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Carriere universitarie: è tempo di riforma

La legge 79 modifica lo stato giuridico di docenti e ricercatori universitari. In particolare, riorganizza il percorso per diventare ricercatore e sostituisce gli attuali 370 settori scientifico-disciplinari con raggruppamenti dai confini più ampi.

La riforma

La legge 79, appena approvata dal Parlamento, contiene importanti novità che modificano lo stato giuridico del personale docente e ricercatore universitario. Tra i vari interventi, due meritano attenzione: la riorganizzazione del percorso per diventare ricercatore e la sostituzione degli attuali 370 settori scientifico-disciplinari con raggruppamenti dai confini disciplinari più ampi.

L’introduzione di un nuovo percorso di accesso alla carriera universitaria, finora regolato dalla riforma Gelmini del 2010, era nell’aria: se ne discute almeno dall’inizio della legislatura e un disegno di legge approvato alla Camera si era poi arenato al Senato. Il governo ha deciso di recuperare molti elementi di quel disegno di legge, inserendoli come maxi emendamento all’articolo 14 del decreto legge Pnrr2. L’iter, basato sulla decretazione di urgenza, non è stato ideale, ma era evidente a tutti come la parte universitaria del Piano nazionale di ripresa e resilienza – basata su condivisibili investimenti negli alloggi universitari e borse di studio – fosse debole sul fronte delle riforme: il governo ha deciso di porvi rimedio in questa occasione.

Come si diventa ricercatore

Con la nuova legge, il percorso canonico per entrare nei ranghi universitari diventa: dottorato di ricerca – contratto di ricerca – ricercatore a tempo determinato (tenure track). Vengono quindi meno gli assegni di ricerca post-doc, sempre più utilizzati dagli atenei anche come avvicinamento al concorso di ricercatore (sono circa 14 mila, secondo i dati Mur), e la distinzione tra le figure dei ricercatori di tipo A e B. Rimangono invece immutate le due fasce di professore associato e ordinario, al culmine della carriera, anche se è prevista la riforma del meccanismo di abilitazione. I contratti di ricerca, che rimpiazzano gli assegni di ricerca, sono biennali, rinnovabili una volta ed estendibili al quinto anno solo nel caso in cui poggino su progetti di ricerca esterni, nazionali o europei (tipo Erc).

I nuovi contratti presentano una serie di problemi, in primo luogo l’aggravio di costi: la legge, prevedendo un contratto di lavoro subordinato, trasforma il cosiddetto assegno di ricerca in un rapporto di lavoro vero e proprio (comprensivo di Irpef, etc.), raddoppiando il costo per gli atenei dagli attuali 23.700 euro; e demanda le regole e la definizione dell’importo definitivo al contratto collettivo di comparto, finora diretto al solo personale tecnico-amministrativo, con potenziali problemi di gestione della nuova tipologia. Insomma, pur essendo chiaro l’intento di fornire adeguate garanzie lavorative ai contrattisti, il rischio è di ingessare l’uso dello strumento, determinandone una significativa riduzione rispetto a oggi. Altra criticità: la spesa complessiva per l’attribuzione dei contratti di ricerca non può superare la spesa media sostenuta nell’ultimo triennio per l’erogazione degli assegni di ricerca, come da bilanci approvati, limitando ulteriormente l’uso dello strumento. Infine, i contrattisti non hanno obblighi didattici: questo complicherà la gestione dei corsi, rispetto all’impegno degli attuali RtdA, e le università saranno costrette a ricorrere a contratti integrativi, con conseguenti maggiori oneri, che impattano negativamente sugli indicatori per l’Ffo.

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La nuova figura di ricercatore (Rtt) rimpiazza sia gli RtdA sia gli RtdB: questi ultimi erano ormai professori associati in pectore, dato che gli atenei di norma preferiscono selezionare persone con l’abilitazione scientifica nazionale e che quindi possono transitare automaticamente all’associazione al termine dei tre anni da ricercatore. Gli Rtt durano al massimo sei anni: un terzo deve provenire dall’esterno dell’ateneo, proprio per equilibrare il rischio, sempre presente, che vengano privilegiate le carriere interne. Chi ha già l’abilitazione a professore associato può fare domanda di passaggio a partire dalla conclusione del terzo anno. L’obiettivo, lo ha detto la ministra Messa, è di accorciare i percorsi universitari consentendo ai meritevoli di diventare ordinari a 35 anni.

