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Lo stop alla cessione del credito non dipende da Eurostat

Il cambio delle regole contabili europee non è il motivo che ha indotto il governo a bloccare la cessione dei crediti di imposta, perché il costo di quelli già concessi non varia. Lo stop ai crediti futuri potrebbe avvantaggiare i redditi più alti.

La modifica alle regole contabili

I dati diffusi il 1° marzo dall’Istat sanciscono una revisione del deficit degli ultimi tre anni: per il 2020 si passa dal 9,5 al 9,7 per cento, per il 2021 dal 7,2 al 9 per cento e per il 2022 dal 5,6 all’8 per cento. Ciò è dovuto al fatto che Eurostat, in base alla nuova classificazione statistica che emerge dal Manuale sul disavanzo e sul debito pubblico (Manual on Government Deficit and Debt – MGDD), considera i crediti di imposta edilizi per cui è concessa la cessione del credito o sconto in fattura come crediti pagabili, ovvero vi è una ragionevole certezza per cui nel corso del tempo, il credito sarà utilizzato nella sua interezza. In tal caso, il credito deve essere registrato come spesa delle amministrazioni pubbliche per un ammontare pari all’intero importo maturato, nell’anno di sostenimento della spesa agevolata. Nel caso in cui invece sia classificato non pagabile l’impatto finanziario è diluito negli anni dell’utilizzo del credito fiscale registrato come minore entrata. Il credito è ritenuto non pagabile nel caso in cui non sia contemplata la cessione o lo sconto in fattura. Poiché il credito si può riscuotere solo se si hanno imposte da pagare, si ritiene che in parte non verrà riscosso con ragionevole certezza.

A parità totale di credito di imposta, ciò generebbe un vantaggio per i conti pubblici nel primo anno in cui viene effettuata la spesa edilizia da parte del privato. La spesa, infatti, non verrebbe contabilizzata tutta al primo anno, ma negli anni successivi si avrebbero minori entrate che non ci sarebbero state nel caso in cui il credito fosse stato pagabile. Quindi, nell’arco degli anni in cui si può usufruire della detrazione, il deficit complessivo non cambierebbe.

La registrazione dei crediti nell’anno in cui viene concessa la cessione del credito comporta un aumento del deficit dal 2020 al 2022, pari complessivamente a 4,4 punti percentuali di Pil. Di fatto ci sarebbe un alleggerimento dei deficit futuri che vanno dal 2023 al 2032 (ultimo anno di possibile fruizione della detrazione per incentivi edilizi diversi dal superbonus) di 80 miliardi.

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La scelta del governo

L’idea che il governo abbia dovuto necessariamente eliminare la cessione del credito di imposta, visto che, in caso contrario, avrebbe dovuto contabilizzare il credito tutto nell’anno in cui il privato ha effettuato i lavori, a chi scrive sembra un po’ debole. Da più parti si sostiene che contabilizzando gli 80 miliardi tutti nel 2020, 2021 e 2022 si libera spazio di manovra per le finanze pubbliche, visto che si avvicina il deficit degli anni successivi al 2022 all’obiettivo del 3% del Pil. Tuttavia, bisogna tener presente che utilizzare questo spazio significa aumentare il debito rispetto a quanto finora programmato, visto che il debito a copertura dei bonus edilizi rimane invariato. Forse nel processo di revisione delle regole europee sul patto di stabilità attualmente in corso sarebbe opportuno chiarire come queste spese cosiddette pagabili (di fatto spese per investimento) debbano entrare nel calcolo del deficit che dovrà essere rispettato in sede comunitaria, vista l’elevata forbice tra la voce  di competenza, rilevante ai fini della formazione del deficit, che viene iscritta nell’anno in cui l’investimento avviene e quella di cassa suddivisa in più anni, che dà conto dell’effettivo esborso rilevante per la formazione del debito. Il rapporto deficit/pil potrebbe infatti non risultare in linea solo per un anno, consentendo incrementi di deficit negli anni successivi, nonostante di fatto in quegli anni si stia già incrementando il debito, per finanziare la spesa di investimento effettuata nell’anno di elevato deficit. Esattamente ciò che potrebbe succedere nel nostro caso se si decidesse di incrementare il deficit dal 2023 in poi in virtù del fatto che 4,4 punti di deficit sono stati spostati negli anni precedenti.

