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A volte ritornano: le province

Dopo il fallimento del referendum costituzionale, le province sono rimaste nell’articolo 114 della Costituzione quali enti costitutivi della Repubblica. È il dato di fatto che anima le iniziative legislative mirate al loro ripristino in tutto il paese.

L’articolo 114 della Costituzione

Con l’avvio dei nuovi lavori parlamentari, è ritornata alla ribalta anche la questione del riassetto territoriale degli enti intermedi, fermi a causa della “conseguente e perdurante operatività delle province e l’attribuzione ad esse di determinate funzioni fondamentali non di mero coordinamento”, come sostiene la Corte costituzionale nella sentenza n. 240/2021.

Per il senatore di Fratelli d’Italia Marco Silvestroni, che nei giorni scorsi ha presentato uno specifico disegno di legge, “È necessario il superamento della legge Delrio perché non può essere attuata poiché le province sono ancora previste dalla Costituzione e mantengono le competenze sull’edilizia scolastica, sulla tutela e valorizzazione dell’ambiente, sui trasporti e sulle strade provinciali”.

Con la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione (legge cost. n. 3/2001) è stata complessivamente potenziata l’autonomia organizzativa, funzionale e finanziaria degli enti territoriali e, al loro interno e per quanto qui rileva, delle province. In particolare, il “nuovo” articolo 114, oltre a elencare tutti gli enti territoriali che, a partire dalle province, compongono la Repubblica, riconosce sia agli enti locali (comuni, province, città metropolitane) sia alle regioni la natura di enti autonomi, ponendoli su un piano di pari dignità istituzionale, pur nella distinzione dei rispettivi poteri e prerogative. In tal modo, quindi, l’articolo 114 avrebbe sancito un pluralismo istituzionale paritario, sì da non consentire più rapporti di gerarchia o anche solo di preminenza tra i diversi enti che compongono la Repubblica. Sarebbe così venuta meno la struttura verticale delle autonomie territoriali, propria della Costituzione del 1948, in favore di un sistema istituzionale costituito da una pluralità di enti, tra loro integrati ma autonomi, sia pure connotati da diverse tipologie e gradazioni di poteri e funzioni.

Il disegno riformatore della legge Delrio (n. 56/2014) si è inceppato a seguito della mancata approvazione della riforma costituzionale (Boschi-Renzi) che prevedeva la cancellazione delle province dall’articolo 114 della Costituzione. L’immobilismo generatosi in questi anni, nell’ambito del quale le regioni a statuto speciale sono andate in ordine sparso, è stato di recente stigmatizzato dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 240/2021, ha dovuto superare il proprio orientamento (sentenza n. 50/2015) espresso in un momento in cui sembrava che le province dovessero essere chiuse.

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Ora, se nelle regioni a statuto ordinario le province sono diventati enti funzionali e strumentali retti da governi di 2° grado, definiti “enti di area vasta”, è nelle regioni a statuto speciale che la questione assume i connotati del disordine istituzionale. Del resto, non è dato riscontrare nella giurisprudenza costituzionale l’enucleazione di un netto principio per ricomprendere anche gli enti locali (quali comuni e province) nella ponderazione della più ampia autonomia e dunque per concludere circa la diretta applicabilità dell’articolo 114 della Costituzione alle regioni a statuto speciale. La Corte costituzionale, peraltro, con due decisioni (sentenza n. 274/2003 e ordinanza n. 144/2009) ha escluso la totale equiparazione tra i diversi livelli di governo territoriale e ha evidenziato come proprio i principi di adeguatezza e differenziazione, comportino la possibilità di diversificare i modelli di rappresentanza politica ai vari livelli.

La Regione siciliana

In Sicilia, il legislatore regionale con la legge n. 15/2015 ha soppresso le province regionali e ha istituito sei liberi consorzi comunali e tre città metropolitane in attuazione a quanto previsto dall’articolo 15 dal proprio statuto, secondo cui “l’ordinamento degli enti locali si basa nella regione stessa sui comuni e sui liberi consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria”. Tali enti, che lo stesso legislatore, all’articolo 13 Dl del presidente della regione n. 6 del 29/10/1955, non esitò a definire “non territoriali”, non sono mai entrati a regime. La regione ha rinviato ben undici volte le elezioni degli organi dei liberi consorzi comunali e delle città metropolitane, prorogando contemporaneamente la gestione commissariale degli enti di area vasta. L’ultimo rinvio è stato recentemente oggetto d’impugnativa della presidenza del Consiglio dei ministri per violazione di più parametri costituzionali.

La Regione Sardegna

In Sardegna il travagliato iter con il quale si è tentato più volte di riformare l’assetto degli enti intermedi è ancora in corso e, recentemente, la Corte costituzionale (sent. n. 68/2022), nel dichiarare inammissibile il ricorso presentato dalla presidenza del Consiglio dei ministri sull’ennesima proroga dei commissariamenti delle province, ha, di fatto, consentito il mantenimento delle sei province e delle due città metropolitane. Le province sarde conservano, per espressa previsione dell’articolo 43 dello statuto, la struttura di “enti territoriali”.

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Il Friuli Venezia-Giulia

La Regione Friuli Venezia-Giulia, previa mirata modifica del proprio statuto con legge costituzionale, ha soppresso le sue quattro province tra il 2017 e il 2018 e ha creato diciotto unioni territoriali intercomunali (Uti). Tuttavia, nel 2019 le ha abolite e istituito quattro enti di decentramento regionale (Edr), i cui territori di competenza corrispondono a quelli delle province soppresse. Gli Edr sono “enti funzionali” della regione con personalità giuridica di diritto pubblico, dotati di autonomia gestionale, patrimoniale, organizzativa e contabile, sottoposti alla vigilanza e al controllo della regione.

