Il Ddl Concorrenza, su cui non c’è ancora un accordo definitivo, contiene molte misure in un variegato spettro di settori. Appartengono tutti al comparto dei servizi e spesso il ruolo di intermediazione dell’operatore pubblico è forte.
Il governo sembrerebbe aver trovato un accordo sul disegno di legge “Concorrenza”, che approderà al Senato il 30 maggio. Vediamo quali sono i maggiori punti su cui dovrebbe concentrarsi il Ddl.
Tanti interventi specifici
A novembre scorso si è concluso il faticoso percorso per l’approvazione in Consiglio dei ministri del disegno di legge “Concorrenza”, uno degli impegni centrali nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un provvedimento che è stato commentato dalla stampa e ripreso da Bruxelles più per quello che non c’è, la mancata liberalizzazione delle concessioni balneari, che per l’insieme delle misure previste in un ampio spettro di settori. Vale quindi la pena di tentare una disamina meno superficiale.
La prima impressione, leggendo il testo, è di una serie di interventi specifici, dalle concessioni per i bacini idroelettrici alle colonnine di ricarica, ai farmaci generici e così via. Questo, d’altra parte, è il compito affidato alla legge annuale per il mercato e la concorrenza, introdotta nell’ordinamento nel 2009 ma approvata tuttavia in un solo anno, il 2017. Un provvedimento, nelle intenzioni originarie, che, anno dopo anno, e con il contributo propositivo fondamentale dell’Autorità antitrust, proceda ad affrontare i mille ostacoli che si frappongono allo sviluppo della concorrenza nel sistema economico.
E tuttavia, andando oltre l’apparente frammentarietà degli interventi previsti, il Ddl Concorrenza restituisce una lettura del sistema produttivo chiara. Tutti i settori interessati appartengono al grande comparto dei servizi, cioè a attività economiche debolmente esposte alla concorrenza internazionale e spesso svolte attraverso un forte ruolo di intermediazione dell’operatore pubblico. Che si tratti della determinazione del numero e delle modalità di concessione delle licenze, dell’opzione tra la produzione di servizi attraverso una società in-house dell’ente locale in alternativa a una procedura di gara, della regolamentazione nelle attività commerciali, i molti ambiti nei quali il Ddl Concorrenza interviene vedono questa combinazione: servizi e ruolo importante dell’operatore pubblico, spesso a livello locale.
Dove sorgono gli ostacoli alla concorrenza
Un freno alla pressione concorrenziale, in questo senso, può nascere da ragioni diverse. In primo luogo, dagli ostacoli amministrativi e di regolamentazione all’entrata di nuovi operatori in mercati dove una pluralità di imprese è attiva: questa è la storia infinita nel trasporto pubblico non di linea, dove i tassisti hanno per anni cercato di frenare il rilascio di nuove licenze dalle amministrazioni locali, poi la concorrenza degli Ncc e ora delle App e delle piattaforme digitali. Ma storie analoghe riguardano le norme che regolano il segmento delle farmacie o dei servizi di consegna postale, su cui ancora una volta il Ddl interviene. O, infine, il caso delle licenze per la gestione di stabilimenti balneari su tratti di costa demaniali, dove invece la scelta del governo è stata quella di procedere a una sistematica mappatura delle oltre 7 mila concessioni come passo preliminare a un successivo intervento.
In altri casi il momento della pressione competitiva potrebbe manifestarsi non già nello svolgimento delle attività economiche, gestite da un unico concessionario, ma nella cosiddetta concorrenza per il mercato, quando il concessionario deve essere selezionato dal soggetto pubblico. Che si tratti di trasporto pubblico locale, gestione rifiuti, distribuzione del gas, bacini idroelettrici, per citare alcuni dei settori dove il Ddl interviene, l’assegnazione mediante gare permetterebbe una selezione del concessionario più efficiente e la raccolta di introiti elevati per l’ente appaltante. Ma molto spesso osserviamo la preferenza per una produzione in-house da una società partecipata dall’ente locale, o l’accettazione di somme ridicole pagate dal concessionario.
