Sono varie le posizioni e le proposte sulla “riforma del capitalismo”. Da una parte l’idea di coinvolgere tutti gli attori nelle decisioni produttive, anche per creare buoni posti di lavoro. Dall’altra, si punta a privilegiare politiche pro-mercato.
Uno schema che aiuta la discussione
Un recente contributo di Dani Rodrik e Stefanie Stantcheva offre uno schema utile per organizzare, confrontare e discutere le varie posizioni e proposte sulla “riforma del capitalismo”. Su di un lato della loro “policy matrix” ci sono tre classi sociali o fasce di reddito (basso, medio, alto). Sull’altro lato abbiamo tre tipi di politiche a seconda del loro rapporto rispetto agli stadi del processo produttivo (pre-produzione, in-produzione, post-produzione). Le politiche pre-produzione sono quelle che intervengono sulla “dotazione”: istruzione, leggi sull’eredità, trasferimenti universali e così via. Le politiche post-produzione sono le tradizionali politiche sociali o liberal-democratiche: trasferimenti condizionati, sostegno dei disoccupati, tassazione progressiva. Le politiche “in-produzione” intervengono direttamente sulle decisioni produttive: per esempio, il salario minimo, le licenze per l’attività imprenditoriale, i controlli su assunzioni e licenziamenti, i “tavoli” di concertazione tra gli stakeholder (lavoratori, imprenditori, cittadini, “territorio”). Ciascuna casella della matrice contiene le politiche rilevanti per una data combinazione tra classe sociali e stadio del processo produttivo.
La “prosperità inclusiva”
Qual è la motivazione di questo contributo? Si tratta dei processi riconducibili a globalizzazione, progresso tecnico, liberalizzazioni e de-regolamentazioni (e quel che di solito viene etichettato come “neo-liberismo”). Mentre c’è un consenso pressocché universale sui benefici aggregati di quei processi, una nutrita e variegata maggioranza di politici, economisti e politologi sottolinea la crescita – attuale o prevedibile – di vari tipi di diseguaglianze e di inefficienze con conseguenze problematiche anche sull’equilibrio politico (per esempio, crescita di populismo e nazionalismo).
Leggendo altri scritti di Rodrik e Stantcheva, la loro opinione risulta chiara: le politiche pre e post-produzione hanno sostanzialmente esaurito il loro compito e nella situazione presente sono poco efficaci. La nuova frontiera sarebbe quella delle politiche in-produzione formulate in chiave “comunitaria”. Si tratterebbe di coinvolgere direttamente (attraverso concertazione, cooperazione e altro) tutti gli stakeholders nelle decisioni produttive. Soprattutto al fine di sostenere la creazione di buoni e stabili posti di lavoro.
The common strikes back
Rodrik e Stantcheva sostengono l’opportunità di varie politiche in-produzione sulla base delle esternalità generate dalle decisioni produttive. Le innovazioni tecniche rendono obsolete tecnologie e competenze, distruggono o riallocano posti di lavoro, hanno effetti negativi sulle comunità locali. Quindi si richiede un controllo pubblico (statale o “comunitario”).
Qui, a ben vedere, c’è un’imprecisione: quelle sono esternalità pecuniarie. Certo riducono il valore di altre tecnologie e competenze obsolete. Ma questo non è un fallimento di mercato. Al contrario, è la manifestazione del buon funzionamento del mercato. I nuovi valori di mercato forniscono segnali per nuove scelte di investimento e nuove scelte educative. Il che naturalmente non esclude che le politiche pubbliche (anche di tipo pre e post-produzione) possano accelerare e sostenere l’adattamento ai nuovi scenari. Il fatto è che i due autori vedono il sistema economico come un “common”, cioè come un nesso di risorse comuni e di esternalità, dove le decisioni di ciascun operatore impattano direttamente (non, o non solo, tramite i prezzi) sugli altri operatori. Lasciato a sé stesso, questo sistema genera effettivamente un esito inefficiente. È interessante notare che l’economia di mercato consiste proprio in un tentativo – in buona parte riuscito – di spezzare l’unitarietà del common (quella che genera esternalità) tramite l’assegnazione di diritti di proprietà e il loro possibile scambio. Per le inefficienze del common, tuttavia, ci sono anche soluzioni diverse. A parte quelle che si affidano a strumenti fiscali (giudicati poco efficaci da parte di Rodrik e Stantcheva), ci sono la gestione centralizzata e la gestione “comunitaria” (per esempio, Elinor Ostrom). È su questa seconda e terza via che sembrano orientati Rodrik e Stantcheva. Su posizioni analoghe troviamo anche altri economisti, ad esempio, Thomas Piketty.
Un’impostazione pro-mercato
Ci sono esempi promettenti di soluzioni “comunitarie” nel web. Ma si tratta di liberi accordi tra agenti che operano comunque in un mercato. Se imprenditori, lavoratori, cittadini trovano utile discutere e decidere in modo “comunitario” non c’è motivo perché non lo facciano. Ma tutt’altra cosa sarebbe un disegno politico che imponga questo tipo di relazioni. Il rischio delle soluzioni “comunitarie” è che tutto si riduca a un commissariamento politico-burocratico dell’attività di impresa o a interminabili “tavoli di confronto”.
