Le difficoltà incontrate nel passare dalla definizione delle misure di sostegno dell’economia durante la pandemia alla loro realizzazione sono figlie di un assetto amministrativo che non persegue il benessere collettivo. E l’Inps non fa eccezione.
Una delle tante criticità che la pandemia Covid-19 ha fatto emergere è la difficoltà del governo di passare dalla definizione legislativa delle misure di sostegno dell’economia alla loro realizzazione. La ragione risiede in una generale inadeguatezza del processo decisionale dell’apparato amministrativo pubblico rispetto ai tempi di esecuzione dei provvedimenti che non costituiscono quasi mai un obiettivo vincolante. Regole farraginose e insufficienti incentivi e disincentivi posti dal legislatore all’azione del personale dirigente ne sono la causa principale, se non esclusiva.
La riforma mai realizzata
A questa inadeguatezza non fa eccezione l’Inps la cui architettura di governo (la cosiddetta governance) risulta poco funzionale a garantire la speditezza dell’azione amministrativa a causa della numerosità degli organi che intervengono nel processo decisionale (ben sei), della loro pletoricità (35 componenti tra Consiglio di amministrazione, Consiglio di indirizzo e vigilanza e Collegio sindacale) e, soprattutto, a causa di una non sempre chiara separazione delle competenze tra i suoi organi di vertice. Le lungaggini decisionali dell’apparato pubblico, se in generale sono mal sopportate dalla cittadinanza, non possono essere tollerate quando investono un ente pubblico che il legislatore ha posto a garanzia del patto solidaristico intergenerazionale.
Che l’impianto disegnato dal legislatore del 1994 (con il decreto legislativo n.479/1994) sia da rifondare è chiaro agli addetti ai lavori oramai da più di due decenni. Ma, nonostante le dichiarazioni di impegno dei Governi che si sono avvicendati, la riforma della governance dell’Inps – fatta eccezione per l’adozione di interventi estemporanei e contraddittori tra commissariamenti e ripristino di vecchi schemi – è in realtà rimasta lettera morta.
L’ultimo intervento sull’assetto organizzativo dell’Inps, operato con l’art. 25 del Dl 28 gennaio 2019 n. 4, si è semplicemente limitato a restaurare il vecchio – e oramai superato – schema di governo anziché riformarlo. In luogo della chiara ridefinizione dei confini delle competenze degli organi esistenti, lo ha addirittura complicato ulteriormente introducendone un altro: quello del vice presidente, i cui compiti evanescenti sono stati recentemente al centro dell’attenzione del controllo interno all’Inps operato dalla Corte dei conti.
L’assetto attuale
L’attuale ordinamento degli enti previdenziali prevede la coesistenza di ben sei organi: il presidente; il vice presidente; il Consiglio di amministrazione (Cda), composto di cinque componenti designati dal governo tra i quali figurano il presidente e il vice presidente; il Consiglio di indirizzo e vigilanza (Civ), di cui fanno parte ventidue componenti designati dalle parti datoriali e sindacali; il Direttore generale (Dg); e infine il Collegio sindacale (Cs), di cui fanno parte otto componenti in rappresentanza del ministero del Lavoro e dell’Economia.
È necessario ricordare che la riforma del 1994 rappresentò un passo obbligato per adeguare l’organizzazione degli enti previdenziali al principio della separazione tra l’indirizzo politico amministrativo, demandato al ministro, e l’attività gestionale, demandata alla dirigenza pubblica, introdotto per la pubblica amministrazione dal d. lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993. Per gli enti previdenziali tale separazione fu ulteriormente articolata separando l’indirizzo politico strategico da quello politico amministrativo con l’introduzione del cosiddetto modello “duale” della governance. In sostanza vennero attribuiti il primo al Civ e il secondo al Cda.
Questo assetto, dove un organo propone (Dg), uno delibera (Cda) e l’altro approva (Civ) nel caso, per esempio, di atti fondamentali quali l’approvazione dei bilanci preventivi e consuntivi, dei piani di impiego delle risorse, della dotazione organica, dell’ordinamento dei servizi, rende bene l’idea della complessità procedimentale e temporale che ha costretto il ministero del Lavoro a intervenire più volte con apposite direttive per dirimere i contrasti interpretativi sorti tra gli organi. Contrasti che hanno anche avuto come conseguenza il ricorso all’esercizio provvisorio a causa della mancata approvazione del bilancio preventivo da parte del Civ (Bilancio preventivo per l’anno 2017) ma che, soprattutto, sollevano il dubbio di come si possa sostenere che alcune delle competenze sopra ricordate e attribuite agli organi di indirizzo politico (Cda e Civ) non rappresentino in realtà atti gestionali – in violazione del dettato del d.lgs 29/1993 – che dovrebbero rientrare tra le competenze esclusive dell’organo di gestione (Dg).
