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Acqua, il bicchiere è più pieno che vuoto

Anche il Rapporto Asvis cade nella trappola di attribuire le carenze del sistema idrico al mancato rispetto della volontà popolare espressa col referendum del 2011. Mentre la responsabilità è di chi ancora si oppone al processo di modernizzazione.

Il sistema idrico nel Rapporto Asvis

L’Associazione italiana sviluppo sostenibile (Asvis) è una meritoria organizzazione non governativa che si è posta l’obiettivo di monitorare il percorso, tortuoso e accidentato, che deve portare l’Italia a raggiungere gli impegnativi traguardi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. I rapporti di Asvis sono da anni un punto di riferimento prezioso perché offrono in modo indipendente una disamina attenta dei risultati raggiunti e di quelli ancora da raggiungere, agendo come stimolo alle politiche pubbliche e all’azione dei governi.

Dell’Agenda 2030 fa parte anche un obiettivo specificamente riferito alle risorse idriche, ed è di questo capitolo del denso Rapporto Asvis 2021 che vogliamo qui discutere.

Il rapporto snocciola i dati che fotografano le molte carenze che affliggono il settore, ancora parecchio distante dagli obiettivi di sostenibilità, soprattutto per quel che riguarda l’impatto degli usi antropici sugli ecosistemi idrici (“anche la cacca è un bene comune”, avrebbe chiosato Giacomo Vaciago). 

I dati sono dati, e su quelli c’è poco da discutere. Ma da soli servono a poco: come tutti gli indicatori, servono a formulare un quadro diagnostico e a individuare le terapie da adottare. Ed è qui che il Rapporto, a nostro avviso, risulta assai poco convincente. Anche Asvis, infatti, cade nella trappola di ricollegare quanto non funziona alla mancata attuazione della volontà popolare scaturita dal referendum 2011, auspicando un intervento legislativo. Dati i toni, si suppone che dovrebbe riecheggiare la proposta di legge Daga, che il Parlamento ha discusso per due anni per poi accantonare.

In altre sedi abbiamo espresso la nostra opinione contro l’idea del “referendum tradito”, e nello specifico contro il Ddl Daga, che ritenevamo all’epoca – e continuiamo a ritenere oggi – un pericoloso sbaglio. Del resto, se quella legge non è stata approvata è perché le forze politiche se ne sono infine rese conto.

I meriti delle riforme

Ma qualunque cosa si pensi in merito, sarebbe forse il caso di chiedersi se il quadro scaturito dalle riforme operate nel 2011 abbia prodotto risultati positivi o negativi, valutandoli serenamente. Asvis confonde la parte del bicchiere mezza vuota e quella mezza piena, evitando di riconoscere che il merito di quest’ultima va largamente attribuito proprio a quella che in altre occasioni abbiamo chiamato “rivoluzione silenziosa delle regole”. E per le cose ancora non vanno per il verso giusto, la colpa non è della mancata attuazione della volontà popolare, ma semmai della lentezza con cui procede il processo di modernizzazione e della tenacia con cui la politica locale gli antepone il controllo locale e la demagogia tariffaria.

Oggi, se non altro, possiamo misurare con precisione le carenze, identificandole e localizzandole, e individuare le priorità di intervento. Sembra impossibile da credere, eppure fino al 2018 i dati sul settore idrico si conoscevano solo in modo approssimativo, e la stessa Istat ha saputo fornire solo un quadro frammentario e basato su informazioni poco affidabili (si pensi al dato relativo all’allacciamento alla depurazione, che ha confuso per anni gli scarichi civili e industriali). Se oggi iniziamo a disporre di una fotografia accurata dello stato di qualità dei servizi, è grazie alla Regolazione della qualità tecnica (Rqti) introdotta da Arera. 

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Gli obiettivi ambientali sono oggi codificati in un percorso escutibile di riduzione delle perdite, di riduzione dello smaltimento in discarica dei fanghi, di completamento del sistema di collettamento dei reflui e di depurazione, di continuità del servizio, di sicurezza dell’acqua potabile, sostenuto da un meccanismo di sanzioni. L’adozione da parte dei gestori del “water safety plan” mette a fuoco le sfide del prossimo futuro, come il controllo degli inquinanti emergenti e delle microplastiche, la misurazione dei consumi individuali per promuovere il risparmio idrico, il riuso delle acque depurate in agricoltura, la riduzione delle emissioni di CO2 e l’efficienza energetica, identificando le specifiche criticità. 

