Al di là dei problemi che rendono difficile la rilevazione, al sondaggista può capitare di cadere nella trappola dell’opinione dominante. Dubita così dei numeri che ha raccolto e, occhieggiando i risultati dei colleghi, attenua le tendenze che ne emergono. Che poi a urne aperte si rivelano corrette.
RISULTATI DAL 2006 A OGGI
Il primo black out – subitaneo e inatteso – ebbe luogo durante le elezioni politiche del 2006: la totalità dei sondaggisti “non vide” la remuntada dell’uomo di Arcore, o se la vide, non ne colse l’intensità e l’estensione. Il secondo è del febbraio scorso alle elezioni politiche, con una piccola aggravante: oltre a sovrastimare il peso della coalizione di centrosinistra, il fenomeno M5S viene colto con un certo ritardo.
Dunque, i sondaggi sono uno strumento inaffidabile? No, non proprio. Dal 2006 al 2012 si vota in numerose altre occasioni e nella gran parte dei casi, le previsioni si rivelano accurate: è così alle elezioni europee del 2009, alle regionali del 2010 (c’è chi coglie con puntualità il risultato in tutte e quindici le Regioni), in varie tornate amministrative e curiosamente anche nelle varie elezioni primarie che si succedono. Dunque, perché le elezioni politiche (due su tre in sette anni) si rivelano così avare di soddisfazioni per i sondaggisti? Perché probabilmente alcuni fenomeni distorsivi sempre in agguato nelle rilevazioni di tipo demoscopico, nel “calore intenso” delle tornate politiche si accentuano. Vediamo di che si tratta.
I SETTE PILASTRI DELL’IGNORANZA
In primo luogo, c’è un problema di rappresentatività dei campioni di intervistati. Ancora nel 1996 il numero di nuclei famigliari che avevano il telefono fisso era superiore all’80 per cento della popolazione. Progressivamente questa soglia è andata riducendosi fino superare di poco il 50 per cente. Le cose non vanno meglio se si passa al web: il numero di italiani che utilizza correntemente la rete non supera il 50 per cento. Peggio che andar di notte se facciamo riferimento ai cellulari: il tasso di cadute e di non risposte sale ancora, con fortissimi problemi di auto-selezione del campione.
Secondo, gli italiani non rivelano agevolmente per chi votano: gira e rigira anche con un tracking accurato che arriva fino al giorno prima del voto, ben difficilmente la quota di “non-rispondenti” scende al disotto del 15 per cento. È lì – sostengono eminenti studiosi – che si annidano i miserabili che sovvertono i pronostici.
Terzo, ed è un altro degli argomenti preferiti degli esperti, la quota variabile, fra il 7 e il 10 per cento, di italiani che asseriscono di decidere per chi votare solo entrando in cabina elettorale. La ricaduta inevitabile di questo erratico modo di interpretare il loro ruolo di cittadini-votanti è una sovrastima o una sottostima delle singole forze in campo.
Il quarto, e difficilmente negabile, elemento di difficoltà è dettato dalla transizione infinita attraversata da partiti e movimenti politici. In poche parole, il processo di mutazione continua cui è soggetta l’offerta politica impedirebbe di costruire validi benchmark e di stimare con cura il potenziale di vecchi e nuovi soggetti in campo.
Quinto: altro autentico macigno da rimuovere è costituito da un’opinione pubblica che si fa sempre più sofisticata, più cinica e al tempo stesso più volubile e più usurante nei confronti di leader, partiti e relative proposte. Come stimarne il comportamento futuro, a fronte di elementi di volatilità che rasentano tratti adolescenziali?
Sesto: qualora riuscissimo a trovare una risposta per tutti i problemi elencati, ancora avremmo a che fare con una componente di elusività capace di irretire ogni nostro sforzo. Ci riferiamo a quel micro-segmento di opinione pubblica, che in tempi diversi, in contesti di volta in volta diversi, secondo logiche di appartenenza diverse, (restando quindi impermeabile a ogni correttivo) sceglie di “sottrarsi” al meccanismo interrogativo, si mimetizza silenziosamente, per riapparire come vietcong appena aprono le urne.
