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La crescita italiana che non c’è

Il problema numero uno in Italia è la crescita bassa. Per capirne le cause, bisogna guardare all’andamento della produttività aggregata. Il ritardo rispetto al dato francese è evidente. L’ipotesi che a determinarlo sia la dimensione delle aziende.

Il problema dell’Italia

L’Italia ha un problema di crescita economica di lungo periodo. Il dato non è sufficientemente enfatizzato nel dibattito pubblico, nonostante sia il malessere di base dell’economia italiana da decenni. In una parola, il problema dei problemi.

La figura 1 mostra l’andamento del Pil pro capite in Italia a partire dal 1990 (in cui l’indice è normalizzato a 100), comparato con quello della media della zona euro. È evidente il processo graduale di divergenza dell’economia italiana rispetto ai paesi partner dell’euro, una forbice che si amplia nel tempo. In termini cumulati, a partire dal 1990 fino al 2022, l’economia italiana è cresciuta, su base pro capite, di soli 19 punti percentuali, mentre la media della zona euro è cresciuta di 46 punti percentuali, ben più del doppio.

Figura 1 – Pil pro capite in Italia e zona euro

Fonte: longtermproductivity.com

Il confronto con la Francia

Per gettare luce sulle cause della crescita di lungo periodo di una economia è indispensabile guardare all’andamento della produttività aggregata. La produttività è una misura dell’efficienza con cui un paese utilizza i fattori produttivi (capitale, lavoro, beni intermedi) nel processo di produzione di beni e servizi.

È inoltre utile comparare la realtà italiana con quella di un paese come la Francia. Quest’ultima è una economia paragonabile a quella dell’Italia. Il Pil pro capite e la popolazione sono simili, il peso della spesa pubblica in rapporto al Pil è simile (57 per cento in Francia, 55 per cento in Italia). Diverse caratteristiche dell’economia sono simili tra i due paesi. Ad esempio, le rigidità del mercato del lavoro. L’Ocse misura un indice sintetico della rigidità della regolamentazione sui licenziamenti e l’uso di contratti temporanei. L’indice, che varia da 0 (bassa rigidità del mercato del lavoro) a 6 (alta rigidità) è riportato nella tavola 1. Italia e Francia hanno indici simili e più alti degli Stati Uniti, un’economia in cui il mercato del lavoro è notoriamente più flessibile. Tra le similitudini tra i due paesi europei, inoltre, c’è il costo del lavoro: spesso ad esso si imputa la scarsa crescita dell’Italia, ma i valori non differiscono di molto rispetto alla Francia.

La figura 2 mostra l’andamento della produttività del lavoro in Italia e Francia dal 1990 (indice normalizzato a 100) a oggi: è chiaro che è divergente. In particolare, dalla seconda metà degli anni Novanta la distanza tra i due paesi comincia a manifestarsi in modo sempre più marcato. Colpisce che dall’inizio degli anni Duemila la produttività del lavoro in Italia aumenti a un tasso sempre vicino allo zero, mentre continua a crescere (seppure rallentando gradualmente) in Francia. Tra il 1990 e oggi la produttività del lavoro è cresciuta in Italia di 18 punti percentuali, mentre in Francia è cresciuta di 36 percentuali, cioè del doppio.

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Figura 2 – Produttività del lavoro in Italia e Francia

Fonte: longtermproductivity.com

Allargando il quadro, possiamo comparare l’evoluzione di lungo periodo della produttività totale dei fattori (Tfp). La Tfp è una misura dell’efficienza con cui tutti i fattori di produzione, capitale e lavoro, sono combinati nel processo di produzione di nuovo valore aggiunto. Dall’andamento della Tfp dipende la crescita economica potenziale di una economia, di fatto il trend con cui evolve nel tempo (al di là di fluttuazioni di breve periodo).

La figura 3 mostra l’andamento della produttività totale dei fattori in Italia e Francia a partire dal 1990 (indice normalizzato a 100). Il quadro è significativo. Di nuovo, la forbice tra Italia e Francia comincia ad allargarsi a metà degli anni Novanta, e si amplia sempre di più. A partire dagli anni Duemila il tasso di crescita della produttività totale dei fattori in Italia è sempre negativo, per risalire poi leggermente verso la fine degli anni Duemila stessi. In termini cumulati, in Italia la produttività totale dei fattori cresce dal 1990 a oggi solamente di 4 punti percentuali, mentre in Francia di 19 punti percentuali.

