In caso di malattia non grave, chi lavora da remoto spesso svolge comunque le proprie mansioni, proprio perché può farlo da casa, senza recarsi in ufficio. Lo confermano i dati di un importante ente pubblico. Un comportamento con vantaggi e svantaggi.
Gli effetti del lavoro da remoto
La pandemia da Covid-19 ha determinato un massiccio aumento del lavoro da remoto in tutti i paesi avanzati. In Italia il cambiamento è stato particolarmente importante, poiché prima della pandemia questa modalità lavorativa era assolutamente marginale. Il superamento della crisi pandemica non ha portato, come da più parti previsto, al superamento del lavoro da remoto, che è invece diventato parte integrante del panorama lavorativo italiano e mondiale. Il dibattito sui suoi effetti ha evidenziato una situazione estremamente complessa, caratterizzata da luci, ma anche da ombre e sfide. I lavoratori beneficiano di maggiore flessibilità e di una riduzione degli spostamenti, il che favorisce una migliore conciliazione tra vita e lavoro. Tuttavia, si trovano anche esposti al rischio di isolamento e alienazione, oltre che alle difficoltà legate alla frammentazione delle attività lavorative. Le imprese, d’altro canto, sono influenzate su molteplici dimensioni, tra cui la produttività (si veda ad esempio qui e qui), i salari e i costi legati agli spazi, le politiche di reclutamento. Gli effetti complessivi tendono a essere fortemente disomogenei, ad esempio in base al profilo professionale, al livello di istruzione, al genere, nonché ai settori produttivi e alle caratteristiche organizzative.
Le assenze per malattia
Uno dei benefici emersi dalla possibilità di lavorare da remoto è la diminuzione delle assenze per malattia. Per la verità la ricerca economica aveva già rilevato, prima della pandemia, che arrangement flessibili nell’organizzazione del lavoro influenzano positivamente la produttività anche attraverso una riduzione dei costi per le assenze per malattia: in caso di eventi sanitari di minore gravità, i lavoratori in modalità remota tendono a non assentarsi (evitando quindi di lasciare lavoro in arretrato) quando possono svolgere le attività necessarie da casa, senza doversi recare in ufficio. Una dinamica simile sembra effettivamente emergere in varie realtà lavorative; tuttavia, dati gli effetti differenziati riscontrati sulla produttività, anche rispetto a questa dimensione possiamo aspettarci una notevole eterogeneità.
Utilizzando i dati Inps sull’uso del lavoro da remoto e sulle assenze per malattia dei suoi dipendenti possiamo analizzare la relazione nel contesto di un grande ente pubblico. Dal lavoro da remoto come modalità ordinaria di lavoro in fase emergenziale, l’Istituto è transitato verso un modello ibrido su base volontaria: a marzo 2021 con il Piano operativo del lavoro agile si fissano a otto le giornate mensili di lavoro da remoto, fatte salve specifiche previsioni per i lavoratori fragili; si passa poi, attraverso fasi intermedie, alla sottoscrizione, a fine 2022, di contratti individuali per i quali i modi e tempi del lavoro da remoto sono demandati ad autonomi accordi tra le parti. Tali cambiamenti si riflettono nel numero medio mensile di giornate di lavoro agile fruite dai dipendenti tra il 2019 e il 2022 (figura 1): dopo il picco di diciassette giornate a inizio 2020 e il nuovo incremento nel primo trimestre del 2021 a seguito delle nuove ondate di Covid-19, l’uso del lavoro da remoto si riduce gradualmente, assestandosi intorno ai cinque giorni medi mensili, a partire dal secondo trimestre del 2022.
Figura 1 – Numero medio di giornate di lavoro agile fruite al mese (2019-2022)
L’avvicendarsi di queste fasi introduce una variabilità che consente di osservare come i cambiamenti nell’uso del lavoro da remoto si associno a cambiamenti nel numero di giorni di assenza per malattia. Più precisamente, abbiamo confrontato l’andamento del numero di giornate mensili di lavoro da remoto sul totale delle giornate lavorabili con il numero medio mensile di giornate di malattia.
