da una scelta consapevole ed esplicita del Parlamento, come invece crediamo che dovrebbe essere per ottemperare al dettato costituzionale.
(1) Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, Facoltà di scelta, Rizzoli, 2013.
(2) Una stima per l’Italia è in Federico Cingano e Piero Cipollone, “I rendimenti dell’istruzione”, QEF, Banca d’Italia, 2009; un’altra, fatta per numerosi paesi, è in George Psacharopoulos, “Returns to Investment in Higher Education: A European Survey”, 2009.
(3) Kenneth Arrow, Education Economics, Volume 1, Issue 1, 1993.
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giulio savelli
Alcuni dubbi. 1) “i benefici indiretti di cui godrebbero i cittadini non in possesso di un’istruzione superiore” sarebbero insignificanti. Sono infatti molto difficili da valutare, ma sono invece valutabili i benefici per un Paese. La quantità di laureati è un grossolano ma affidabile indicatore del grado di sviluppo di un Paese: e non si intende solo il Pil, ma la qualità complessiva della vita, di cui beneficiano indirettamente tutti i cittadini. Lo sforzo per l’Italia dovrebbe concentrarsi sull’aumento del numero di laureati, a cui corrisponderebbe anche una diminuzione del numero di famiglie povere che non hanno figli all’università. 2) Il 60% degli universitari viene da famiglie povere, e costoro, ingiustamente, saranno “i ricchi di domani”. Qui ho due perplessità. La prima è perché si debba considerare il miglioramento del reddito da una generazione all’altra una iniquità. I poveri da cui i “ricchi di domani” ricevono il denaro (quello speso dallo Stato nel finanziare l’università) è il denaro delle loro famiglie di origine. Che i genitori facciano sacrifici per l’istruzione dei figli è difficile considerarlo iniquo. La seconda perplessità è nell’incerta misura della “ricchezza di domani”. Quanto guadagna in più, mediamente, un neolaureato rispetto a un giovane diplomato, oggi, in Italia? E’ questa differenza, temo non enorme, la misura della ricchezza “espropriata” ai poveri in favore dei futuri ricchi.
giulio savelli
Più in generale, ho dei dubbi sul criterio di “equità” proposto da Ichino e Terlizzese. Perché chi non ha figli deve pagare per le scuole materne, elementari e medie? Perché chi ha una salute di ferro deve pagare i costi della sanità pubblica? Perché chi non usa il trasporto collettivo (e magari va a piedi o in bicicletta, perché “povero”) deve contribuire a mantenere basse le tariffe? Insomma, se non usufruiamo di un servizio pubblico, costoso per la collettività, e magari non siamo affatto ricchi, perché lo facciamo? Considerarsi parte di una collettività, anziché di un condominio, è fonte intrinseca di iniquità?
PB
Ma i figli delle diverse classi sociali non si distribuiscono egualmente fra le varie discipline (Lucas, 2001 AmSocRev): di qs fatto non ne tenete conto, quindi assumere che
“gli studenti universitari di oggi siano (mediamente) i ricchi di domani ci sembra abbia una solida base empirica.” non e’ cosi’ corretto (ok, dipende da cosa intendiamo con “mediamente”). Alcuni avranno rendimenti individuali molto piu’ elevati di altri, e c’e’ un sicuro effetto “origine sociale” in questi differenziali di accesso alle discipline ad elevati rendimenti.
Ettore
La soluzione proposta nell’articoo è più che condivisibile, ovvero una maggior progressività delle tasse universitarie, la cui formulazione odierna conduce al frequente paradosso di incidere molto meno sulle famiglie più ricche. Dopo una opportuna revisione dell’ISEE, si potrebbe, non bastasse un aumento delle fasce di contribuzione, adottare un meccanismo di diretta proporzionalità tra l’indicatore e le tasse da pagare, abbandonando, almeno in parte, la logica degli scaglioni, o applicando tale metodologia sopra un certo ISEE.
Vari dubbi però sulla presunta iniquità dei trasferimenti tra poveri -beneficiari e non- dell’istruzione universitaria. Posto che che il capitale umano è un fattore indispensabile per la crescita economica ma anche culturale di un Paese, i benefici indiretti derivanti dall’istruzione d’eccellenza altrui dovrebbero in gran parte compensare la presunta iniquità del pagamento per un servizio di cui non si è goduto direttamente. Altrimenti, sono da considerare inique tutta la parte di imposte versate per servizi -anche essenziali- di cui non si gode in prima persona: sanità, trasporto pubblico etc etc..