Figura 3 – Produttività totale dei fattori in Italia e Francia

Fonte: longtermproductivity.com

Quanto conta la dimensione delle imprese

Che cosa spiega l’andamento così divergente della produttività (sia del lavoro che totale dei fattori) in due economie per altro simili? Introduciamo qui una possibile ipotesi. Una variabile economica che differisce molto tra i due paesi (a parità delle altre condizioni) è illustrata nella tavola 2, e riguarda la distribuzione delle imprese per dimensione. La tavola riporta il numero totale di occupati per diverse categorie di imprese: dalle micro (da 1 a 9 dipendenti) fino alle grandi imprese (più di 250 dipendenti). Emerge un quadro chiaro: mentre in Italia più lavoratori sono occupati nelle micro e piccole imprese, in Francia è vero l’opposto, cioè le grandi imprese occupano più lavoratori rispetto a quanto avviene in Italia.

La differenza è cruciale per la dinamica della produttività. È infatti un dato acquisito dalla ricerca empirica che le grandi imprese non solo occupano più lavoratori, ma sono più produttive, più vicine alla frontiera dell’innovazione e più aperte a una governance in cui il contributo di manager esterni prevale sul controllo familiare. L’idea è che le grandi imprese abbiano una migliore efficienza allocativa e rendimenti crescenti di scala in presenza di più alti costi fissi.

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L’ipotesi è dunque che dietro alla dinamica della produttività così diversa tra i due paesi un ruolo cruciale sia giocato dalla dimensione di impresa.

La maggiore produttività delle grandi imprese si spiega sulla base di diversi elementi. Ad esempio, sono più impegnate nell’attività di ricerca e sviluppo (R&D). La figura 4 mostra l’andamento della ricerca e sviluppo (in percentuale del Pil) in Italia e in altri paesi europei. Sia nel settore pubblico che nel settore privato il nostro paese mostra, negli ultimi 25 anni, una quota di R&D inferiore alle economie europee comparabili (Francia, Germania e Spagna).

Figura 4 – Ricerca e sviluppo in percentuale del Pil

Fonte: Banca d’Italia e Eurostat

La diversa dinamica della produttività tra Italia e Francia può ovviamente spiegarsi sulla base di diversi fattori. Qui l’ipotesi è che la dimensione di impresa sia cruciale. Questo fattore richiama la necessità di interventi affinché le imprese del nostro paese possano avere maggiore spazio di crescita, a cominciare da un migliore funzionamento dei mercati dei capitali e del credito.

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26 commenti

  1. Savino

    Continua ad esserci la mentalità sbagliata del “mettersi per conto proprio” rispetto al più rilevante, professionale e performante “fare squadra”. E questo non è sinonimo di autonomia o libertà di espressione, ma di egoismo e arrivismo. Mi viene da dire che, anche per questo, nello sport andiamo bene nel tennis e male nel calcio. Se, poi, ci aggiungiamo l’inseguimento del “guadagno facile” ed un certo sentimento di rancore verso lo Stato, inteso impropriamente come nemico, ecco i risultati della mancata crescita, prima culturale, poi economica.

    • MIKE

      Spiace ma non concordo con questo commento o perlomeno andrebbero approfondite anche le caratteristiche positive di un modello rispetto all’altro, per cominciare il tessuto delle piccole medie imprese ha maggior capacità di adattamento e riqualificazione nei repentini cambiamenti voluto dal mercato nel medio/breve periodo rispetto alle grandi che in queste situazioni come primo passo tagliano il personale e ricorrono agli aiuti, in questi casi si, dello Stato “amico”, lo stesso Stato che ricordiamo è tra i più indebitati al mondo, che offre sempre meno e più scadenti servizi (vedi sanità e pensioni) ma che continua a tassare costantemente i propri cittadini per ripagare i fiumi di denari ed interessi generati da amministrazioni pubbliche incontrollate e senza minima cognizione di buon operato ovviamente sempre a vantaggio di qualcuno ed a discapito della collettività. Mi fermo per ragioni di spazio…

  2. davide

    Ottima analisi, ha il pregio di una sintetica chiarezza! Manca solo un addendum che confermerebbe (rafforzandola e completandola, credo) la tesi di fondo: la Pa. Nel confronto ITALIA_FRANCIA la dimensione della Pa e la sua produttività chiuderebbe il quadro di un divario che sembra incolmabile nel breve termine.
    Grazie professore.

