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Monete virtuali: più che un paradiso un Far West

Le criptovalute pretendono di essere più sicure rispetto alla moneta tradizionale e di non richiedere intermediari. Ma un terzo delle piattaforme di scambio di bitcoin è stato hackerato fra il 2009 e il 2015. Ed è sorta una pletora di intermediari.

Il criptofurto del secolo

Più di mezzo miliardo di dollari: è l’enorme ammontare di criptovaluta che, nella notte fra il 25 e il 26 gennaio, è stato sottratto a Coincheck, la più grande piattaforma di scambio di criptovalute del Giappone. Il quale, a sua volta, costituisce una delle piazze più importanti al mondo per le monete virtuali, tanto da arrivare ad accentrare fino al 40 per cento delle contrattazioni, secondo quanto riporta il Financial Times. Poche ore prima dell’hackeraggio, il direttore operativo di Coincheck aveva dichiarato con orgoglio al quotidiano finanziario Nikkei di avere raggiunto una quota di mercato pari al doppio dell’immediato concorrente: “è una moderna corsa all’oro”.

Il giorno dopo, a dare l’annuncio del furto in diretta televisiva è toccato all’amministratore delegato ventisettenne, Koichiro Wada: il volto terreo, lo sguardo vacuo, si è presentato di fronte a una schiera di cronisti, chiedendo scusa agli investitori.

Non è più il Giappone di una volta. Un tempo avrebbe fatto harakiri, espiando l’onta e riguadagnando l’onore. Oggi, invece, rischia di sopravvivere, tanto lui quanto i suoi risparmiatori. In effetti, la criptovaluta rubata, denominata Xem (pronuncia: zem, come in veneto), non è stata proprio guadagnata dai più con il sudore della fronte, dal momento che il suo valore è aumentato del 10 mila per cento (ossia di cento volte) in un anno. Ma c’è di più: l’immensa somma sottratta potrebbe non essere persa.

Il paradosso lo spiega in un’intervista Jeff McDonald, vicepresidente della Fondazione Nem che emette la criptovaluta: il denaro virtuale sottratto ha un contrassegno, come il numero di serie di una banconota. Di conseguenza, l’hacker che se ne è impossessato potrebbe non riuscire a utilizzarlo senza essere smascherato. Così, il bottino resterebbe come sepolto, smarrito, distrutto. Dal più grande furto di criptovalute mai compiuto il criptoscassinatore finirebbe per non guadagnare nulla. Ma nemmeno le vittime ci perderebbero. Infatti, la diminuzione della quantità complessiva di Xem in circolazione ne farebbe aumentare il valore, forse fino a colmare completamente la perdita (almeno in aggregato, al netto di drastiche quanto casuali sperequazioni fra chi guadagna e chi perde).

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Le presunte virtù delle monete virtuali

Del resto, neppure il fallimento di Mt Gox ha posto fine alla corsa di bitcoin. Mt Gox era la più grande piattaforma al mondo per lo scambio di bitcoin. A febbraio 2014 ha ammesso di avere perso traccia di bitcoin per un valore di 450 milioni di dollari. Nel giro di pochi mesi è fallita. Nel frattempo, bitcoin si è deprezzato del 30 per cento, ma poi ha ricominciato a risalire.

È possibile che succeda anche questa volta e che il rialzo delle criptovalute prosegua inarrestabile. Del resto, nessuna disastro reale può arrestare un’ascesa puramente virtuale. Le aspettative autorealizzantesi non conoscono il principio di realtà. Se assumiamo che le criptovalute sono un fenomeno puramente speculativo, possiamo anche ammettere che non siano toccate da eventi terreni come il fallimento di una piattaforma.

Ma se pretendiamo, come proprio i fautori delle criptovalute sostengono, che non siano un fenomeno speculativo, che il loro apprezzamento sia giustificato dai fondamentali, che l’aumento della domanda sia fondato sulle loro qualità oggettive, che siano dotate di caratteristiche tecniche che le rendono un mezzo di scambio efficace, funzionale, all’avanguardia, migliore delle monete ufficiali, in poche parole se si crede che il prezzo delle criptovalute rifletta il loro valore effettivo come mezzo di pagamento del futuro, allora non si può pensare che eventi come il furto di Xem siano irrilevanti. Sono un colpo al cuore.

Meglio metterle al bando

Le criptovalute, a cominciare da bitcoin, pretendono di avere due vantaggi rispetto alla moneta tradizionale: di essere più sicure e di non richiedere intermediari. La vicenda di Coincheck mostra che nessuna delle due pretese è vera.

Innanzitutto, le criptovalute non sono affatto sicure. Secondo le autorità americane, ben un terzo delle piattaforme di scambio di bitcoin sono state hackerate fra il 2009 e il 2015. Miglioreranno, si dice. Può darsi, ma, nel frattempo, è più prudente tenere i soldi in banca.

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Il che ci porta al secondo punto. Bitcoin è nata come sfida al sistema bancario oligopolistico, come moneta elettronica peer-to-peer, trasferibile fra privati senza il ricorso a intermediari. La realtà è un’altra. Il mondo delle criptovalute ha visto sorgere una pletora di intermediari. Con lo svantaggio che non sono regolamentati. O che lo sono in maniera inadeguata. Coincheck aveva presentato domanda di licenza all’Autorità di vigilanza giapponese. Che evidentemente ha vigilato male.

