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La Bce continua sulla strada della “normalizzazione”

La politica della Bce è meno aggressiva di quanto si pensi. Non c’è una “stretta monetaria” e la Banca centrale fa bene a uscire dalle politiche ultra-espansive degli ultimi anni. Rinviare la “normalizzazione” non farebbe altro che aumentarne i costi.

Non è una stretta monetaria

Nella seduta del 2 febbraio, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha aumentato i tassi di interesse ufficiali di mezzo punto percentuale e ha annunciato una mossa analoga per la prossima riunione di marzo. Allo stesso tempo, ha confermato che da marzo inizierà a ridurre il suo portafoglio-titoli a un ritmo di 15 miliardi al mese (in media tra marzo e giugno, poi il ritmo di riduzione verrà rideterminato).

Potrebbero sembrare decisioni aggressive e poco giustificabili. Negli scorsi giorni non sono mancate prese di posizione di politici e commentatori che hanno stigmatizzato la linea della Bce, alla luce delle difficoltà che il sistema economico vive e del caro-energia. Si tratta invece di decisioni che hanno una loro giustificazione e che non prefigurano quella che va sotto il nome di “stretta monetaria”.    

Da quando è iniziata (luglio 2022) la fase di rialzo, i tassi ufficiali della Bce sono aumentati di tre punti percentuali. Il tasso di policy più rilevante, cioè il tasso sui depositi che le banche fanno presso la Bce e che guida i tassi del mercato monetario, è passato da -0,50 a 2,50 per cento. Potrebbe sembrare una stretta monetaria severa, ma così non è se si considera il livello dei tassi di interesse reali. Depurando il tasso nominale d’interesse con il tasso d’inflazione corrente (8,5 per cento), si ottiene un tasso reale d’interesse ampiamente negativo: -6 per cento. Anche prendendo come riferimento un tasso d’inflazione atteso nel medio/lungo periodo coerente con l’obiettivo della Bce (2 per cento) si ottiene un tasso d’interesse reale sostanzialmente nullo.

Anche l’annunciata riduzione del portafoglio-titoli appare molto meno significativa di quanto si potrebbe pensare a prima vista. Anzitutto, non è vero che la Bce venderà titoli in suo possesso, come si sente spesso dire. Si limiterà a non rinnovare integralmente i titoli in scadenza. Finora, quando un titolo detenuto dalla Bce giungeva a scadenza, ne ricomprava uno analogo, in modo che la dimensione del suo portafoglio-titoli rimanesse invariata. D’ora in poi, la Bce lascerà che una parte di quelli in scadenza non vengano rinnovati, avviando così una riduzione della dimensione del suo bilancio. Tuttavia, la riduzione sarà puramente simbolica, almeno fino alla metà di quest’anno. Il mancato rinnovo avverrà per 15 miliardi di titoli al mese per un portafoglio-titoli di quasi 5 mila miliardi di euro (sommando i vari programmi attuati negli anni scorsi): come svuotare il mare con un cucchiaio.

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Parlare di “stretta monetaria” è quindi improprio. Quello a cui assistiamo è una “normalizzazione” della politica monetaria, che la Bce porta avanti al pari di altre banche centrali, anzi in misura più graduale e prudente di altre, a cominciare dalla Fed statunitense (che ha aumentato i tassi ufficiali del 4,5 per cento da un anno a questa parte e riduce il suo portafoglio-titoli al ritmo di 95 miliardi di dollari al mese). Il susseguirsi di diverse crisi, ultima quella pandemica, ci avevano abituati a una politica monetaria eccezionalmente espansiva, basata su strumenti “non convenzionali” come gli acquisti su larga scala di titoli da parte della banca centrale e livelli negativi dei tassi di interesse. La ripresa dell’inflazione, di cui ci eravamo dimenticati, costringe le banche centrali a uscire dalla fase eccezionale e a riportare la gestione della politica monetaria su di un sentiero più normale. 

Perché è giusto aumentare i tassi

Un argomento che viene spesso proposto da chi è critico nei confronti dell’attuale fase di aumento dei tassi di policy è quello relativo alla natura “da costi” dell’inflazione attuale. Si dice: l’aumento dei prezzi è dovuto all’aumento dei costi dell’energia (“shock da offerta”) sul quale la politica monetaria non può fare nulla. Perché allora attivare la leva monetaria, che agisce dal lato della domanda, rendendo più costoso il finanziamento della spesa per investimenti e consumi?