Emanuele Pugliese e Ugo Gragnolati
Essendo gli autori dell’articolo citato nel testo, vorremmo aggiungere tre commenti che riteniamo siano utili alla discussione.
1) Quando abbiamo trovato risultati diversi dai loro, I&T si sono mostrati da subito molto gentili e ci hanno fornito i loro dati. Abbiamo deciso di usarli per favorire la comparabilità tra nostri risultati ed i loro più recenti. Tuttavia, anche con i dati precedenti, a noi risultava che fossero i “ricchi” a trasferire risorse ai “poveri”.
2) Il nostro scopo era, per citare Ichino e Terlizzese, “sgombrare il campo da dissensi su aspetti meramente fattuali”. Il risultato empirico di un trasferimento dai poveri (di oggi) ai ricchi (di oggi) descritto sul Corriere e sul libro Facoltà di Scelta era molto impressionante e, trovandolo inesatto, ci è sembrato utile correggerlo. Mi sembra che l’obbiettivo sia raggiunto e ci sia ora accordo sulla questione fattuale.
3) La nuova argomentazione di Ichino e Terlizzese, riguardo un trasferimento da chi non usa un servizio a chi lo usa, ci pare molto meno informativa rispetto a quella precedente, nel senso che è automaticamente vera per qualsiasi servizio pubblico finanziato attraversi la fiscalità generale invece che al consumo. Ad esempio, in un sistema di sanità pubblico, i sani finanziano le cure dei malati per tutta la parte di spesa non coperta dai ticket. In questo senso, riscontrare una “inquità” nel trasferimento tra “poveri” fruitori e “poveri” non fruitori sembra meno pregnante…
piero r
Breve rejoin (anche ad Ettore), consapevole di una possibile accusa di bulimia. L’argomento del trasferimento orizzontale “inter poor” non può essere esteso in modo indifferenziato a tutti i servizi collettivi a domanda individuale (es. sanità, TPL) in quanto l’istruzione, a differenza di questi, ha la peculiarità di accrescere il reddito permanente del beneficiario grazie al migliormento del suo capitale umano. Ergo si tratta oggettivamente un caso più delicato …
Emanuele Pugliese
Scrivo ora solo a mio nome, non perché vi sia disaccordo ma perché Ugo non è nelle vicinanze 🙂 Probabilmente non siamo stati chiari: almeno personalmente non trovo il nuovo argomento di I&T estraneo al dibattito o tantomeno sbagliato, anzi: il tema della mobilità verticale, e se considerarlo un costo o un valore, è centrale.
Mi lasciava invece perplesso, da cui il punto 3) del commento precedente, la necessità di dimostrarlo empiricamente: è un punto in discussione che i servizi pubblici compino un trasferimento da chi non li usa a chi li usa?
Andrea V
Le tasse sono secondo la Costituzione il contributo che ciascun cittadino della Repubblica fornisce allo stato per erogare servizi in ragione delle necessità generali, per cui è errato misurare costo beneficio sul singolo individuo.
Sullo specifico della istruzione universitaria, l’ideale dovrebbe essere una Università pubblica, efficiente con professori ben pagati e sottoposti ad un rigoroso controllo di qualità accademico e didattico, a cui accedano i cittadini meritevoli in modo totalmente gratuito (corsi, libri, alloggi, argent de poche), attraverso una selezione basata esclusivamente sul merito.
Esempi ideali di questo tipo sono ENA, Ecole normale superieure e Ecole Polytechnique.
Le università private, dovrebbero al contrario essere sottoposte al puro mercato senza alcun intervento o contributo dello stato e quindi totalmente a carico degli iscritti.
Se si vuole essere liberisti, lo si deve essere fino in fondo, vero? o no?
piero r
L’analisi è consequenziale e convincente. Da profano, mi chiedo se l’intensità delle conclusioni non debba essere un poco attenuata, posto che: a) le esternalità sociali dell’istruzione sono verosimilmente maggiori di quelle rilevabili empiricamente (tuttavia confesso di non conoscere i due lavori citati); b) esistono evidenze OCSE (riportate ad esempio in I. Visco, Investire in conoscenza, 2009) che evidenziano come il rendimento differenziale privato dell’high education è in Italia minore che altrove. Saluti cari.