La questione degli investimenti

Investiamo ancora la metà di quel che investono negli altri paesi, ma sarebbe il caso di ricordare che gli investimenti di oggi sono il doppio o il triplo di quelli di dieci o venti anni fa. E questo grazie al fatto che la regolazione ha garantito la solidità finanziaria delle aziende. Ma soprattutto, disponiamo oggi di un criterio per programmare in modo ordinato la spesa, per definire le priorità di intervento, evitando di sprecare risorse correndo dietro alle emergenze.

Non si tratta quindi, a nostro parere, di aumentare gli oltre 4 miliardi che il Piano nazionale di ripresa e resilienza stanzia per gli interventi, ma di rafforzare il meccanismo virtuoso avviato nel 2011. Inondare il settore di soldi da utilizzare il prima possibile è un modo pressoché sicuro per spenderli male. Si pensi piuttosto a creare circuiti finanziari speciali – ce ne sono esempi in molti paesi, dall’Olanda agli Usa – che possano ridurre i costi finanziari e diluirne l’impatto sulle tariffe.

Asvis segnala, giustamente, il ritardo nel recepimento della nuova direttiva sulla qualità delle acque potabili, ma non nota che le recenti emergenze, come il caso Pfas in Veneto, sono state affrontate e risolte brillantemente proprio grazie al fatto che in quelle terre l’industrializzazione del servizio è ormai acquisita. Si confronti questo caso di successo con le tristi vicende dell’atrazina di trenta anni fa, quando il problema era semplicemente inaffrontabile per via dell’assoluta incapacità del sistema gestionale e l’unica soluzione erano le deroghe che rendevano l’acqua potabile per legge.

Ci si lamenta che il Pnrr non disponga nulla per garantire l’accessibilità dell’acqua: ma se non lo fa, forse è proprio perché il legislatore ha già disposto strumenti in grado di sradicare pressoché interamente, e sul nascere, ogni eventuale accenno di water poverty. Provvedono in tal senso il “bonus sociale idrico”, ma anche la possibilità di introdurre ulteriori agevolazioni per le famiglie in difficoltà, addossandone il costo agli altri utenti, per non dire delle norme che precludono il distacco agli utenti morosi. Dati alla mano, non si può certo affermare che in Italia vi sia un problema di accesso all’acqua – se non per ragioni di mero deficit infrastrutturale, come in alcune aree del Mezzogiorno. È semmai vero che, nonostante i rincari degli ultimi venti anni, l’acqua italiana resta di gran lunga tra le meno costose a livello Ocse e che di water poverty, per fortuna, non vi sia quasi traccia – caso mai sarebbe il caso di notare che gli italiani spendono per l’acqua minerale tanto quanto spendono per il servizio idrico: più che “garantire l’accessibilità economica”, il problema italiano è quello di ricostruire la fiducia dei cittadini nell’acqua erogata dal servizio pubblico.

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Su un punto concordiamo però con Asvis: il Pnrr avrebbe potuto destinare qualche soldino per estendere i bonus fiscali all’ammodernamento degli impianti idraulici domestici o meglio ancora a interventi più ampi, anche alla scala di quartiere, ispirati dall’economia circolare – sistemi di ricircolo e riuso, realizzazione di stagni ed ecosistemi-filtro, gestione integrata delle acque meteoriche – che da tempo hanno iniziato a diffondersi nei paesi più avanzati.

Asvis depreca giustamente la parte tuttora mezza vuota del bicchiere: territori che ancor oggi ricevono a intermittenza l’acqua, sovente dichiarata non potabile, allagamenti e sversamenti delle fognature, lidi e coste sfregiate da divieti di balneazione per la mancanza di depuratori.