Opportunamente alcuni paesi, come la Cina e la Corea del Sud, ne hanno iniziato a bandire gli scambi. Altri, come il Giappone, pensano invece di poter appoggiare alle monete virtuali le speranze di una ripresa economica. La banca giapponese Nomura, in un recente rapporto, ha previsto che le plusvalenze derivanti dall’apprezzamento delle criptovalute possano contribuire a sostenere la domanda e l’attività economica attraverso quello che si chiama l’effetto ricchezza. Ora, se la prospettiva è questa, bisognerebbe almeno ammettere che possa avvenire anche il contrario: se il prezzo delle monete virtuali diminuisce, i detentori sono più poveri e spendono meno, con effetti depressivi sull’economia.

Ma, soprattutto, se lo scopo è sostenere l’economia attraverso la creazione di ricchezza virtuale, nella speranza che forse un giorno si trasformi in ricchezza reale, non sarebbe meglio accreditare nottetempo qualche miliardo di moneta tradizionale ai cittadini più poveri? Sarebbe assai più equo e, al contempo, più efficace.

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  1. Silvestro De Falco

    Non ho capito una cosa dei bitcoin.
    Mi è chiaro che è un sistema che non ha bisogno di un trusted third party perché ci sono i miners che validano le operazioni in cambio di una quantità di bitcoin – attualmente pari a 12,5 a blocco – che dimezza ogni 4 anni, fino al 2040, quando saranno stati emessi tutti i 21 milioni di bitcoin previsti.
    L’incentivo dei miner a validare le operazioni è la possibilità di guadagno ma nel momento in cui saranno stati emessi tutti i bitcoin chi validerà le transazioni? In mancanza di tale incentivo, non viene meno il presupposto fondamentale che il sistema non ha bisogno di un trusted third party?

    • Carlotta

      L’algoritmo di proof-of-work alla base della validazione di transazione dei bitcoin viene ricalibrato circa ogni 2016 blocchi in base al numero di minatori presenti in modo da avere una frequenza del tipo 2016 blocchi ogni 10 minuti. Inoltre, il minatore riceve un ricavo anche dalla validazione effettuata. Quindi si suppone che nel momento in cui i grossi minatori dovessero venir meno, i piccoli minatori (oggi del tutto impotenti computazionalmente davanti alle mine-farms) avrebbero di nuovo modo di validare e ricavare dalle transazioni perche’ l’algoritmo di proof-of-work si sara’ ricalibrato in modo da mantenere la stessa frequenza: per farlo dovra’ certamente ridurre la complessita’ computazionale del problema da risolvere.
      Qui si trova una spiegazione piu’ tecnica.
      https://medium.com/@AndreaFerraresso/bitcoin-come-funziona-il-sistema-1c970c3cad6b

      • Silvestro De Falco

        Il problema è dopo, quando tutti i bitcoin sono stati emessi. Ci dovrà per forza essere un trusted third party che validi le operazioni. A quel punto il trusted third party sarà a tutti gli effetti come una banca centrale e se c’è una banca centrale viene meno tutta l’impostazione del bitcoin come sistema che riesce a impedire la doppia spesa senza avere una parte terza di fiducia.

        • Carlotta

          “il minatore riceve un ricavo anche dalla validazione effettuata”. Nel momento in cui tutti i bitcoin saranno emessi, presumibilmente nessun grosso miner continuera’ a lavorare sulla blockchain di BTC. Tuttavia, grazie alla ricalibrazione dell’algoritmo di proof-of-work, tutti i miners piu’ piccoli (compresi me e lei con i nostri portatili non troppo potenti) potranno validare le transazioni, proprio come avveniva prima del boom delle criptovalute. Quindi chi vorra’ scambiarsi la moneta potra’ validare la propria transazione. La ‘fiducia’ dell’operazione e’ data dalla generazione stessa dei blocchi della blockchain: se lei mi manda dei BTC e valida anche la transazione, io che li ricevo posso verificare in piena autonomia la validita’ della transazione.

          • Silvestro De Falco

            E chi paga il ricavo del minatore dalla validazione effettuata se non le parti che effettuano la transazione? In tal caso il valore del bitcoin per chi incassa è diminuito per l’importo della fee mentre il valore del bitcoin per chi paga è incrementato per lo stesso importo. Questa fee è signoraggio.
            Inoltre, sarei propenso a credere che, man mano che ci si avvicina alla soglia dei 21 milioni di bitcoin da emettere, rimarrà un unico forte validatore che espelle i piccoli dal mercato proprio per poter essere poi l’unico in grado di validare le transazioni e estrarre il signoraggio.
            Infine, la “fiducia” dell’operazione è data dalla validazione dei blockchain generati, non dai blockchain.

  2. EzioP1

    Prendo dal testo della news “Probabilmente i cripto-banditi non potranno godere del bottino e i cripto-derubati non soffriranno alcun danno”. L’affermazione mi pare erronea in quanto è vero che chi ha rubato le crypto valute non le potrà usare perchè corre il rischio di essere scoperto, ma chi ha subito il furto avendole pagate in moneta ufficiale ha subito una perdita.

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