La risposta sta in un modello economico formulato negli anni Ottanta, quando l’inflazione era alta come adesso e anche di più. Quel modello mette al centro del problema la “reputazione” della banca centrale. Se una banca centrale è nota per essere avversa all’inflazione, il tasso di inflazione atteso dagli operatori economici sarà relativamente basso. Se, al contrario, è nota per essere disposta a tollerare livelli elevati di inflazione, gli operatori si attenderanno un’inflazione più alta (a parità di condizioni generali). In altre parole, il tasso d’inflazione atteso dipende dalla “reputazione anti-inflazionistica” della banca centrale: maggiore è questa, più basse saranno le previsioni di inflazione fatte dagli operatori economici (produttori, consumatori, intermediari finanziari). A sua volta, il tasso di inflazione atteso influenza quello effettivo: più alte aspettative di inflazione inducono i lavoratori a chiedere aumenti di stipendio e i produttori ad aumentare i prezzi.

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Questo ragionamento ci spiega perché è bene che le banche centrali reagiscano all’aumento dei prezzi, anche se la loro azione è poco efficace di fronte a uno shock da offerta. Se non lo facessero, darebbero l’impressione di essere disposte a lasciare correre l’inflazione, alimentando così le aspettative su di essa ed esponendosi al rischio di generare una spirale prezzi-salari. Una volta che le più elevate aspettative inflazionistiche si fossero radicate nel sistema economico, combattere l’inflazione sarebbe più difficile e costoso. Ecco perché la Bce, come altre banche centrali, insiste (anche nella sua comunicazione) sull’impegno a riportare l’inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento.

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Come cambiano le scelte di acquisto dei consumatori

  1. Savino

    Corretto quello che sta facendo la BCE. Non mi pare che i Governi stiano facendo altrettanto, tutelando il consumatore dall’inflazione e il potere d’acquisto dei salari per chi ha la fortuna di avere un lavoro.

    • Angelo

      Ammetto la mia ignoranza nelle materie economiche, ma ho la sensazione di non essere l’unico. La tesi dell’articolo è che la BCE sta facendo bene, anche se quello che sta facendo non impatta minimamente sulla realtà in quando muove cifre irrisorie rispetto ai numeri in gioco. L’inflazione nella realtà è al -6%, i titoli di stato che ha deciso di non rinnovare mensilmente sono meno dello 0,3 %. L’importante è che i mercati non pensino che la BCE non abbia a cuore il problema, ma che anzi sia pronta ad affrontarlo. Anche se in realtà visti i numeri di prima non sta minimamente affrontando nulla. Ma questo farà sì che i lavoratori non inneschino un crescendo di richieste di aumenti di stipendio che porterebbero ad una spirale di aumenti e di inflazione e via così. Scusate ma mi sono perso. Se va tutto così bene e la BCE sta affrontando tutto con sicurezza estrema, perché c’è preoccupazione in giro? No, avete ragione l’unico che si preoccupa senza motivo sono io. Forse perché mi ricordo che veniamo da anni in cui il mantra della BCE era un’inflazione al 2%, obiettivo mai neppure minimamente raggiunto. Ma sicuramente sono io che ricordo male.

  2. Maurizio Cortesi

    Chiedo se però questa normalizzazione non dovrebbe cominciare a differenziare l’aumento tra i tassi d’interesse usati dalla bce – Lagarde ha ricordato in conferenza stampa che ne hanno tre mentre nessun giornalista vi ha fatto finora il minimo cenno così come l’ultimo resoconto disponibile della discussione nel governing council – e a dare più spazio al quantative tightening, pur tenendo conto delle ricadute sui bilanci delle banche centrali dell’eurosistema.