Quindi se ci si pone come obiettivo il controllo del debito, il cambio delle regole contabili non può essere stata la vera motivazione per cui il governo ha deciso di bloccare la cessione dei crediti di imposta, visto che il costo per lo Stato dei crediti già concessi non varia. La conseguenza importante è che lo spazio di 80 miliardi che si è liberato nei deficit che vanno dal 2023 al 2032 non è di fatto disponibile, a meno che non si decida di aumentare il debito previsto per questi anni.

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Il provvedimento del governo (decreto legge n. 11 del 16 febbraio 2023) è quindi indipendente dalla decisione di Eurostat, poiché il risultato rilevante del decreto in termini di conti pubblici è dato dalla restrizione della platea dei contribuenti che dal 2023 in poi hanno diritto ai bonus edilizi e non dalla unica possibilità che rimane ora di registrare il costo del bonus edilizio in più anni invece che interamente al primo anno. Questo risultato si sarebbe ottenuto anche senza la decisione di Eurostat, perché corrisponde semplicemente a una norma in cui si dice che tutti gli incapienti non possono più fruire dei bonus edilizi.

Il provvedimento riduce drasticamente l’ammontare dei futuri crediti di imposta e quindi l’incremento di debito che sarebbe stato necessario a finanziare quelli dal 2023 in poi. Bisognerebbe però fare una riflessione sulle conseguenze distributive della decisione che sicuramente aggiusta i conti pubblici, ma lascia un incentivo a classi di reddito che, forse, non ne avrebbero bisogno. Altre soluzioni potrebbero essere possibili.

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  1. Paolo

    Il governo ha dovuto fermare la giostra, altrimenti nel 2023 avremmo macinato altri 80 mld di deficit che sarebbero stati tutti da contabilizzare nel 2023 stesso, esaurendo ogni possibile spazio di ulteriore manovra finanziaria (ricordiamoci che ce ne vuole quantomeno un’altra, per prorogare almeno in parte esenzioni sugli oneri di sistema e crediti di imposta sulle bollette delle imprese da aprile a dicembre, evitando un nuovo shock, e poi chissà quali altre).
    Occorre constatare che ormai la montagna del debito pubblico è l’unica difesa rimasta ai cittadini comuni contro la rapacità delle regalìe che la politica di tutti i colori continua ad elargire a questa e talaltra lobby.

  2. Maurizio Cortesi

    Faccio notare che il deficit all’otto per cento del Pil l’anno scorso non è imputabile strettamente ai bonus edilizi, sia per l’incremento più contenuto rispetto al 2021 sia perché tale incremento è più che compensato dalla riduzione di altre spese in conto capitale, essenzialmente legate al venir meno della pandemia. È invece il forte aumento della spesa corrente dovuto principalmente ai bonus per le bollette energetiche, all’aumento degli interessi sul debito per il rialzo dei tassi e al rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Questo senza togliere nulla alle critiche più che giustificate a questi strumenti, incluse le recenti modifiche apportate come giustamente osservato alla fine dell’articolo. Personalmente sono contrario al credito di imposta in sé, come del resto a tutte le spese fiscali che sono fonte di distorsione, iniquità, privilegio e truffa, oltre che di debito pubblico.

  3. Firmin

    Se il debito aggiuntivo collegato ai bonus avesse generato altrettanto PIL il rapporto tra debito e PIL sarebbe migliorato, perché tale rapporto viaggia abbondantemente oltre il 100%. E’ questione di aritmetica, non di economia. Il vero problema è che i bonus sono poco produttivi. Ma sono ancora meno produttivi gli abbattimenti del carico fiscale generati dalla flat tax per gli autonomi, perché è altamente improbabile che producano nuova occupazione e domanda aggiuntiva di consumi e investimenti. Sono questi provvedimenti improvvidi ad aver peggiorato strutturalmente i conti pubblici, molto più di qualche bonus mal concepito. Bloccare di fatto la cessione dei crediti fiscali avrà il solo effetto di tagliare la liquidità delle imprese, non di ridurre il fabbisogno (che anzi non peggiora proprio fino a quando quei crediti passano di mano in mano senza essere riscossi). Complimenti vivissimi a chi ha pensato (si fa per dire) i bonus e le successive correzioni.

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