  3. Antonio moccia

    E le poche grande imprese che avevamo sono state svendute, ultime Alitalia, o come diavolo si chiama, a Lufthansa e la rete Tim a kkr. Vorrei solo sapere se qualche paese europeo ha svenduto un’infrastruttura così importante agli stranieri

    • bob

      esatto. Non esiste Stato al mondo che ha liquidato ( in maniera a dir poco discutibile ) il Suo patrimonio. Non solo forse siamo l’unico Paese che ha sostituito il monopolio pubblico con quello deleterio privato.
      Della scarsa crescita addebitata alle micro aziende non si dice il rovescio della medaglia: con il crollo della grandi aziende se non ci fossero state la tante micro aziende che hanno garantito pace sociale e tozzo di pane sarebbe scoppiata la rivoluzione. le micro aziende di carattere familiare hanno creato una vera e propria rete di salvezza e di sostegno per le famiglie.
      La scarsa crescita?
      Da addebitarsi alla famigerata inutile burocrazia alle difficoltà per qualsiasi iniziativa. Oltre alla mancanza di lungimiranza dei politici ( per non parlare dei sindacati). Quando la VW in crisi chiamo Giugiaro cacciato dalla Fiat ( foraggiata solo da aiuti a fondo perduto) creò la Golf un auto di successo mondiale ancora in essere. Di rimando la politica, sindacati e Fiat si inventarono l’ Arna e l’ Alfafsud due fallimenti totali a totale carico dei contribuenti italiani e senza minimo rispetto per le maestranze sapendo che sarebbe stato un progetto fallimentare

  4. SANGES

    Concordo anche con i commenti dei lettori : individualismo, mentalità o cultura e Pubblica Amministrazione sono i fattori principali che frenano la produttività. E siccome tali elementi “sfuggono alle statistiche”, permarrà la stasi del “bel paese”, del “paese del bengodi”!
    E pensare che alcuni predicano per “più Italia, meno Europa” : senza Europa saremmo dei nani.
    Se si dovesse iniziare a tirare i fili della matassa, inizierei dallo snellimento rapido e importante della burocrazia, freno allo sviluppo economico e… delle mentalità. Quali sono le parole più in uso nel paese? “Purtroppo” e “a norma di legge”!
    Si ha un bel dire, ma l’Italia non ha tutte le caratteristiche di un paese moderno e prima di “tossire” con i potenti, sarebbe meglio spazzare davanti all’uscio di casa e… dentro.
    Un paese che, quando torni in patria ti manda la polizia a casa per verificare se, oltre alle dichiarazioni sottoscritte in Comune, hai detto il vero, non è un paese moderno!
    E per concludere, visto che il raffronto principale è la Francia, aggiungo : in Francia a priori il cittadino è onesto, in Italia, a priori il cittadino è disonesto.
    Lucio

    • bob

      la storia della Francia è l’illuminismo e di Grandeur Nazione . La Storia dell’Italia è del bigottismo papalino e del ” Franza o Spagna purchè se magna..”