La legge prevede un regime transitorio di sei mesi per attivare ancora vecchi assegni post-doc; di tre anni per gli RtdA; di 1 anno, o fino all’esaurimento dei piani straordinari in corso, per gli RtdB. Inoltre, ci sono passaggi agevolati dai vecchi RtdA ai nuovi Rtt. La decisione strategica che gli atenei dovranno prendere è se creare nuove posizioni di RtdA, usufruendo della finestra prevista del Pnrr o del Pnr, che aiutano sul fronte della didattica ma sono destinate però a un rapido esaurimento, o di RtdB, da far poi transitare a Rtt; oppure puntare direttamente sul nuovo ruolo unico, i cui contorni non sono però ancora pienamente definiti.

I concorsi per associati e ordinari

La legge 79 disciplina anche i concorsi sia per i ricercatori sia per i livelli successivi. I bandi sono di ateneo, con commissioni composte da un membro interno e quattro esterni. La prova consiste in un seminario e in una lezione, oltre che nella discussione dei titoli. Per professori associati e ordinari, l’abilitazione nazionale diventa totalmente automatica (leggi bibliometrica o su parametri di pubblicazioni definiti dall’Anvur per gli altri settori): vista l’arbitrarietà nei giudizi dell’ultima Vqr da parte di alcuni Gev, il ritorno a criteri bibliometrici ove possibile appare una mossa di buon senso. Ovviamente, bisogna capire l’impatto per quei settori che non sono bibliometrici. Infine, le università possono attingere anche agli idonei non vincitori del concorso, ma, a differenza del passato, solo a quelli del proprio ateneo.

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I nuovi raggruppamenti disciplinari

La seconda grande novità è la modifica degli attuali settori scientifici disciplinari, sostituiti dai gruppi, il cui numero è limitato dalla legge. Gli attuali Ssd sono il fulcro delle carriere universitarie: più è ristretta la loro definizione, più forte è il controllo degli incumbent nella selezione dei futuri professori; allargandone l’ambito, questo potere è destinato inevitabilmente ad annacquarsi. L’attuale suddivisione per settori appare comunque antiquata: la ricerca e la didattica richiedono una sempre maggiore interdisciplinarità, che travalica l’appartenenza a questo o a quel settore. Per adeguare i meccanismi di assunzione alla nuova realtà occorrerebbe abrogare i settori disciplinari e lasciare che siano i dipartimenti a effettuare direttamente le chiamate dei singoli accademici, sulla base delle loro esigenze strategiche e della reputazione individuale tenendo presente gli obiettivi sia della ricerca sia della didattica.

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Il Punto

13 commenti

  1. Pietro Manzini

    Carissimi
    un commento a caldo. Se si abolissero i settori disciplinari e si lasciasse ai dipartimenti la libertà di decidere, la scelta sarebbe determinata dai gruppi di potere interni ai dipartimenti , e pertanto non sarebbe virtuosa. Potremmo assitere ad un professore di diritto romano che insegna diritto dell’Unione europea, oppure – e la prospettiva sarebbe veramente inquietante – ad un economista che insegna diritto. Anche nel futuro sarebbe opportuno che la trasmissione del sapere sia affidata a chi quel sapere possiede veramente.
    A proposito: qualcuno ha informazioni su esempi di ricerca veramente ‘interdisciplinare’ (o è uno slogan?)

    • Augusto Joppolo

      Concordo pienanente. Augusto Joppolo

    • Marco Todisco

      Buonasera Pietro,

      Sono un giovane Postdoc da due anni negli Stati Uniti. La ricerca che faccio è assolutamente interdisciplinare tra chimica, fisica e biologia, con un focus che varia a seconda di chi sia il mio interlocutore. Tutte le persone a cui racconto del mio lavoro lo accolgono con entusiasmo.
      Purtroppo nonostante questo per me in Italia non c’è spazio a causa della rigidità dei settori scientifico disciplinari. Il mio capo qui sostiene che appartengano al medioevo. Oggi la ricerca di avanguardia si fa in maniera interdisciplinare, ma in Italia vogliamo tagliarla fuori.
      Questa riforma potrebbe aiutarmi a rientrare un domani, a me come a tanti altri ricercatori che appena escono dell’Italia trovano le porte chiuse per mille motivi.

      • Pietro Manzini

        Caro Marco
        al di là della battuta, la questione della interdisciplinarietà è seria e io stesso, ai tempi del post -doc , ho subito rallentamenti di carriera per via della mia ricerca tra diritto ed economia. Però, se da un lato, nessuno impedisce di fare ricerche interdisciplinari, dall’altro, al momento della chiamata di un docente, v’è la necessità di accertare che questi sia in controllo di almeno una disciplina. Ho avuto occasione di ascoltare brillanti giovani ricercatori ‘interdisciplinari’ che non conoscevano le basi di nessuna di quelle che frequentavano e a volte questo conduceva a scoperte dell’acqua calda, dopo anni di studi severi. Poi c’è il problema della docenza: un corso di fisica classica è imprescindibile (come pure biologia e chimica) e tu stesso ne hai beneficiato. Queste sono valutazioni che vanno fatte al momento delle chiamate.
        Una parola sul Medioevo: chiedi al tuo capo come mai un giovane riercatore come te, che viene dal medioevo, è così brillante nella terra della interdisciplinarietà. In bocca al lupo per il rientro.