  3. francesco palmieri

    La mia non è certo una “voce” autorevole; è quella di un onesto ed esperto commercialista napoletano che approfittando di “lavoce.info”, uno di pochissimi luoghi di serio approfondimento su temi di assoluta rilevanza sociale ed economica, si sente in dovere (solo morale ed interiore, ovviamente) di dire la sua, in controtendenza.
    Non mi convince la tesi del tasso d’interesse reale negativo ottenuto depurando dal tasso d’interesse monetario il tasso d’inflazione. Penso invece che, al contrario, in questo drammatico periodo storico l’innalzamento dei tassi d’interesse vada a costituire componente di costo per le imprese, che può anche finire con l’essere ribaltato, con effetto più che proporzionale, sui prezzi e quindi sull’inflazione. E ciò nel tentativo di consentire il mantenimento dei margini (ove esistenti).
    A tale riguardo, anche l’asserzione secondo cui i tassi al 3% non sarebbero un problema per le imprese sane (questo il contenuto della dichiarazioni del Presidente della Confindustria Bonomi – “Non credo che un tasso di sconto della Bce al 3% sia un problema se un’azienda e’ sana e ha i suoi margini”, ieri intervenuto al 29esimo Congresso Assiom Forex) la dicono lunga sulla distanza che c’è tra la realtà (che non è mai una sola) e la percezione della stessa da parte dei centri decisionali delle politiche economiche e sociali, perché evidenziano il totale disinteresse per quelle imprese che appunto “sane” non sono. Per quelle in bilico (magari nel mezzogiorno che già di suo aveva ed ha un’ “economia” precaria e barcollante) in cui i margini si sono “ridotti all’osso”, se non annullati, anche per effetto della crescita dei prezzi di energia e materie prime, per le quali anche mezzo punto in più di costo del denaro pesa; e tanto.
    Quella dell’innalzamento dei tassi è cioè una “botta” che si aggiunge ad altre “botte” con pochi effetti sull’inflazione (se non, addirittura, al contrario senso di incrementarla) perché appunto la stessa ha origini ben diverse da quelle di una “euforia espansionistica” correlata al livello dei tassi d’interesse.
    Piuttosto i governi (e quindi qui la critica non è per la banca centrale) dovrebbero essere più attenti nel controllo dei prezzi che sono lievitati anche a causa di comportamenti speculativi, e di politiche, queste sì pericolose, di incontrollata espansione in favore di taluni settori (mi riferisco, ad esempio, al 110%).
    Dovrebbero poi anche pensare a verifiche mirate dei comportamenti delle grandi imprese, per evitare che possano essere irrispettosi delle regole dettate in materia di concorrenza e mercato; interventi chirurgici e perciò difficili e delicati, ma che siano elemento di dissuasione di possibili pratiche irregolari, foriere di ulteriori crescite dei prezzi.
    Poco quindi mi convince, lo devo dire, la tesi secondo cui l’innalzamento dei tassi d’interesse determina la formazione di una “reputazione” della banca centrale tale da essere d’impatto sui livelli d’inflazione.
    Mi sembra questa una asserzione accademica valida forse in condizioni economiche e sociali “ordinarie”, non cioè “straordinarie” come quelle del momento drammatico che stiamo vivendo. Insomma, secondo me, non è l’effetto reputazionale della banca centrale che oggi determina, ma i costi dell’energia e delle materie prime (e quelli del danaro nient’affatto esclusi) che salgono. Questi, sì, pesano sul groppone delle imprese e pure delle famiglie, molte delle quali, i mutui li peraltro hanno contratti a tassi variabili.
    Un’ ultima osservazione, solo apparentemente slegata all’argomento in parola. Negli ultimi mesi, ho la sensazione, ci stiamo “abituando alla guerra”. C’è meno attenzione mediatica a quello che succede in Ucraina (che poi è ovviamente fondamentale per l’inflazione e l’economica in generale e, prima ancora, per la sopravvivenza di tutti noi, del pianeta, delle future generazioni). I dibattitti politici sono sempre più stucchevoli e concentrati su temi, per carità pure importanti, ma decisamente molto meno di quello che è, per noi a cui le bombe non cadono sulla testa, il problema dei problemi, ed il dramma più terribile per il popolo ucraino (e anche per quei russi, penso ovviamente ai soldati – che sempre uomini sono – inviati a provocare morte e a morire, e alle loro famiglie).
    Questo “alleggerimento di attenzione” mi fa impressione, mi inquieta. E, accennavo sopra, non è del tutto inconferente rispetto alla questione dell’innalzamento dei tassi d’interesse; ciò perché all’origine della attuale contingenza economica c’è senz’altro, in primis, la guerra e i suoi effetti; evento ovviamente straordinario, che fa saltare il “banco”, rispetto al quale bisogna porsi con la consapevolezza della fragilità dei modelli ordinari di ragionamento e di studio.

  4. L’inflazione per molto tempo è stata sotto il target del 2%, oggi, se per alcuni anni avrebbe superato il target, non si avrebbe avuto un problema di reputazione, anzi avrebbe fatto bene ai paesi indebitati. Ricordiamoci del debito italiano, dell’incremento negli ultimi due anni, del PNRR fatto anche a debito (finanziato anche con aumento risorse proprie). La manovra BCE è squisitamente politica, la Germania paese leader non vuole perdere la propria posizione a livello economico.

  5. L’inflazione per molto tempo è stata sotto il target del 2%, oggi, se per alcuni anni avrebbe superato il target, non si avrebbe un problema di reputazione; l’inflazione sarebbe stata una soluzione per i paesi indebitati. Ricordiamoci del debito italiano, dell’incremento negli ultimi due anni, del PNRR fatto anche a debito (finanziato anche con aumento risorse proprie). La manovra BCE è squisitamente politica, la Germania paese leader non vuole perdere la propria posizione a livello economico.

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