Gli immatricolati diminuiscono e, secondo le proiezioni sulla popolazione giovanile, potrebbero continuare a farlo nei prossimi anni. Per questo, già ora gli atenei pensano a nuove forme di insegnamento. Ma non è l’unico problema che devono affrontare.
I dati del Miur per il 2021-2022
Dopo nove anni di crescita costante, nell’anno accademico 2021-2022 la domanda di immatricolati ha fatto registrare un brusco calo. Lo si ricava dall’analisi dei dati parziali sugli immatricolati proposti dal Miur. Già di per sé preoccupante, la questione deve essere analizzata alla luce dell’attuale andamento demografico.
I dati sulle proiezioni della popolazione giovanile (18-21 anni) di Istat indicano infatti come sia destinata a diminuire fino al 2042. Il dato, specie se analizzato insieme a quello sugli immatricolati annui, inizia ad anticiparci che il trend negativo delle iscrizioni alle università dell’ultimo periodo potrebbe non essere un fenomeno passeggero.
Se assumiamo che la quota di immatricolati sulla popolazione giovanile dell’anno accademico 2021-2022 rimanga costante al 13,8 per cento anche per i successivi, entro il 2041-2042 sarà ragionevole attenderci circa 70 mila immatricolati in meno rispetto a quelli del 2021-2022 (Figura 1).
In altre parole, il numero di persone in meno sarà pari a quello accolto dai 55 atenei con il minor numero di immatricolati annui.
Figura 1 – Popolazione giovanile (18-21 anni) vs immatricolati
Perché è importante parlarne
Tale scenario metterà gli atenei italiani davanti a nuove sfide e sarà fondamentale non farsi trovare impreparati. Per contrastare il trend demografico, bisognerà comprendere su quali leve agire per limitare i danni. Ecco due possibili soluzioni:
- cercare di ampliare il bacino di popolazione a cui offrire i corsi universitari, ad esempio riferendosi a fasce demografiche differenti o cercando di attirare studenti internazionali;
- incrementare la quota di popolazione che si iscrive all’università. L’obiettivo potrebbe essere raggiunto migliorando l’efficacia delle attività di orientamento in ingresso (rendendole per esempio più targettizzate) e adattando l’offerta formativa alle esigenze degli studenti e delle imprese.
Tra le opportunità che gli atenei potrebbero sfruttare per rendersi più appetibili e reagire ai cambiamenti, c’è anche quella di rendere la loro offerta formativa più competitiva attraverso nuove modalità di apprendimento. Su questo, la pandemia ha giocato un ruolo importante. E gli atenei tradizionali stanno già ricorrendo al lancio di corsi in modalità del tutto telematica o mista: durante gli ultimi sei anni sono stati aggiunti 91 corsi, 50 solo nell’ultimo triennio, tra il 2019-2020 e il 2021-2022 (Figura 2).
Figura 2 – Corsi in modalità telematica o mista negli atenei tradizionali
Benché la formazione universitaria rimanga fondamentale e non facilmente sostituibile, dai dati emerge chiaramente come nuove modalità di formazione potrebbero assumere sempre maggiore rilevanza nei prossimi anni. Ne è un esempio, il ruolo svolto dai Bootcamp, i quali propongono un modello che ha portato a una crescita esponenziale degli iscritti, grazie anche alle numerose partnership instaurate con le università e all’innovativa modalità di pricing dei corsi.
I corsi di laurea in crescita
Non va tuttavia dimenticato che, anche nell’ultimo anno, alcune classi di laurea sono riuscite ad acquisire un numero più alto di immatricolati. E ciò fornisce anche indicazioni per orientare le scelte future degli atenei.
Tabella 1 – Corsi di laurea in crescita da 5 anni
Come riportato nella Tabella 1, tre delle cinque classi di laurea con una maggiore crescita negli ultimi cinque anni afferiscono all’area sanitaria: professioni sanitarie tecniche, professioni sanitarie della prevenzione e medicina e chirurgia. Sappiamo già della necessità di competenze legate al mondo sanitario e la pandemia sembrerebbe aver incentivato un processo di migrazione della domanda verso classi connesse proprio a questo mondo.
Le modifiche della domanda di istruzione universitaria ci mostrano come le esigenze degli studenti siano in rapida evoluzione. Tuttavia, gli atenei rischiano di andare incontro a un mix di fattori molto preoccupanti: l’aumento dell’offerta formativa universitaria che ha superato i 5 mila corsi di laurea, l’incremento della competizione di altri attori, come Its e Bootcamps, la riduzione della popolazione giovanile e un tasso di istruzione che non riesce a decollare.
In pratica, le università rischiano di trovarsi in un contesto in cui si compete sempre di più per un numero sempre più basso di utilizzatori finali. Come si può invertire questo trend? Il dibattito è aperto.
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Max
Articolo interessante. Io direi che le università saranno senza studenti non solo per il calo degli immatricolati/iscritti ma anche perché chi si immatricola/iscrive pure in corsi tradizionali (ovvero non telematici) non frequenta più le aule universitarie. Personalmente penso che si perda una parte fondamentale della formazione prima, e dell’apprendimento poi, quello basato con le interazioni coi pari. Parlando con molti colleghi/e, di diversi Atenei, sembra una tendenza generalizzata e temo che vada consolidandosi nel tempo.
Nicola
Il problema del decremento, a mio avviso, è imputabile a più fattori. Oltre all’analisi descritta va considerato il fattore economico: le famiglie, dunque tutte, sopportano spese non indifferenti per poter far studiare uno o più componenti, ma non tutte ce la fanno. Pertanto ciò che potrebbe sembrare marginale in molti casi è fondamentale. Lo Stato, se vuol conseguire uno standard socio-culturale come dire più alto, deve agire con politiche incentivanti, agevolando i meno abbienti.
Savino
Quando i ’68ini sono diventati baroni è finita l’università, diventata solo un concorsificio per parenti senza creare più nè una classe dirigente futura, nè un posto di lavoro per i nostri giovani. Fanno bene quei genitori che decidono responsabilmente di non affidare la sorte dei propri figli a certa gente.
Andy McTREDO
Non avrei saputo scriverlo meglio !
Massimo
Argomento interessante, ma articolo molto poco originale per gli standard della Voce.info. Le tesi degli autori, oltre che il titolo (pressoché identico) risultano piuttosto simili ad altro articolo pubblicato altrove e ripreso poi da vari giornali. Sarebbe stata cosa buona e giusta quanto meno citarlo.
Belzebu'
Manca l’approccio scientifico al problema.
Ho sentito casualmente in TV Rai3 ore 17 circa un botanico (Prof. Univ.) raccontare quanto siano importanti gli alberi per i cittadini e quanto i cittadini non siano informati di cio’.
Perchè, invece, non ce lo ha spiegato?
Avrei preferito sapere da lui insegnante e cultore della materia (spero) quanta Co2/anno assorbono, quantoi alberi esistono sulla terra, quanti ne occorrono per compensare la Co2 prodotta, ma anche qunti ne servono per le attività umane ecc.
Che aumentino gli iscritti a medicina è normale e logico.
In Italia vengono versati e spesi per la salute circa 200MLD di euro tra pubblio e privato.
I medici stipendiati dallo Stato, sempre nel bel paese dove i medici lavorano gratis, sono oltre 500.000.
La specializzazione gliela paga lo stato. Quale altra professione è cosi’ ricca e cosi’ poco rischiosa?