Settimo – ed è l’aspetto più affascinante e meno noto – esiste la solitudine del sondaggista. Terribile e a tratti insostenibile. Accade talvolta che il sondaggista si ritrovi da solo: seguendo tracce consuete a molti, a un certo punto imbocca, fra i tanti possibili, un determinato sentiero e si smarrisce. C’è silenzio intorno a lui. Nessuno dei suoi colleghi dà stime analoghe alle sue. I suoi committenti storcono il muso. Gli editorialisti e i signori dell’opinione continuano imperterriti a masticare le solite molteplici opinioni dominanti. Il sondaggista è là da solo. Tutto quanto ha raccolto e spesso frettolosamente analizzato nel corso del tempo effettivamente lo porta laggiù, ma via via che il tempo passa e ci si avvicina al voto, la pressione si fa più forte, la solitudine più sottilmente coercitiva. Il sondaggista oscilla fra la considerazione off the record di un suo eminente collega “è un mestiere di merda” e il desiderio quindi di rientrare nel coro, e l’altra poderosissima pulsione che lo protende verso il centro del palcoscenico mediatico, ma che al tempo stesso può trascinarlo in ciò che John Zogby – grande pollster statunitense – confessò al sottoscritto dopo aver completamente mancato le elezioni presidenziali del 2004: “mi sono fatto trascinare dal desiderio profetico”.
Capita quindi che il sondaggista dubiti, dubiti dei propri numeri, dubiti di sé e cada nel più terribile e umano dei peccati, prenda in considerazione i risultati degli altri e attenui, sfumi, ammorbidisca. Professionalmente, niente di peggiore e di più imperdonabile.
Eppure quella benedetta anticipazione del futuro era lì ad appena un passo: partiti deboli, Beppe Grillo debordante, Pier Luigi Bersani chiuso in un perimetro sempre più stretto, Silvio Berlusconi con un unico isolato forte sussulto di recupero, Mario Monti una tigre di carta fin da subito. Le tracce erano precise, serviva il coraggio dei numeri.
Ogni professione ha la sua stagione. La nostra – ma credo non sia la sola – oggi fa un po’ di fatica.
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Michele Cerbottana
Weber afferma che ogni professione ha la sua stagione. Direi piuttosto che i singoli professionisti hanno una loro stagione. E forse quella di Weber e dei suoi colleghi più famosi volge veramente al crepuscolo. La professione, invece, quella non muore ha solo bisogno di essere rinfrescata. Che significa? Innanzitutto nuove metodologie di raccolta dei dati, analisi attraverso i cd big data di quello che chi vota esprime prima delle elezioni, nuovi paradigmi interpretativi. Basta guru, basta solitudine del sondaggista, avanti un professionista non protagonista di talk show televisivi, ma solido analista dei comportamenti.
Gli attuali sondaggisti verranno spazzati via nel giro di pochi anni perché con i politici e i giornalisti ormai costituiscono una compagnia di giro logora, vecchia, autoreferenziale. I questionario che ci vengono proposti sono ancora quelli dei primi anni ’70. C’erano ancora i Beatles…..
corrado
Bellissimo Roberto…. aggiungerei ancora:
– l’effetto “Sanremo”, emerso con forza nell’ultima tornata politica, con sottostima sistematica dei voti al PDL. Sebbene sia in parte simile ai “non rispondenti” (punto 2), vi è un effetto palese di dissimulazione del voto, in risposta a inconfessabili “private agenda”.
Come per il celeberrimo festival della canzone, che pochi asseriscono di guardare-ma che inevitabilmente schizza a 10 miloni di spettatori, anche in politica vi è un fattore “vergogna”: imputabile forse al perseguire interessi privati nel momento concepito come massima espressione della cosa pubblica (e del relativo bene comune). In questo la democrazia italiana – gestione interessi privati e pubblici-bene nazionale e beni privati- è assai diversa rispetto agli USA, ad esempio.
– Un altro fattore, inevitabile e tecnico: gli intervalli fiduciari. Con campioni di 2-3000 persone, si deve registrare una banda di oscillazione del 2-3% di errore…. e questo permette-soprattutto in caso di sistemi elettorali come il Porcellum – di trasformare piccoli errori in profezie sbagliate.