Un’impostazione alternativa a quella “comunitaria” suggerirebbe di privilegiare, anche per le politiche in-produzione, quelle pro-mercato. Una prima osservazione è che le trattative e gli accordi tra gli stakeholder potrebbero configurarsi come scambi di diritti di proprietà – proprio come avviene già in molti casi per gestire le esternalità ambientali – e perciò potrebbero essere organizzate formalmente come un mercato (certo anche con il supporto di istituzioni pubbliche). Più in generale, la via verso la prosperità non può prescindere dalle politiche in-produzione a favore di concorrenza, libertà di accesso, produttività ed elasticità di risposta agli incentivi. D’altra parte, le politiche pre-produzione, lungi dall’aver esaurito il loro ruolo, sono largamente sotto-sviluppate. Il reddito di base universale è realizzato – in dimensioni molto modeste – solo in Alaska e in Iran. Eppure, esperimenti in vari paesi trovano effetti positivi sull’efficienza delle scelte educative, occupazionali, produttive e di consumo. L’istruzione pubblica di base è quasi universalmente adottata, ma i metodi educativi sono sostanzialmente fermi a quelli di molte generazioni passate e rappresentano probabilmente il caso di tecnologia meno innovativa. Un numero crescente di studi certifica l’importanza degli investimenti sui bambini in età pre-scolare. Jim Heckman e i suoi collaboratori, utilizzando dati longitudinali, stimano un rendimento di questi investimenti compreso tra il 7 e il 13 per cento. Dotazioni iniziali (diritti di proprietà, asset di capitale umano o finanziario, accesso al credito) troppo disuguali implicano potenzialmente enormi perdite di efficienza (vedi ad esempio i lavori empirici di Oriana Bandiera e Maitreesh Ghatak e i contributi teorici di Samuel Bowles e Herbert Gintis).
Secondo questa diversa prospettiva, la nuova frontiera potrebbe proprio essere il massiccio sviluppo delle politiche pre-produzione (tra l’altro più semplici da realizzare), anche in connessione con altri sviluppi in direzione pro-mercato delle politiche post-produzione. Ad esempio, le innovazioni tecniche nella gestione dei dati permettono una valutazione sempre più precisa di rischi, vulnerabilità e affidabilità. Questo può condurre a una più massiccia diffusione di servizi di credito e assicurazione, che amplino le opportunità per le famiglie e accompagnino efficacemente le tradizionali politiche assistenziali.
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Harold
Molto bello. Ma cosa potrebbe spingere una multinazionale a sottomettersi a dei meccanismi decisionali democratici proposti ed a finanziare le politiche indicate? Il compromesso keynesiano-socialdemocratico si basava sul sostegno alla domanda interna, che finiva per arricchire anche le imprese e scongiurava il “pericolo comunista”, ma in un mondo globalizzato, e senza competizione tra modelli politici e sociali alternativi, questo schema non funziona più.
Ugo Colombino
Certo, anche questo è uno dei motivi per i quali credo che le politiche pro-mercato possano essere più realistiche ed efficaci.
bob
“Riformare il capitalismo si può. Ma come?”
Si deve! Altrimenti si autodistrugge. Il capitalismo ha senso solo se ridistribuisce la ricchezza generata poichè è il “carburante” che alimenta il capitalismo stesso altrimenti non è capitalismo ma “cannibalismo”
Francesco
E’possibile pensare di riformare il capitalismo, inteso come sistema di produzione incentivato dal profitto, trascurando il capitale che produce rendite ?Suggerisco di leggere K.Pistor, Il codice del capitale: come il diritto crea ricchezza e diseguaglianza, Luiss
Ugo Colombino
Grazie per la segnalazione
Paolo Mariti
“…la via verso la prosperità non può prescindere dalle politiche in-produzione a favore di concorrenza, libertà di accesso, produttività ed elasticità di risposta agli incentivi.” Certamente per quanto concerne i beni “privati”. Parlare di concorrenza significa parlare di mercati. I mercati molto spesso però operano male/ poco/per niente .Ciò ben aldilà dei fallimenti cosiddetti “tecnici” (molti dei quali mitigabili con leggi antitrust). Se davvero si vuole riformare il capitallsmo un deciso orientamento verso i ben “pubblici” non costituirebbe una via sana? Tra l’altro gran parte della spesa per la componente di essi finanziata da enti di natura istituzionale pubblica rifluisce di fatto nei mercati. E per quanto riguarda le politiche pre-produzione che dire in più sulle leggi sull’eredità?
Ugo Colombino
In generale concordo. Spesso non è facilissimo capire cosa è bene pubblico e cosa non lo è. Come per le esternalità, anche per i beni pubblici ci sono diversi modi di intervento.
belzebu'
Il governo Monti ha eliminato le tariffe dei liberi professionisti come ingegneri e architetti, per presunte ragioni di libera concorrenza.
Non ha pero’ tolto le tariffe stipendiali dei concorrenti dipendenti delle pubbliche amministrazioni comunali provinciali regionali, Usl ecc, i quali senza spese generali, esentasse, con pensione pubblica garantita, fanno concorrenza sleale ai privati che devono pagarsi anche i contributi pensionistici privatamente.
Ugo Colombino
Che dire? Monti ha sbagliato.