        • Seeker

          Gentile,

          mi fa piacere che qualcuno faccia presente il limite dell’interdisciplinarietà. Non che sia un male, ma certamente c’è il rischio di annacquare la specificità di competenze richieste per una branca di studi. Perché in teoria interdisciplinarietà dovrebbe significare due o più competenze al massimo (come in un ideale team di ricerca), mentre a livello individuale è in realtà purtroppo il prevalere di una branca sulle altre (col rischio che non se ne abbia perfetta padronanza).

          Ho assistito a percorsi di ricerca fatti da gente che per via dell’interdisciplinarietà saltavano tutti quei processi cognitivi che servono a fondare un pensiero completo almeno di una branca. Non farlo presente espone ad amare sorprese quando un domani si concorre per una cattedra, per cui ho visto anche giovani promettenti finire bocciati per “insufficiente maturità scientifica” pur avendo le carte a posto secondo l’ANVUR (è brutto scoprire dopo anni che avevi sbagliato i tuoi calcoli).

          D’altra parte, ci sta chi in nome dell’interdisciplinarietà rimane in pratica sullo stesso argomento pur di non infrangere quell’idolo che il ricercatore si è creato da solo. E purtroppo nel 90% dei casi ho constatato che parliamo di giovani che ad occhi attenti sono un pochino ripetitivi (qualcuno in mala fede direbbe che è “salami slicing” o “harking”), che confondono le regole ANVUR di accreditamento ex-ante come prove ex-post della qualità di quanto prodotto.
          Ma qui la colpa è dei colleghi del ricercatore che non lo aiutano a diversificare i suoi studi, perché purtroppo esistono le mode nella ricerca (come anche revisori intellettualmente mediocri più interessati ad autogonfiarsi che alla ricerca vera, così alimentandole a sproposito), come purtroppo credersi i re di una disciplina è pura illusione (visto che dopo 5 anni hai chi ti ha raggiunto o peggio, superato in quel campo)…

    • Sara Bellei

      Interessante domanda. In ambito scientifico, la mia esperienza è che settori prettamente tecnologici come sviluppo software, in ambito di ricerca beneficino molto di collaborazioni strette con ricercatori che provengano da fisica e matematica. Viceversa, in un dipartimento di fisica dove si faccia ricerca sperimentale giova assai avere qualche ricercatore che provenga da ambiti più tecnici, come ingegneria elettronica. Penso che anche la ricerca biomedica possa beneficiare di un approccio – e un team multidisciplinare e non sarebbe male se ricercatori di ambiti diversi potessero navigare tra dipartimenti e facoltà. Resta il problema della didattica, che come spiega bene nel suo commento richiede invece conoscenze più solide sulla materia specifica: un laureato in ingegneria che insegna meccanica classica o elettromagnetismo alla triennale difficilmente lo fa altrettanto bene e con lo stesso approccio rigoroso di un professore laureato in fisica. Purtroppo succede molto di frequente: quasi tutti i professori dei corsi base di fisica e matematica nelle facoltà di ingegneria e nei politecnici non sono laureati né in fisica, né in matematica, con conseguenze negative sulla qualità di insegnamento di queste materie rispetto alle facoltà di scienze pure.

  2. Marcello Romagnoli

    Nessuna riforma può migliorare la situazione se:

    1) Non si aumenta il finanziamento alle Università, molto inferiore alla media europea
    2) Non si accetta il fatto che le università possano scegliersi le persone, come succede in giro per il mondo. Certamente con un correttivo per cui è più facile licenziare se non si superano certe soglie di pubblicazioni e docenza nellarco di un triennio

  3. Dato che tutte le università it statali conferiscono lauree con valore legale identico occorre per tutte le lauree un piano di studi nazionale con tutte le discipline indispensabili. Affidare ai dipartimenti la scelta delle discipline abolendo i settori disciplinari potrebbe sconvolgere il nostro sistema universitario. A vantaggio di chi? Facile previsione

  4. Max

    La riforma sembra un po’ scritta da qualcuno venuto da Marte, raddoppia i costi ma vedremo se verranno raddoppiate anche le risorse, altrimenti il numero di contratti si dimezzerà e l’Italia andrà ulteriormente in coda ai paesi OECD non solo per percentuale di laureati ma anche di addetti alla ricerca. Non parliamo poi dell’assenza dell’obbligo di didattica (di cui non ero a conoscenza), all’estero i postdoc non hanno obbligo di insegnamento (non dappertutto), ma se questi non sono assegni postdoc ma contratti tenure track sono assimilabili a quelli degli Assistant Professor all’estero, che didattica la fanno eccome. Quindi ulteriori costi per affidamenti esterni e didattica magari fatta da persone meno qualificate dei ricercatori. Come al solito riforme fatte in fretta e furia senza valutarne attentamente le conseguenze e ancora più’ preoccupante se pensate da chi il sistema lo dovrebbe conoscere bene.

