La pandemia ha rallentato molte attività umane che emettono CO2 in atmosfera. L’economia mondiale ne ha sofferto pesantemente, ma l’ambiente ha respirato. Ma per arginare gli effetti più gravi del cambiamento climatico serve ben altro.
Con la pandemia calo record delle emissioni
Una ricerca di Global Carbon Project ci informa che nel 2020 le emissioni mondiali di anidride carbonica sono diminuite di ben 2,6 GT (-7 per cento rispetto al 2019). Un calo mai osservato prima, ma abbastanza prevedibile considerata l’eccezionalità delle restrizioni imposte dalla pandemia (figura 1). I trasporti sono il settore che ha più contribuito al risultato, basti pensare che nell’aprile del 2020 – quando le aree del mondo responsabili del 90 per cento delle emissioni erano tutte sotto qualche forma di confinamento – il traffico aereo è sceso del 75 per cento, i trasporti via terra del 50 per cento.
Figura 1 – Emissioni globali di CO2 di origine fossile.
Fonte: Global Carbon Project.
A partire dalla rivoluzione industriale, le emissioni di CO2 sono sempre cresciute, generando sino a oggi secondo l’Ipcc (l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa dei cambiamenti climatici) un incremento di temperatura globale di 1°C. Dagli anni Sessanta la crescita ha manifestato una netta impennata, a causa del massiccio uso di fonti fossili di energia (figura 2).
Figura 2 – Trend della concentrazione di anidride carbonica atmosferica in 800 mila anni e nel periodo 1750-2019.
Fonte: Unep/Grid-Geneva.
Utilizzate soprattutto nei trasporti e per la produzione di energia elettrica, le fonti fossili sono responsabili del 65 per cento delle emissioni globali di CO2. La seconda causa sono le emissioni di metano (CH4), un gas anch’esso a effetto serra (GHG) ma del quale si parla meno (figura 3). La maggiore causa delle emissioni di metano di origine umana è l’allevamento, in particolare di bovini.
Figura 3 – Emissioni globali di GHG (tutte le fonti).
Fonte: Unep.
Perché non basta
Per ridurre gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici dovuti all’azione dell’uomo l’Accordo di Parigi, entrato in vigore nel 2016, impone di limitare l’incremento della temperatura globale al di sotto di 2°C – meglio ancora 1,5°C -, rispetto ai livelli preindustriali. È il limite oltre il quale si ritiene che il cambiamento climatico possa scatenare effetti disastrosi e imprevedibili. Sono eventi legati al superamento di punti critici (“tipping points”), come lo scioglimento del permafrost e dei ghiacci artici e antartici, il cui raggiungimento è secondo la scienza sempre più prossimo. L’Emissions Gap Report 2020 dell’Unep quantifica tale sforzo in una riduzione di emissioni tra 1 e 2 GT all’anno, per più decenni. Sino ad oggi le cose sono andate diversamente. L’ultimo decennio 2010 – 2019 risulta essere il periodo di maggior crescita delle emissioni, con un incremento medio annuo dell’1,4 per cento. Nel 2019, l’anno prima della pandemia, la crescita è balzata addirittura al 2,6 per cento, a causa degli incendi che hanno devastato vaste aree verdi del globo. Secondo il Climate Action Tracker continuando con le attuali politiche il mondo si dirige dritto verso un incremento della temperatura globale superiore anche a 3°C nel 2100, 1,5°C già nel 2035 e i temuti 2°C nel 2053.
L’enorme sacrificio compiuto dall’umanità nel 2020 inciderà poco sulla febbre del pianeta poiché la riduzione del 7 per cento delle emissioni corrisponderà a un calo di appena 0,01°C del riscaldamento globale nel 2050. Perché ciò che conta, più del singolo taglio puntuale alle emissioni, è la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera. La forte preoccupazione sulla crescita di questo dato era stata espressa già nel 1975 dal geologo Wallace S. Broecker. Broecker aveva previsto un incremento della concentrazione di CO2 nel 2010 vicino a quello effettivamente registrato, anticipandone anche parte dei rischi. Da allora, l’accumulo di anidride carbonica è cresciuto ogni anno, anche nel 2020 nonostante il taglio alle emissioni dovuto al Covid-19. La concentrazione di CO2 del marzo 2021 è stata pari 417,64 ppm (parti per milione), maggiore rispetto a marzo di dieci anni fa (393,88 ppm), ma anche rispetto a marzo 2020 (414,74 ppm). Come in un secchio colmo per le emissioni accumulate dall’uomo nel tempo, il contributo virtuoso dei tagli indotti dalla pandemia appare insignificante rispetto all’entità delle riduzioni necessarie (figura 4).
Figura 4 – Concentrazione di CO2 in atmosfera (in ppm) dal 1975 sino ad aprile 2020
Le buone notizie
Alcune buone notizie ci sono. A differenza delle altre crisi economiche, in cui dopo lo shock i parametri ambientali sono tornati immediatamente alla normalità, ci si aspetta che si consolidino molte sane abitudini amplificate dalla pandemia – benefiche per il clima – . Parliamo del maggior ricorso al trasporto attivo nelle città (a piedi o in bicicletta), a sistemi di comunicazione a distanza nelle imprese (meno viaggi di lavoro e più smart working), a forme di turismo regionale e allo shopping online. A queste si aggiungerà il potenziamento di fenomeni in forte crescita già prima della pandemia, come la diffusione delle auto elettriche, lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile (risultato settore abbastanza resiliente durante il 2020 nonostante la crisi economica) e le soluzioni di efficienza energetica. Ma ciò non basterà comunque a ridurre la febbre del pianeta perché, anche se le maggiori aree emettitrici del mondo quali Stati Uniti, Cina e Unione europea hanno dichiarato la loro ambizione di raggiungere emissioni nette zero entro il 2050 (Usa e Europa) e 2060 (Cina), le loro società continuano a essere basate pesantemente su fonti fossili. Fonti sostenute ancora da incentivi cospicui, valga per tutti l’esempio della mai arrestata crescita delle centrali a carbone in Cina. Occorre invece un cambio di rotta immediato, basato su azioni forti, molte da realizzare già entro la fine degli anni Venti. L’Ipcc dichiara necessaria una riduzione del 45 per cento delle emissioni globali di CO2 entro il 2030 rispetto al 2010 per raggiungere l’obiettivo di 1,5° C, nonché profonde riduzioni delle emissioni diverse dalla CO2. L’Iea indica la necessità di duplicare la spesa per energia rinnovabile nei prossimi 10 anni, per raggiungere i principali obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg) relativi all’energia. Per i 64 paesi più sviluppati e attenti al clima del mondo, che sono riusciti dal 2015 ad avviare un processo di decarbonizzazione riducendo le loro emissioni, gli obiettivi consistono nel “decuplicare” il loro impegno per rispettare l’Accordo di Parigi. E se è vero che acquisire consapevolezza vuol dire avere già fatto metà percorso, la pandemia avrà fornito almeno una più chiara misura dell’enorme sforzo da compiere.
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