Omette però di dire che il principale responsabile delle perdite e dei disagi è proprio il ritardo nell’adozione di un modello di gestione industriale, da cui consegue la mancata realizzazione delle reti fognarie e dei depuratori, l’assenza di manutenzione e il degrado di quelle esistenti. Un’eredità che si trascina da decenni di incuria, “mala” gestione, disinteresse per l’ambiente. Perché quei territori dove competenze e attenzione sono mancate sono anche quelli dove persistono le gestioni dirette degli enti locali, o quelle dove la transizione, pur avvenuta sulla carta, risulta frenata da una gestione politica e demagogica della tariffa, con sindaci che hanno perfino inneggiato al mancato pagamento delle bollette, salvo dare “al privato” la colpa dei disservizi.

Questi fatti sono emersi in tutta la loro lampante chiarezza proprio nel corso dei lavori parlamentari sulla proposta di legge sull’acqua pubblica, tra il 2017 e il 2018. Gli oltre due anni di audizioni – più di duecento parti sociali udite – hanno rappresentano un momento di verità sul settore. Per evitare di cadere per l’ennesima volta ammaliati dalle sirene referendarie, basterebbe semplicemente ascoltare quelle audizioni. 

Se non fosse come sparare sulla Croce Rossa, inviteremmo i ricercatori di Asvis ad approfondire il caso napoletano: quello dove, a detta dei comitati, il verbo benecomunista ha trovato la sua più fedele incarnazione. Sarebbe interessante leggere, magari nel Rapporto 2022, qualche valutazione in merito a quel disastro.

Perché l’acqua gratis non è l’acqua di tutti, è semmai l’acqua di nessuno. La cosa meno sostenibile che ci sia, a proposito di “beni comuni”. Che sono diritti di tutti, ma anche doveri di tutti. Come insegnava Elinor Ostrom, che forse qualcuno farebbe bene a rileggere con attenzione.

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  1. Rick

    Eviterei di prendere il caso napoletano come esempio negativo di gestione pubblica dell’acqua. In Veneto la grande maggioranza della popolazione è servita da gestori a totale proprietà pubblica (vedi: https://www.viveracqua.it/soci/ ). Il sistema funziona bene, sia per le emergenze (PFAS) sia per la gestione ordinaria (per esempio, le 12 società hanno una centrale unica di committenza ) sia infine per gli investimenti.
    Inviterei gli autori a dare un’occhiata (e magari a raccontare su queste pagine) come le 12 società pubbliche si siano consorziate per emettere bond (BEI, CdP e Kommunalkredit AG sono stati i principali investitori per il 2020) attraverso il quale finanziare investimenti. Sono stati raccolti sul mercato centinaia di milioni di euro, investiti per progetti di sviluppo nella regione. LINK: https://www.viveracqua.it/infrastrutture-viveracqua-hydrobond-2020-conclusa-la-terza-emissione-per-248-milioni-di-euro/

    • Antonio Massarutto

      Forse le sfugge una non piccola differenza: a Napoli è stata costituita un’azienda speciale di diritto pubblico, mentre i gestori veneti (e non solo veneti ma anche friulani, piemontesi, lombardi, pugliesi, sardi) sono società per azioni in-house (ossia, enti di diritto privato con le azioni di proprietà dei comuni). Precisamente questa forma di gestione è stata oggetto di critiche da parte dei comitati referendari, con l’argomento che la SpA sarebbe “ontologicamente orientata al profitto”, e sostenendo che in attuazione della volontà popolare tutta la gestione idrica dovrebbe adottare il modello dell’ente pubblico economico (ossia, quello napoletano).

  2. Marco Del Vicario

    Forse il rapporto Asvis non ha tenuto conto del valore del FoNI per alcuni, se non molti, ambiti. Anche dopo la pubblicazione del MTT vi erano alcune situazioni (Asti, per esempio) dove i PEF portati dai gestori in banca per l’accensione di mutui non erano approvati. Non c’erano soldi, siamo nel 2012, per pensare di progettare, costruire e pagare le imprese per opere del costo di svariati milioni di euro. Era anche plausibile pensare che il circolo virtuoso avrebbe avuto bisogno di alcuni anni per andare a regime.

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