Come si nota dalla figura 2, l’introduzione del lavoro da remoto è stata accompagnata da una drastica riduzione delle giornate di malattia. Se nel periodo pre-pandemico il numero di giorni medi mensili di malattia oscilla tra un minimo poco superiore a 0,4 e un massimo che sfiora il valore 1 a marzo 2020, si assesta intorno a 0,37 (4 giorni all’anno) durante il 2021; torna a salire a partire dall’ultimo trimestre del 2021 e si stabilizza intorno a un valore di circa 0,4 giorni nel corso del 2022, rimanendo però a livelli più bassi rispetto a quelli registrati nel corso del 2019. Di contro, il grado di copertura delle giornate lavorate in modalità da remoto oscilla tra il 50 per cento e il 40 per cento tra ottobre 2020 e settembre 2021 (con picco a marzo 2021) e declina lentamente fino ad assestarsi intorno a valori poco superiori al 20 per cento nel secondo semestre del 2022.
Figura 2 – Numero medio mensile di giornate di malattia e di lavoro da remoto (2019-2022)
L’andamento descritto induce a ritenere che, come evidenziato anche in altri contesti, forme di organizzazione flessibile della prestazione lavorativa permettono una più agevole gestione del tempo di lavoro, che consente, almeno potenzialmente, di gestire eventi sanitari minori che non rendono possibile il commuting o il lavoro in presenza (si pensi al rischio di diffusione di malattie infettive e i costi associati).
I rischi
Chiaramente “non è tutto oro quel che luccica”: le indagini durante la pandemia hanno ben evidenziato come il lavoro da remoto possa avere effetti controversi su motivazione e produttività se la flessibilità finisce per assottigliare i confini tra tempo di lavoro e tempo di riposo e annulla i tempi di disconnessione. Allo stesso modo ridurre le assenze per malattia può essere vantaggioso e abbattere i costi nel breve periodo, a patto che non introduca modelli comportamentali che erodono il tempo da dedicare al recupero delle energie psicofisiche quando necessario. Nel lungo periodo potrebbero emergere effetti negativi sulla salute dei dipendenti e, in definitiva, sulla produttività complessiva. Come avviene su altri piani, è la cultura aziendale a determinare il punto di caduta tra lati positivi ed effetti avversi dei modelli organizzativi. Ci teniamo anche a evidenziare che i risultati della nostra analisi potrebbero dipendere da alcune specificità della realtà organizzativa presa in esame e che bisogna quindi stare attenti a non generalizzarli. Tuttavia, l’impatto che il lavoro da remoto può avere sulle assenze per malattia e sui costi a esse associati è un aspetto di cui tener conto nel trade-off tra vantaggi e svantaggi e andrebbe ulteriormente approfondito.
* Le opinioni espresse nell’articolo appartengono agli autori e non coinvolgono in alcun modo le istituzioni di appartenenza.
Questo articolo è pubblicato in contemporanea su Menabò di Etica ed Economia.
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Savino
Banalmente, basterebbe rivedere la disciplina sulle assenze in ufficio e vedere in modo diverso la malattia da febbre, influenza, raffreddamento, laddove neanche a scuola si chiede più il certificato medico come pezza di giustificazione. Il lavoro da remoto è un fake work. In molti settori della p.a. ormai c’è il diritto allo smart working come se ci trovassimo ancora nell’urgenza della pandemia. Le code negli iter burocratici per il rinnovo di passaporti, patenti o carte d’identità e nella prenotazione di prestazioni sanitarie sono la conseguenza di questo continuo imboscarsi offensivo verso il cittadino e chi deve davvero conciliare famiglia e lavoro.
ste
Nell’articolo si dimostra una correlazione inversa tra la quantità di ore lavorate in smart working e la richiesta di malattia tramite certificato. E’ possibile che possa essere un calo di certificazioni false e che in questo modo vengono gestite in modo – diciamo – più semplice. Cosa che credo fortemente.
“Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”