Tomaso Pompili
Alcuni numeri non tornano, forse: una tabella aiuterebbe.
secondo I&T: percettori poveri totali = 80% e percettori poveri senza figli all’università = 70%
ne deduco: percettori ricchi = 20% e percettori poveri con figli all’università = 10%
secondo I&T: studenti figli di percettori ricchi = 40% studenti figli di percettori poveri = 60%
ne deduco: queste famiglie povere hanno molti più figli e li mandano tutti all’università
mi pare alquanto strano: forse gli autori hanno scambiato 60 e 40?
Non che la correzione indebolisca l’argomentazione degli autori …
DDPP
Sono un pò perplesso per le argomentazioni riporatte.
Tre riflessioni.
a) Se andiamo a prendere qualsiasi capitolo della spesa pubblica ci sono persone che non partecipano alla distribuzione di quel capitolo nche se contribuiscono pesantemente. Ad esempio, perchè devo contribuire agli oneri accessori dell’INPS (maternità, disoccupazione, moblità ecc.) se non ne usufruirò? Perchè, se sono un giovane devo sostenere sia con contributi che con imposte sul reddito al pagamento delle attuali pensioni di cui beneficerò in misura minimale?
b) Dato per giusto l’assunto costituzionale che devo pagare le imposte sul reddito in misura più che proporzionalmente al mio reddito. non capisco perchè dovrei pagare anche i servizi in misura proporzioanle al mio reddito. Saranno le imposte più che proporzioanli sul mio reddito a pagarli!!
c) Se il costo dell’università pubblica per i miei figli mi aumenta (più che proporzionalmente al mio reddito) forse preferirò sceglierne una privata. Forse avrò un servizio migliore e sicuramente non mi toccherà subire le vessazioni di pubblici impiegati inamovibili. Se pagherò qualcosa in più posso sempre pensare che sarà una soddisfazione ben pagata!
Rick
La vostra proposta, se posso riassumerla in due parole usando anche quanto da voi scritto in altri articoli, sarebbe quella di
(i) differenziare maggiormente le tasse universitarie per fasce di reddito
(ii) incrementare il finanziamento delle università tramite le tasse universitarie (riducendo quindi la quota di finanziamento derivante dalla tassazione generale), fornendo prestiti d’onore agli studenti non in grado di pagare la retta, il modello inglese in sostanza.
Mi vengono in mente 3 critiche, in ordine di importanza
1) Un qualunque aumento delle tasse universitarie diminuisce la domanda, cioè il numero di studenti iscritti. A riprova, da quando in Inghilterra hanno triplicato le tasse universitarie istituendo un meccanismo simile rispetto a quello da voi proposto, il numero di studenti iscritti alle università si è ridotto del 10% in un anno. Inutile ricordare che in Italia siamo sotto la media OCSE come numero di laureati quindi otteremmo un effetto di policy opposto rispetto a quello auspicabile
2) Il sistema funziona perfettamente se ipotizziamo che un ragazzo di 18 anni sia neutrale rispetto al rischio. Ma una persona avversa al rischio avrebbe più difficoltà a contrarre un debito di molte migliaia di euro a 18 anni per frequentare l’università, a fronte di un ritorno incerto. E anche se parte del debito potrebbe venire condonato dallo stato se il ragazzo non riuscisse poi a restituirlo, il solo impatto psicologico di un debito di 20-30.000 euro per…
Matteo
Vorrei capire in base a quale ragionamento la ‘soglia di povertà’ viene posta a 31 mila euro lordi (1600 euro netti mensili per dipendente senza familiari a carico’.
meteorite
Ma perché non fate una proposta seria?
1) Durata dei corsi di laurea di soli 3 anni o 15 esami.
2)Università o ricevono i finanzziamenti pubblici o le rette deegli studenti (lı una esclude lı altra)
3) le Università fondate da imprenditori rivolte alla formazione di imprenditori che vogliono approfondire temetiche riferite alla loro attività professionale
4) materie e corsi di laurea attinenti ad imprese e management tenuti da veri manager e veri imprenditori e non da professori universitari
5) abolizione del valore legale del titolo di studio, nel senso che se un diplomato è più preparato di un laureato ha il diritto di avere progressione di carriera superiore al laureato
6)promozione di esami singoli senza dover necessariamente sostenere gli esami di un intero corso di laurea
7) corsi e materiale didattico diffuso su internet ed esami sostenuti solo scritti
8)poter accedere alle professioni formandosi anche tramite praticantato e studio individuale (come da poco fanno in Inghilterra)
9) Università aperte anche ai 50 enni che devono riformarsi
10)promozione degli istituti tecnici superiori