  5. Claudio Molinari

    bah… mi sembra il solito sgorbio…. cambiano i ministri, ma non c’è mai la volontà di cambiare veramente le cose… e la carriera universitaria diventa sempre meno attrattiva

  6. Beniamino Cappelletti-Montano

    Leggo

    “La legge 79 disciplina anche i concorsi sia per i ricercatori sia per i livelli successivi … ecc ”

    Vorrei chiedere agli autori in quale punto – articolo e comma – la legge 79/2022 articolerebbe i nuovi concorsi per professori associati e ordinari (credo in nessun punto, in tal caso sarebbe preferibile rettificare l’articolo).

  7. Ariosto

    Penso che ci sia un errore nell’articolo. A me risulta che la legge n. 79/2022 sia intervenuta solo sulla disciplina del pre-ruolo. Quindi tutto il seguente paragrafo non ha fondamento:
    “La legge 79 disciplina anche i concorsi sia per i ricercatori sia per i livelli successivi. I bandi sono di ateneo, con commissioni composte da un membro interno e quattro esterni. La prova consiste in un seminario e in una lezione, oltre che nella discussione dei titoli. Per professori associati e ordinari, l’abilitazione nazionale diventa totalmente automatica (leggi bibliometrica o su parametri di pubblicazioni definiti dall’Anvur per gli altri settori): vista l’arbitrarietà nei giudizi dell’ultima Vqr da parte di alcuni Gev, il ritorno a criteri bibliometrici ove possibile appare una mossa di buon senso. Ovviamente, bisogna capire l’impatto per quei settori che non sono bibliometrici. Infine, le università possono attingere anche agli idonei non vincitori del concorso, ma, a differenza del passato, solo a quelli del proprio ateneo”.

  8. Aram Megighian

    Mi sembra che poi alla fine si giri con cicli venti/trentennali sempre attorno allo stesso punto: come rendere rigorosa, meritocratica ed indipendente la scelta dei docenti universitari. E quindi criteri bibliometrici, algoritmi, settori disciplinari, abilitazioni nazionali (c’erano anche negli anni 70-80), più idonei (la cinquina degli anni 70 e precedenti) e così via.
    Un docente universitario dovrebbe anche essere quello che studia e ricerca cosa è stato fatto, magari fuori dal nostro paese. Tutti abbiamo avuto esperienze estere e, a parte trarne spesso il classico atteggiamento un po’ autoreferente di chi le ha vissute e sa, rispetto ai “poveri” che non le hanno fatte, nessuno ha realmente portato esperienza dei reclutamenti e di come sono fatti. Forse perchè tutte queste regole fatte con l’idea di rendere la procedura precisa e assoluta, non vengono utilizzate, e ad esse si preferisce un semplice colloquio. Ma, soprattutto, proprio mentre si parla di Dipartimenti e dei consessi di docenti che al loro interno vi albergano, ci si dimentica di un concetto forse fondamentale: il principio di responsabilità. Cioè quel criterio in base al quale se il Prof X vuole reclutare il Dott Y per fare ricerca e insegnare, questo processo è condiviso responsabilmente da tutti. Se il Dott Y non sviluppa la sua ricerca in 3 anni producendo, o se il corso che abbiamo attivato per il Dott Y è disertato dagli studenti perchè il Dott Y non insegna bene, oppure non conosce bene la sua materia, l’intero Dipartimento salta un turno di distribuzione dei posti. Da noi questo sistema di responsabilizzazione non esiste o se esiste non è per niente implementato, determinando un reclutamento parcellizzato da gruppi potenti all’interno dei Dipartimenti, così come relegandone la discussione a livello di quei tre quattro ordinari che la devono gestire. Risultato ? Una progressiva omogeneizzazione della ricerca attorno ai temi hot (che come tali sono studiati dal 90% del mondo), e una progressiva deculturizzazione dei docenti, molti dei quali non conoscono per niente la loro materia, non la “maneggiano” bene e si limitano a gestire delle lezioni omogenee standard senza adattarle alla tipologia di studenti a cui insegnano, trasformando, di fatto, l’Università in una sorta di ulteriore liceo.

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