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Il salario minimo? Complementare alla contrattazione

Non è necessario fissare per legge un salario minimo. Lo si può determinare in modo complementare alla negoziazione settoriale. Si potrebbe così dar voce a lavoratori e istanze che oggi non hanno rappresentanza, senza togliere ruolo ai sindacati.

La posizione dei sindacati europei

In Italia, il dibattito sul salario minimo non è mai stato così acceso, come dimostra la recente seduta della Camera sul tema. In questo contesto si inserisce l’approvazione della direttiva europea sul salario minimo e la contrattazione collettiva. Nella sua forma finale, si veda l’analisi di Andrea Garnero, la direttiva non impone né di istituire un salario minimo, né detta livelli precisi rispetto al suo ammontare. Sebbene marchi un passo importante nella costruzione di politiche europee sul lavoro, siamo abbastanza lontani dall’ipotesi originale che prevedeva la introduzione obbligatoria di un salario minimo al 60 per cento di quello mediano. Come si è giunti al testo attuale partendo da tali premesse? Che lezione se ne può trarre perché anche l’Italia si doti (presto) di un salario minimo?

Vale la pena guardare alle posizioni dei sindacati nazionali, e in particolare a quelle delle organizzazioni italiane.

Cgil, Cisl e Uil sono sempre state contrarie all’introduzione di un salario minimo de jure. Il motivo è la paura di veder passare in secondo piano la contrattazione collettiva. Il salario minimo potrebbe infatti agire come un catalizzatore al ribasso, indebolendo, invece di rafforzare, il potere contrattuale dei sindacati sia nella negoziazione dei salari che in quella di altri benefici. Sembra essere una paura legittima: in Europa, i paesi senza un salario minimo nazionale sono quelli con i minimi di settore più alti. Esiste anche il timore che un salario minimo possa ridurre la sindacalizzazione dei lavoratori. Secondo uno studio di Daniele Checchi e Claudio Lucifora (2002), quando lo stato scavalca il sindacato nella protezione dei lavoratori, questi smettono di sindacalizzarsi. Ciò vale anche per il salario minimo, come dimostrano Jeffrey Clemens e Michel R. Strain (2022) per gli Stati Uniti.

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I sindacati italiani hanno osteggiato la prima bozza della direttiva, ma approvano la sua forma finale. Questo perché di fatto il sistema di relazioni industriali italiano non ne viene quasi intaccato. Come in Italia, così anche in Austria, Finlandia e, in qualche misura, in Germania, le organizzazioni dei lavoratori hanno mutato la loro opinione sulla direttiva. Gli unici due sindacati tuttora contrari sono quelli di Danimarca e Svezia, che temono una perdita di autonomia qualora la copertura dei contratti scendesse sotto l’80 per cento dei lavoratori (sono rispettivamente a 82 e 88 per cento) e la direttiva imponesse quindi ai rispettivi stati di intervenire.

Non c’è solo la via legislativa

Emergono due considerazioni: 1. tutti i sindacati europei sono impegnati a salvaguardare il proprio potere come definito dal quadro istituzionale in cui operano; 2. la direttiva è stata modificata per venire incontro alle esigenze delle parti sociali e in particolare a quelle dei sindacati dei paesi senza un salario minimo, che infatti oggi nella maggior parte dei casi la sostengono. Che lezione trarre, quindi, per il salario minimo in Italia?

La prima lezione è procedurale. Confrontandosi con l’European Trade Union Confederation (Etuc), il legislatore europeo è riuscito ad approvare una norma che amplia la protezione sociale per i lavoratori di alcuni paesi, senza danneggiare il funzionamento delle relazioni industriali in altri. Assumendo che i sindacati abbiano una migliore conoscenza delle esigenze dei lavoratori, alcuni politici italiani dovrebbero prestare più orecchio alle loro richieste, cominciando proprio dal salario minimo, sapendo che una sintesi non è solo auspicabile, ma anche possibile.

La seconda lezione è più teorica, ma non meno importante. Il sindacato è contrario a un salario minimo de jure sia a livello nazionale che europeo. L’errore è pensare che la via legislativa sia l’unico modo per fissare un salario minimo. Al contrario, negli anni sono state avanzate molteplici proposte che si discostano da questo principio. Ad esempio, quella depositata nel 2019 a prima firma Tommaso Nannicini (Pd) prevede la creazione di un organo a livello nazionale, composto in egual misura dalle parti sociali ma presieduto dal presidente del Cnel e coadiuvato da esperti, che determini di anno in anno un salario minimo congruo sul modello inglese. Andrea Orlando (Pd) proponeva di estendere ai lavoratori poveri il trattamento economico complessivo (Tec) dei contratti firmati dalle associazioni più rappresentative nei vari settori. In entrambi i casi, e in altri ancora, il sindacato gioca un ruolo (più o meno) attivo nella determinazione del compenso minimo.

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Riprendendo una distinzione introdotta da Daniele Checchi e Claudio Lucifora, si possono distinguere due tipi di istituzioni rispetto all’attività sindacale: in un tipo, salario minimo de jure, lo stato agisce al posto del sindacato, e quindi tende a sostituirlo; in un altro, ad esempio nella proposta Orlando, lo stato agisce insieme al sindacato, ed è quindi complementare a esso.

A mio avviso, un salario minimo “complementare” alla negoziazione settoriale è da preferire per almeno tre motivi: primo, la proposta avrebbe un maggior supporto dalle parti sociali e potrebbe quindi essere approvata più facilmente; secondo, un sistema complementare lascerebbe intatti i maggiori benefici derivanti dalla contrattazione collettiva; terzo, la complementarità tra stato e sindacato potrebbe rinvigorire i sindacati stessi e quindi dare maggior voce a quei lavoratori e a quelle istanze che oggi non trovano rappresentanza.

Nessun paese ha forme di salario minimo puramente complementari all’azione sindacale, l’Italia ha l’occasione di sperimentare una nuova forma istituzionale che almeno sulla carta ha molti lati positivi.

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  1. Firmin

    Temo che il salario minimo sarà soprattutto l’occasione per istituire qualche autority strapagata che si occuperà di fissare valori di riferimneto senza tuttavia avere la capacità (o addirittura la volontà) di verificarne l’applicazione. Quanto al ruolo dei sindacati, mi pare che abbiano dimostrato ampiamente di essere pronti ad avallare deroghe di ogni genere ai contratti collettivi, quindi immagino che farebbero lo stesso per il salario minimo, senza preoccuparsi troppo della sua implementazione. Come ha commentato altrove, il reddito di cittadinanza mi sembra uno strumento molto meno burocratico per aiutare i lavoratori a rifiutare proposte salariali poco dignitose.

  2. leonardo

    L’anomalia italiana della caduta del salario reale negli ultimi decenni dimostra che nel nostro paese la contrattazione non garantisce minimamente i lavoratori. Purtroppo abbiamo i peggiori sindacati d’Europa, per questo lo stato dovrebbe intervenire direttamente attraverso il salario minimo.

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