Questa combinazione di fattori spiega anche perché lo sviluppo della concorrenza abbia trovato i suoi ostacoli più seri nelle situazioni sopra richiamate. La protezione dalla concorrenza crea infatti condizioni di rendita e le modalità con cui vengono garantite apre un problema di ripartizione delle rendite stesse tra imprese e soggetti pubblici coinvolti. Non sto qui parlando di meccanismi corruttivi, che pure in alcune situazioni sono emersi, ma di forme inefficienti e opache di organizzazione nella fornitura dei servizi dove anche il soggetto pubblico, che rinuncia a introiti fiscali e migliori servizi per i cittadini, trova una sua contropartita, che questa venga da un appoggio elettorale, da una prossimità tra enti locali e società partecipate che garantisce sliding doors nelle carriere dei funzionari.
La pervasività e persistenza di queste situazioni si appoggia su due punti di forza. La carsica capacità di lobbying, trasversale alle formazioni politiche e ai livelli amministrativi, che si manifesta nei momenti giusti, primo tra tutti al momento dell’approvazione della legge di bilancio e, in questo caso, con alcune evidenti assenze nel Ddl Concorrenza. E una certa cultura settoriale capace di imporre la prosecuzione dell’esistente come la migliore forma di organizzazione economica possibile, e le innovazioni pro-concorrenziali come capricci di qualche professore liberista che non conosce il mondo delle professioni.
Gli sforzi di riforma in senso pro-concorrenziale, d’altra parte, trovano un ostacolo ulteriore nel fatto che molto spesso non è sufficiente approvare una nuova normativa, poiché la sua attuazione richiede l’attiva collaborazione di segmenti di autorità pubblica profondamente coinvolti nei vecchi equilibri. Sin dalle “lenzuolate” di Pier Luigi Bersani gli sforzi di allentare il freno anticoncorrenziale degli ordini professionali si sono infranti sulla scarsa collaborazione di questi organismi. La resistenza degli enti locali ad affidarsi a gare aperte è risultata in questi anni efficace.
Ne vale la pena?
Resta probabilmente al lettore una domanda di fondo: ma ne vale veramente la pena? Cosa dovremmo attenderci da tutti questi provvedimenti? Quelle che vengono definite posizioni di rendita sono stipendi e redditi di un grande numero di famiglie. E chi oggi viene indicato come un pigro rentier sulle spalle dei cittadini ha investito, nella licenza del taxi, rinnovando le cabine dello stabilimento balneare o garantendo l’efficienza del bacino idroelettrico. Senza dubbio questi argomenti hanno una parte di verità, e la transizione a condizioni concorrenziali deve tenere conto degli investimenti compiuti senza eccessi da Savonarola del mercato. Ma la risposta ultima alla domanda sta nel grafico che qui riportiamo, dove leggiamo l’andamento della produttività totale dei fattori, una misura della efficienza e innovatività del sistema economico, distinta per il settore manifatturiero e per quello dei servizi. Se il problema dell’Italia è la stagnazione degli ultimi venti anni, questa ha una componente settoriale importante. E la continua caduta nella produttività dei servizi richiama quanto appena discusso sulla insufficiente pressione della concorrenza.
Figura 1 – Produttività totale dei fattori per settore (1996 =100)
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Savino
In Italia troppi filistei contrari ad ogni tipo di innovazione per tutelare il proprio orticello. Un modo stupido di fare economia che non può reggere più e che non ci aiuta affatto.
Marcello Romagnoli
In realtà non è una novità, è semplicemente il vecchio meccanismo di invasione di grossi gruppi che possono chiedere soldi a prestito per acquistare asset nazionali. Poi porteranno all’estero i proventi.
Ivan C.
Buongiorno professor Polo, cortesemente potrebbe indicare la fonte per l’interessante grafico in calce al suo articolo?