Quale modello di ente intermedio

Nel caso in cui il legislatore, e per esso la “politica”, volesse seriamente ritornare sui propri avventati passi, dovrebbe ripartire da uno studio sui bisogni, non astratti, che emergono dai rispettivi territori e solo dopo optare per il modello di ente intermedio più adeguato.

In tale contesto, la scelta di un “ente territoriale di governo” piuttosto che di un “ente funzionale e strumentale”, ancorché di “area vasta”, non può essere frutto di un sorteggio né di banali obiettivi riconducibili alla cieca riduzione dei costi della politica, bensì di una ponderata valutazione basata sui principi costituzionali di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. Anche perché, a ogni trasferimento di funzioni a questi (martoriati) enti, dovrà comunque corrispondere un adeguato trasferimento (o un’attribuzione) di risorse economico-finanziarie per farvi fronte. Correlazione fra funzioni e risorse desumibili, oltre che dal principio di ragionevolezza al quale la Corte costituzionale attribuisce da sempre valore fondamentale, anche dal nuovo assetto del Titolo V della Costituzione.  

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Irresistibile ascesa e repentina caduta di Ftx

  1. Savino

    Solo moltiplicazione di centri di spesa, di potere e aumento della corruzione.

  2. Maurizio Cortesi

    Tutto il concetto di ente intermedio e di area vasta poggia sulla eccessiva frammentazione del livello base amministrativo e di gestione, cioè gli intoccabili comuni che spesso abitati da poche migliaia se non centinaia di persone sembrano quasi campati per aria visto che del territorio su cui insistono si devono occupare altri enti, dalle province allo stato. Questa è l’alienante conseguenza della concezione cattolica per cui siamo nel mondo ma non siamo del mondo e del suo comunitarismo, che porta a confondere il municipio con la comunità di pellegrini. E invece il cambiamento climatico necessita di considerare pienamente territoriali questi enti locali per contrastare efficacemente l’impatto, accorpandoli drasticamente per avere estensioni e popolazioni relativamente vasti con quindi effettiva capacità di governo anche fiscale. A quel punto l’ente intermedio necessario è solo la Regione e non certo piccole e/o poco popolate come Molise, Valle d’Aosta, Basilicata, Umbria, Ligurai, Abruzzo , Friuli, Marche e TAA (La Sardegna come resta un po’ a parte).

  3. Vincenzo Maccioni

    In Toscana, le province sono diventate enti di area vasta, funzionali all’ente Regione. Mantenendo, comunque, tutte le “tasse” e le imposte attribuiti alla provincia e diversi settori di intervento, come per esempio le strade provinciali. Peccato che questo flusso di denaro sia stato incamerato dalla Regione, che l’ha gestito a proprio piacimento. Risultato: le strade provinciali fanno pietà! La soluzione? Applicare un limite di velocità a 30 km/h, come se andare piano non ti faccia prendere le buche centrali e laterali della strada. Ci sono strade (io abito lungo la SP 28) dove ai lati c’è uno scalino di oltre 30 cm, scalino creatosi dallo sbriciolamento dell’asfalto e dal dilavamento delle acque meteoriche non incanalate. La manutenzione delle strade è demandata ai privati, che in parte sopperiscono. Ma il proprietario che vive a 1000 km di distanza, che non sa o non ricorda nemmeno che il nonno gli ha lasciato in eredità un pezzo di terreno che affaccia su una strada, non pulirà MAI e non provvederà MAI alla manutenzione richiesta, che prima veniva svolta da un adeguato numero di operai provinciali. Ma allora, se le compentenze sono quasi identiche, se il flusso di denaro è rimasto costante, perché il servizio manutenzione è calato così drasticamente? A cosa paghiamo tutte le tasse? Per creare poltronifici o per rispondere alle esigenze dei cittadini?

  4. Piero Borla

    La legge Delrio aveva e ha un senso. Invece di tornare indietro, perché non proseguire nel cammino interrotto ? Basta aggiungere un rigo nelle nuove modifiche che si intendono apportare alla Costituzione. Ben più sensato sarebbe eliminare questa anomala unione personale fra la figura del sindaco del capoluogo di città metropolitana e quella del sindaco della città metropolitana stessa. E c’è tutto il mai terminato lavoro di razionalizzazione degli enti di area vasta e dei comuni polvere.

  5. Maurizio Cortesi

    Le città metropolitane sono una mistificazione: si sono così ridenominate le province più popolose e “storicamente illustri”, e afferenti ai capoluoghi di regione, senza tenere conto dell’effettiva intensa urbanizzazione del relativo territorio. Il parametro della densità abitativa è a riguardo discriminante: solo quelle di Napoli e Milano -non a caso le più piccole per estensione- hanno densità decisamente metropolitane con oltre 2000 abitanti per kmq. Neanche Roma che pure è la più popolosa, ma anche la più estesa dopo Torino, arriva a 1000 abitanti/kmq (800 scarsi) e lì il peso del comune capoluogo è decisivo, il resto della provincia non arriva mediamente ai 400 ab./kmq. Ma Firenze, Bologna, Venezia (anche correggendo il dato territoriale per le acque interne che per lì sono significative per via della laguna veneta) ecc. neanche arrivano a 400 ab./kmq. includendo il capoluogo che è sempre il comune di gran lunga più popoloso. Invece città metropolitana mi sembra più la provincia di Monza Brianza che in soli 405 kmq ospita la bellezza di 55 comuni, che fa meno di 8kmq in media, e ormai 870 mila abitanti, più di Torino e dell’Umbria. E Renzi poteva pensare piuttosto alla Firenze-Prato che con i comuni limitrofi arriva facilmente alle dimensioni di MB.

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