Per i fautori del “Leave” la Brexit avrebbe liberato la finanza britannica da molti vincoli burocratici. Per la City però il divorzio dall’Unione sta presentando più ostacoli del previsto, anche se Londra è destinata a rimanere un centro finanziario globale.

Nastri rossi e spiriti animali

Qui da noi i nastri rossi si tagliano a Natale quando si aprono i regali. Al di là della Manica quella del taglio del nastro rosso è un’ossessione che domina il dibattito pubblico, raggiungendo il parossismo quando si tratta di Unione Europea. Non si tratta naturalmente del nastro delle festività natalizie, ma di “red tape”, il termine con cui nel Regno Unito ci si usa riferire alla serie apparentemente infinita di lacci e lacciuoli burocratici che impediscono agli “animal spirits” del mercato di dar libero sfogo al loro istinto creativo.

Per i fautori della Brexit il “red tape” è il peccato capitale dell’Unione Europea: una regolamentazione eccessiva e una rigida conformità a regole formali, considerate ridondanti e spesso fine a sé stesse, che ostacolano l’azione e il processo decisionale in ambito economico e non solo. Non a caso, durante la campagna referendaria per l’uscita dall’Ue, la Brexit è stata presentata agli elettori come un’occasione irripetibile di alimentare con un falò di nastri rossi la crescita dell’economia britannica.

Quale migliore occasione allora per un settore come quello finanziario, in cui gli “animal spirits” sono di casa? Probabilmente nessuna, e questa estate gli spiriti animali si sono messi a lavorare alacremente, in molti casi rinunciando alle vacanze, soprattutto nei piani alti della City. Purtroppo però quello che li sta impegnando non sembra tanto l’agognato falò, quanto un groviglio di nuovi nastri rossi. L’annullamento delle ferie estive è infatti dovuto al carico di lavoro generato da una serie di riforme progettate dal governo britannico per garantire che la City resti un importante polo finanziario globale anche dopo il divorzio da Bruxelles.

Le perplessità degli addetti ai lavori

Tra le riforme proposte dal governo di Boris Johnson, di particolare rilevanza per la City è quella di rivedere il regime delle commissioni favorendo gli investimenti dei fondi pensionistici in fondi di private equity e venture capital a sostegno di start-up innovative. Nel rapporto si sostiene infatti che il regime attuale ha un effetto distorsivo a vantaggio di investimenti passivi nel mercato azionario e a svantaggio di attività a più alti rendimenti ma con una gestione attiva più costosa. Nel mirino del rapporto ci sono anche: il regime imposto al settore assicurativo dalla direttiva Solvency II dell’Unione Europea, volta ad estendere la normativa di Basilea II al settore assicurativo, e la direttiva MiFid II sui mercati degli servizi finanziari, con particolare attenzione ai derivati.

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Nella City non tutti però sembrano convinti dalla strategia governativa del taglio del nastro rosso come strumento per vincere la competizione con le piazze dell’Europa continentale. Alcuni sottolineano che i mercati finanziari sono per loro natura mercati globali e che hanno quindi bisogno di una regolamentazione condivisa a livello internazionale per funzionare al meglio. In tal senso, la retorica secondo la quale il Regno Unito sarebbe in competizione con l’Ue per la leadership sui mercati finanziari continentali sembra essere più dei politici che degli operatori del settore. Molti di loro preferirebbero discutere di come aumentare la dimensione dei mercati e quindi come avere una torta più grande da spartirsi che passare il loro tempo ad adeguarsi a nuove regole che rischiano di ridurre la grandezza della torta.

Il rischio percepito è quello di una divergenza tra le regole di Londra e quelle di Bruxelles. Una divergenza che, allontanando le due sponde della Manica, non farebbe altro che frammentare inutilmente i mercati finanziari europei. È questo il caso dei cosiddetti “passporting rights” alla base del mercato unico dell’Ue per i servizi finanziari, in virtù dei quali le aziende autorizzate a operare in qualsiasi stato dell’Unione possono muoversi liberamente anche in qualsiasi altro stato membro. Dall’inizio dell’anno le società finanziarie della City hanno perso tali diritti e dipendono dall’assenza di divergenza regolamentare tra Londra e Bruxelles per continuare ad operare in un regime agevolato di equivalenza.

La fine dell’età dell’oro della City?

Altre perplessità sulla strategia governativa del taglio del nastro rosso nascono dalla constatazione di come si è arrivati al quadro normativo corrente. Chi nella City ha seguito lo svolgimento degli eventi sa che il Regno Unito ha avuto un ruolo fondamentale nel disegnare le attuali regole europee in ambito di servizi finanziari, come nel caso della direttiva MiFid II. Inoltre, non tutto quello che il governo britannico presenta in termini di minor burocrazia, sembra esserlo davvero. Per esempio, se da un lato si propone di rendere più facile la quotazione delle società a Londra, dall’altro si discute anche di riformare il regime di revisione contabile, aumentando di fatto l’onere burocratico per le società quotate.

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Quale sarà dunque il futuro della City? Ostacolando l’eventuale riallocazione del personale dal Regno Unito ai paesi dell’Ue, la pandemia rende più difficile valutare le tendenze in corso (figura 1). In questo senso, un’interessante prospettiva è stata offerta a maggio da Howard Davies, presidente di NatWest, una delle più importanti istituzioni bancarie britanniche, e in passato vicegovernatore della Banca d’Inghilterra, presidente della Financial Services Authority e direttore della London School of Economics. Secondo Davies, nonostante per la Brexit la City sia stata in larga parte tagliata fuori dai mercati dell’Ue e abbia poche illusioni di poter riguadagnare un facile accesso in tempi brevi, il futuro di Londra come centro finanziario globale sembra comunque assicurato. Tuttavia, sebbene la City rimarrà il mercato finanziario più grande d’Europa, la sua “età dell’oro” può considerarsi finita.

Figura 1 – Evoluzione dell’occupazione nella City prima della pandemia.

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