Massimo Taddei
Buongiorno, il grafico è tratto da un working paper del Fondo monetario internazionale di Kanger e Goyal. Lo trova qui: https://www.elibrary.imf.org/view/journals/001/2018/061/article-A001-en.xml
Carlo Michetti
Paper interessante, in realtà sul punto il paper rimanda a un altro progetto.
Segnalo che la bella tabella viene richiamata per provare gli effetti della deindustializzazione.
Più precisamente si dice:
While deindustrialization is a normal process in advanced countries and Italy’s manufacturing share is still relatively high (reflecting relatively more labor-intensive production), over the past two decades TFP in services has been on a secular downward trend (see text chart), pointing to unfavorable compositional effects of deindustrialization.
Ovvero, mi sembra di capire che il declino della produttività nei servizi sia un compositional effect della deindustrializzazione.
In breve, la tabella non supporta le tesi dell’articolo.
Ivan C.
Grazie!
Vittorio Longo
Le solite ricette che non ci hanno portato molto lontano.
D’altra parte basta vedere il grafico (la fonte quale sarebbe?) per rendersi conto che dopo le “lenzuolate” di Bersani e gli interventi di del governo Monti la produttività dei servizi è pure peggiorata.
Lorenzo Luisi
A maggio scorso, seppur criticando un articolo che parlava di Covid, ho postato su linkedin [https://www.linkedin.com/pulse/fu-davvero-la-covid-ad-uccidere-tv-digitale-terrestre-lorenzo-luisi] un articolo che correlava la decadenza dell’Italia a partire dall’inizio secolo nel campo dell’uso di internet poi deviato in favore dell’uso del DTTV (ho sostenuto e sostengo che il DTTV sia una tecnologia obsoleta, ma tenuta in vita solo perché il governo dell’epoca spense ogni forma di concorrenza nel campo del digitale). Il grafico inserito in quest’articolo conferma la correlazione, almeno temporale, di quanto osservato sei mesi fa (non voglio addentrarmi in una presunta limitazione della concorrenza nata ancora prima nell’editoria a seguito dell’acquisto fraudolento del gruppo Mondadori da parte di chi poi ha dominato in conflitto di interessi la scena politica fino a oggi).
Marcello
Ne vale la pena? Si ne vale sempre la pena e in questo caso i guadagni sono ingenti.
Il sistema delle licenze produce, com tutti ben sanno, anche perchè lo insegna ogni testo base di microeconomia, una rendita che è determinata da una scarsità che sia naturale o che sia legale-amministrativa. Ora mi chiedo perchè nel 2022 devono sopravvivere settori economici in cui la scarsità che la origina la rndita, che è detrminata dallo Stato, nelle sue diverse articolazioni. Forse, ma dico forse, poteva avere un senso in un’economia pre-industriale, ma oggi in cui siamo oltre è solo un inutile e osceno privilgio. Balneari, farmacie, notai, una domanda sorge spontanea perchè? o meglio perchè non abolirle ora o se preferite se non ora, quando?
I balneari hanno investito e quindi vanno ndennizzati…ma qualcuno si è preso la briga di guardare i redditi netti generati da queste attivtà, per le quali i canoni di cocessione pagati sono nemmeno scandalosi, ma semplicemente ridicoli? farmacie, qualcuno può spiegrami perchè una licenza deve valere milioni di euro, qual è il valore aggiunto del farmacista alla commercializzaizne di farmaci prescritti da un medico? Perchè un farmacista in una farmacia con licenza è diverso dal farmacista in un corner in un centro commerciale? Notai, qui siamo al paradosso. Qualcuno ha visto la condizione dei conti della cassa di previdenza? Qualche anno fa i dirigenti della grande distribuzone dichiararono che in breve tempo sarebbero stati in grado di praticare prezzi più bassi del 20/30 % rispetto a quellidi mercato, perchè questo non va bene? Certo con queste riforme qualche migliaio di persone perderà i proventi derivanti dalla rendita, ma lo Stao e decine di milioni di cittadini realizzeranno dei risprmi non marginali. O le riforme vanno bene solo quando sappiamo che falliranno miseramente come l’eperienza inglese testimaonia per il mercato libero dell’energia?