  5. Aldo Mariconda

    Articolo bellissimo e centrato. Direi di più: focalizza giustamente il problema delle dimensioni delle ns. imprese, aggiungerei anche caratterizzate come ha scritto Salvatore Rossi “da un assetto proprietario ancora per certi versi premoderno basato sul controllo e la gestione familiari… e una specializzazione produttiva mediamente poco incline alle tecnologie innovative”. E cita anche “un reddito pro-capite più contenuto, riflesso di un tasso di occupazione ancora basso nei confronti con gli altri grandi paesi avanzati, il dualismo Nord/Sud, mercati dei beni e, soprattutto, dei servizi con residue imperfezioni della concorrenza”.
    Questi sono problemi strutturali. Ma abbiamo altri elementi critici quali l’eccesso normativo (Nordio anni fa scriveva che abbiamo 10 volte le leggi della Germania, Il Sole 24 Ore, 5 volte l’Inghilterra).
    Sappiamo della Pubblica Amministrazione e della Giustizia. Sono fattori che allontanano l’investitore, che sceglie altri paesi.
    Aggiungo, non si è fatta una politica industriale né una delle privatizzazioni, vendendo cespiti pubblici a volte senza criterio e soltanto pressati dai fabbisogni del bilancio pubblico e pericoli di default. In Svezia, per citare un esempio per me significativo, dal 1995 hanno privatizzato i servizi, mantenendo pubbliche le infrastrutture, puntando così sulla concorrenza come strumento di sviluppo.
    Sono diagnosi del FMI, dell’OCSE, di Draghi e Letta. Carlo Cottarelli ha scritto un libro illuminante: I Sette peccati capitali dell’economia italiana, Feltrinelli, 1° ediz. 1998.
    In base a un Report OECD – April 2019, il PIL pro capite nei 23 anni pre-Covid è salito del 28% in Svezia, 17% in Spagna, 20% in Germania, 15% in Francia. Da noi ha perso qualche punto.
    Vedo tuttavia che il dibattito politico in Italia non affronta questi temi.

  6. Giancarlo

    Che ci sia una “questione dimensionale” dell’economia italiana è oggetto di dibattito da qualche decennio, più difficile capire come favorire un processo di ri-allocazione dei fattori che aumenti la produttività. Alcuni elementi fanno pensare che diverse PMI italiane abbiano raggiunto la fase del proprio ciclo di vita che le porta ad essere contendibili nel mercato dei diritti di proprietà: M&A, anche tramite FDI, stanno infatti accelerando, e questo sembra un buon segnale. Ma c’è un tema che andrebbe messo meglio a fuoco: più che l’industria manifatturiera, sono i servizi – pubblici e privati – che più penalizzano la scarsa crescita italiana. Basti pensare a turismo e distribuzione, per non dire di PA e giustizia. Centrare meglio l’obiettivo può aiutare a trovare politiche più efficaci.

  7. Stefano La Porta

    Il tema della crescita dell’economia italiana inferiore a quella degli altri paesi europei è spesso affrontato in ambienti economici e politici. Spiegarlo con la dimensione delle imprese e con le poche risorse destinate alla ricerca, seppur questo secondo punto sia importante, non è sufficiente. La crescita economica misurata col pil è decisamente influenzata dalla domanda globale, meglio denominata come Domanda Aggregata. Essa comprende i consumi delle famiglie, gli investimenti delle aziende, la spesa pubblica, il saldo import-export e le scorte. Tra questi la voce quantitativamente più importante è la prima, E’ di oggi il rapporto OCSE sulle prospettive dell’occupazione, non nuovo sull’argomento, che sottolinea il calo in Italia dei salari in termini reali, più grave che in altri paesi – anzi, in alcuni paesi il calo non c’è – mentre l’Istat da tempo evidenzia l’aumento della povertà assoluta tra i lavoratori italiani. Se il potere di acquisto diminuisce, come può crescere la domanda e con essa l’economia nazionale? Forse il problema sta qui. Come diceva Henry Ford, se pago poco i miei operai, come potranno comprare le mie auto?

  8. Catullo

    Non sono d’accordo, io invece di guardare alla dimensione d’impresa guarderei alla burocrazia italiana quella si pervasiva e opprimente con mesi se non anni per avere autorizzazioni, leggi a volte in contrasto tra se, dirigenti pubblici ottusi ed incompetenti.
    Le analisi sociologiche lasciano il tempo che trovano se non si capisce perché ci troviamo in questa situazione.

    • bob

      …la soluzione alla luce delle considerazioni dovrebbe essere una politica programmatica e di progetto. Una politica ” centralista” che poi fu quella che nel dopoguerra ci portò ad essere la 7° potenza mondiale.
      Invece stiamo seguendo dei populisti perditempo che già tanti danni hanno già fatto a questo Paese.

  9. Jacopo Tramontano

    Qual è il sito della fonte? Ho cercato ma longrunproductivity.com non sembra esistere.

