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Bitcoin di stato in Salvador

Da settembre bitcoin sarà valuta legale in Salvador. L’obiettivo dichiarato è favorire le rimesse degli emigrati. Ma le problematiche non mancano. Senza contare il paradosso del corso forzoso di una moneta nata per prescindere da ogni autorità.

La scelta del Salvador

L’8 giugno il parlamento del Salvador – su proposta del presidente del paese, Nayib Bukele – ha approvato una legge che rende bitcoin valuta legale. Il provvedimento entrerà in vigore a partire da settembre prossimo. La criptovaluta affiancherà il dollaro statunitense. Dal 2001, infatti, il paese centramericano non ha più una sua moneta, ma ha adottato quella del suo principale partner commerciale, con lo scopo di tenere sotto controllo l’inflazione, attrarre investimenti esteri, abbassare i tassi d’interesse e promuovere lo sviluppo del paese. Ora, a distanza di vent’anni, il giovane presidente prova a raddoppiare con bitcoin.

Il proposito dichiarato del provvedimento? Favorire le rimesse degli emigrati. Nobile intento, però non certo l’unico. Altrettanto e forse più importante è l’obiettivo di attrarre capitali. Infatti, la norma prevede che sia concessa automaticamente la residenza a chiunque investa nel paese almeno 3 bitcoin, senza alcun controllo riguardo alla loro provenienza. Con la “legge bitcoin”, El Salvador si candida a diventare la capitale internazionale del riciclaggio.

È vero che, in linea di principio, i bitcoin sono tracciabili, più di qualunque altra valuta al mondo. Chiunque può leggere su un registro pubblico la storia di ogni singolo bitcoin, anzi di ogni singolo satoshi (il più piccolo sottomultiplo, pari a un centomilionesimo di bitcoin), dalla prima coniazione fino all’ultimo passaggio di mano. Tuttavia, i titolari dei bitcoin sono identificati da pseudonimi: ricondurre questi ultimi a persone reali richiede un’attività di indagine assai difficile per un paese con circa un decimo della popolazione italiana e poco più di un centesimo del Pil.

Non a caso, la Banca Mondiale ha già rifiutato di assistere El Salvador nell’applicazione della nuova normativa a causa dei difetti di bitcoin in termini “di sostenibilità ambientale e di trasparenza”. È in corso una negoziazione con il Fondo monetario internazionale per un prestito da 1,3 miliardi di dollari. Ma il portavoce del Fondo, Gerry Rice, ha già messo le mani avanti: rispondendo in conferenza stampa alle domande dei cronisti sulla nuova norma salvadoregna, ha dichiarato che “l’adozione di bitcoin come moneta legale solleva una serie di questioni macroeconomiche, finanziarie e legali che richiedono un’analisi molto attenta”.

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Le problematiche

Quali questioni? Sul piano del regime monetario siamo davanti a una sorta di riedizione del bimetallismo ottocentesco: un paese con due monete che non controlla, legate da un rapporto variabile. Il governo si impegna a convertire bitcoin in dollari al prezzo di mercato. Come riferito da Reuters, prevede l’istituzione di un fondo di 150 milioni di dollari per la conversione dei bitcoin in dollari. Lo scorso maggio le rimesse degli emigrati verso El Salvador hanno superato i 680 milioni di dollari (secondo i dati della banca centrale). Se anche i bitcoin arrivassero soltanto dai migranti, basterebbe una settimana per prosciugare il fondo. Inoltre, data la forte volatilità del cambio, lo stato potrebbe incorrere in forti perdite – e scaricarle sui propri cittadini.

Questioni ancor più serie, però, si pongono sul piano finanziario. Attrarre investimenti significa contrarre prestiti denominati in bitcoin. Al crescere delle quotazioni della criptovaluta, il peso di quei debiti aumenterebbe fino a diventare insostenibile. Lungi dall’essere strumento di emancipazione e di sviluppo, l’adozione di bitcoin come moneta potrebbe trasformarsi per il Salvador in uno strumento di asservimento.

Ultimo, ma non certo in ordine d’importanza, è il rischio sul piano legale. L’adozione di bitcoin potrebbe fare del Salvador il collettore mondiale di denaro illegale. Il governo stesso fungerebbe da sportello per la pronta conversione di bitcoin di dubbia provenienza in dollari puliti. E forse non è poi un’illazione se si pensa che solo pochi giorni prima, il 4 giugno, il paese si era ritirato unilateralmente da un accordo anti-corruzione dell’Organizzazione degli stati americani.