Le principali lacune
Rinviando il lettore che volesse approfondire il tema all’articolo pubblicato dal sottoscritto su queste pagine nel 2014, i limiti dell’attuale assetto possono essere così riassunti:
a) nell’assenza di un processo di definizione del ruolo di indirizzo governativo nell’attribuzione degli obiettivi, dei vincoli e del loro monitoraggio: l’Inps è completamente abbandonato a se stesso nella definizione dei suoi obiettivi annuali che paradossalmente potrebbero essere anche in distonia con quelli governativi;
b) nell’inadeguatezza del processo di nomina dei componenti destinati alle strutture di governance con un molto generico riferimento della legge a una “provata competenza e professionalità” dei componenti del Cda e a nessun requisito per i componenti del Civ; manca, inoltre, una effettiva valutazione indipendente di quei generici requisiti di professionalità da parte di un soggetto terzo, demandata invece esclusivamente alla valutazione politica;
c) nella cattiva definizione delle funzioni degli organi di governo, secondo un principio di separazione delle responsabilità di indirizzo da quelle di gestione, aggravata anche dall’utilizzo di un linguaggio del legislatore incoerente e ambiguo nel delineare i rispettivi ambiti di competenza utilizzando talvolta i termini “approva”, “determina”, “delibera”, “individua”, “predispone” che, non prestandosi a una interpretazione univoca, hanno reso necessario più volte l’intervento di chiarimento da parte del ministro del Lavoro;
d) nella carenza nella promozione e diffusione di valori etici tra i protagonisti della gestione, a causa di una clamorosa assenza di una disciplina sui conflitti di interesse;
e) infine, nell’improprio coinvolgimento degli stakeholders (Civ) nel processo decisionale con l’attribuzione di competenze gestionali piuttosto che di supervisione strategica della reputazione e dell’effettività delle coperture previdenziali.
Quale riforma?
La riforma organica della governance dell’Inps non può più attendere e deve essere realizzata con l’istituzione di un Dipartimento per il lavoro e le pensioni (Dlp) presso il ministero del Lavoro e della Previdenza sociale sulla falsa riga del Department for Work and Pensions (Dwp) britannico.
Si tratterebbe di una riforma molto semplice e generatrice di risparmi economici diretti e indiretti. I soli minori costi diretti sono stimabili in un centinaio di milioni di euro all’anno a valere soprattutto sui contratti di acquisizione di beni e servizi informatici. L’istituzione del Dlp prevederebbe l’eliminazione degli organi diversi da quelli gestionali (quelli relativi alle figure del presidente, del vice presidente e del Cda) e l’istituzione di un comitato degli stakeholders (in sostituzione dell’attuale Civ) presso il ministero del Lavoro per la valutazione dell’effettività delle politiche previdenziali e del lavoro. L’indirizzo politico e la definizione degli obiettivi sarebbero assunti direttamente dal ministro del Lavoro. In questo modo sarebbero garantiti la radicale rimozione di ogni situazione di potenziale conflitto di competenze tra organi di indirizzo politico e di gestione, la coerenza degli obiettivi attribuiti a questa struttura con quelli più generali, un processo decisionale più snello e la riduzione dei costi economici e sociali derivanti dalle inevitabili lentezze dell’attuale assetto. Ci vorrebbe solo un po’ di coraggio nell’adozione di una politica riformatrice in cui il principio ispiratore fosse il benessere dei cittadini.
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alberto baleani
vorrei chiedere a voi esperti : perchè noi pensionati siamo stati abbandonati sia dai Sindacati che dal Governo in termini di aumenti pensionisici.Io ho una pensione unica di 1330 euro netti in busta con a carico una moglie priva di pensione essendo casalinga,e mi dicono che mia moglie non ha diritto a nessuna pensione perchè io supero il minimo,con la mia pensione ma è giusto tutto questo????Davvero la legge punisce gli onesti che hanno lavorato una vita.In due diviso 1330 euro fanno circa 660 euro a persona non siamo al disotto della soglia di poverta??