La legalizzazione del bitcoin, a dispetto della retorica che ha accompagnato il provvedimento, non ha introdotto una nuova libertà: i salvadoregni erano già liberi di accettare bitcoin su base volontaria. Definire bitcoin come valuta legale non significa dare ai propri cittadini una possibilità, bensì imporre loro un obbligo: quello di accettare bitcoin in pagamento dei debiti. Significa farne una moneta a corso forzoso. Un paradosso per una valuta concepita per prescindere da ogni autorità. “A Peer-to-Peer Electronic Cash System”, un sistema di denaro contante fra pari, era il titolo del whitepaper con cui Satoshi Nakamoto presentava al mondo la sua invenzione nel 2008. L’obiettivo era proprio quello di creare una forma di denaro la cui accettazione non dipendesse in alcun modo da una legge. Se è vero, come alcuni sostengono, che Satoshi è morto, si starà rivoltando nella tomba al vedere zelanti seguaci inneggiare alla legalizzazione della sua creatura. Primo fra tutti, il giovane presidente del Salvador, che sfoggia sul profilo twitter una foto con gli occhi attraversati da un raggio laser, il segno distintivo dei criptofanatici.

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  1. Francesco Claudio Mazza

    “Infatti, la norma prevede che sia concessa automaticamente la residenza a chiunque investa nel paese almeno 3 bitcoin, senza alcun controllo riguardo alla loro provenienza. Con la “legge bitcoin”, El Salvador si candida a diventare la capitale internazionale del riciclaggio”. Perché? Questo sarebbe vero se la gran parte del riciclaggio venisse fatta con bitcoin. Casomai è vero il contrario, la maggior parte del riciclaggio e dei crimini riguarda e/o viene pagata in dollari. Ciononostante nessuno sarebbe talmente idiota da vietare i dollari perché usati per transazioni illegali. Forse invece intende attrarre i soggetti intenzionati ad investire in questa nuova tecnologia?

    “Se anche i bitcoin arrivassero soltanto dai migranti, basterebbe una settimana per prosciugare il fondo. Inoltre, data la forte volatilità del cambio, lo stato potrebbe incorrere in forti perdite – e scaricarle sui propri cittadini”. Perché dovrebbe incorrere in perdite? Lo stato non si impegna a mantenere i bitcoin che cambia. Come un qualsiasi exchange, può tenere ricambiare le varie valute quando è come vuole. Eventuali perdite o guadagni sarebbero esclusivamente dovute alle scelte monetarie su quasi asset utilizzare come deposito di valore. Offrire un servizio di exchange non significa affatto detenere un asset.

    “Attrarre investimenti significa contrarre prestiti denominati in bitcoin”. Il governo non si impegna a contrarre nessun prestito, ma offrire solo la cittadinanza a chi investe.

    “Tuttavia, i titolari dei bitcoin sono identificati da pseudonimi”. Falso: sono identificati da una chiave pubblica.

    • Luca Fantacci

      Certo, oggi gran parte del riciclaggio è in dollari, ma bisogna guardare avanti: le caratteristiche di bitcoin lo rendono indubbiamente competitivo anche su questo fronte. Non a caso, la Banca per i regolamenti internazionali ha recentemente pubblicato un rapporto in cui si riferisce che le autorità nazionali giudicano alti e crescenti i rischi in termini di riciclaggio e di finanziamento al terrorismo derivanti dall’uso dei criptoasset (https://www.bis.org/fsi/publ/insights31.pdf).
      Promuovere investimenti in questa nuova tecnologia credo sia opportuno: ma temo che agevolare la detenzione o il trasferimento di token non sia sufficiente per sostenere le attività imprenditoriali basate su blockchain.
      È vero che lo stato potrebbe rivendere immediatamente i bitcoin portati in conversione. Ma con un costo sulla parte che cede e un rischio su quella che trattiene. Si può anche immaginare che lo stato operi come un exchange qualunque, ma non vedo proprio che vantaggi possano trarne i cittadini.
      In ogni caso, se un paese attira investimenti, vuol dire che prende soldi a prestito, in qualunque forma ciò avvenga: se non è il governo a indebitarsi, saranno le imprese private.

  2. Firmin

    Possibile che una legge simile sia passata in parlamento in pochi minuti e senza grandi dibattiti? Manco fosse il PNRR. Forse c’è qualche cavillo che li salverà dalla catastrofe. Capisco rinunciare alla sovranità monetaria, ma affidarsi ad un casinò mi sembra eccessivo.

  3. Buonasera, le vorrei segnalare che ci sono parecchie inesattezze nell’articolo. Uno su tutti i bitcoin non possono essere prestati. Il bitcoin infatti è un titolo a spendere. O c’è l’hai o non c’è l’hai. Nella nuova finanza che avanza i bitcoin saranno a garanzia di prestiti denominati sempre in euro o dollari. Dato che queste si svaluta o per loro natura la sua osservazione sul rischio insolvenza non sta ne in cielo ne in terra

    • Luca Fantacci

      Il denaro è un titolo a spendere ancor più del bitcoin, eppure è abitualmente prestato. Qualunque cosa può essere oggetto di prestito. Se prendo a prestito un bitcoin e nel frattempo il suo valore aumenta, quando devo restituirlo il peso del mio debito sarà aumentato.
      È altrettanto possibile, come lei suggerisce, che bitcoin sia usato come garanzia per prestiti denominati in altre monete. In questo caso, il rischio è per chi presta: se bitcoin si svaluta, come è avvenuto negli ultimi mesi, il creditore si ritrova con una garanzia inadeguata.

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