    • TOMMASO MONACELLI

      Ha ragione, è un refuso. La fonte è longtermproductivity.com
      Stiamo correggendo

  10. Max

    Ottima analisi di insieme dei principali fattori. Una domanda però rimane. La divergenza dell’Italia rispetto agli altri paesi inizia nella seconda metà degli anni ’90 accentuandosi in modo drastico nei primi anni 2000.
    Se siamo d’accordo che la produttività è il fattore fondamentale legato alle disparità di crescita. Qual è la ragione per la quale è iniziato tutto esattamente in quel periodo storico? Fino a 5 anni prima il tessuto di imprese medio piccole vs grandi era identico in europa ed in francia? Ci sono state riforme cruciali in tutti i paesi Tranne l’Italia o, all’opposto, ci sono state riforme negative e scelte sbagliate del paese?

    • Pietro Della Casa

      La globalizzazione ha creato una competizione nella nicchia medio-bassa occupata dall’Italia. Le grandi privatizzazioni hanno demolito i “campioni nazionali” dimensionalmente in grado di competere a livello internazionale. La politica ha scelto di rispondere al declino dell’economia con l’assistenzialismo, bruciando ogni risorsa.

  11. Federico

    Credo abbia ragione. Purtroppo in Italia il boom della microimpresa degli anni ‘80 ha alla base il tentativo da parte degli imprenditori di “gabbare” lavoratori, Stato e sindacati. Durante la sbornia proletaria anni ‘70 i costi per le grandi imprese erano diventati eccessivi, il padronato ha dunque risposto con la disarticolazione del processo produttivo e l’attuale nanismo delle imprese italiane (il che non ha impedito di godere di diversi vantaggi, alla base del boom degli anni ‘80):
    1. minor costo del lavoro; Giorgio Fuà registrava nel 1974 un costo orario di lavoro per operaio pari in media a 4817 lire nei complessi con più di 500 dipendenti, 4691 lire nei complessi con più di 250 addetti, 3715 nelle aziende da 10 a 150/200 dipendenti;
    2. lavoro nero;
    3. evasione fiscale.
    I problemi che, guarda caso, ancora oggi affliggono l’Italia. Il fatto è che abbiamo una classe imprenditoriale di corsari e predoni che, pur di metterlo in quel posto ai lavoratori, ha deciso di segare il ramo su cui sedeva.

  12. paolo angelone

    Vorrei sottolineare un altro aspetto: dagli anni 90 si blocca definitivamente anche la crescita dei salari, soprattutto a causa della definitiva eliminazione della scala mobile e l’ adozione del nuovo sistema di contrattazione sindacale (92/93) e in seguito al processo di flessibilità azione del lavoro (dal 97 in poi). Questa dinamica in Italia è molto più forte rispetto alle altre economie europee, siamo l’ unico paese cose che negli ultimi 30 anni ha visto una riduzione dei salari reali.
    Permettere la diffusione di salari bassi – per non parlare della piaga del lavoro irregolare – disincentiva investimenti in efficienza produttiva e le aziende preferiscono competere e guadagnare margini sui livelli salariali piuttosto che sull’innovazione tecnologica.

  13. Emilio primi

    Credo che si dovrebbe valutare fra le cause della scarsa produttività anche l’effetto della corruzione.
    Da tangentopoli in poi le aziende (grandi e piccole) hanno trovato più profitto investendo in tangenti che nello sviluppo di prodotti migliori; le competenze non sono state più appetibili e si sono estinte o sono andate all’estero.
    Per rimediare a questo ora non basta una generazione, ammesso che lo si voglia fare.

  14. vincenzo

    Come si spiega il fatto che nella prima fase (fino al ’98, circa), e probabilmente, anche prima la TFP crescesse con simile intensità nei due paesi? Anche prima del ’98 le imprese erano più piccole in Italia, eppure….
    La domanda dovrebbe quindi essere: Quale evento “traumatico” nazionale/estero può aver rotto il “meccanismo” dalla fine degli anni ’90?

    • TOMMASO MONACELLI

      Globalizzazione del commercio internazionale e spostamento della frontiera tecnologica. Il sistema di micro imprese si è mostrato inadeguato a catturare i benefici di queste due grandi trasformazioni

  15. Vittorio Renzi

    Interessante articolo e interessanti commenti.
    Aggiungo che la pressoche’ assenza assoluta da tutti i settori economici a rapida crescita, possa aver contribuito all’ampliarsi di questa forbice. Questa assenza italiana, ma non solo (se paragonata a quella statunitense) puo’ trovare le piu’ svariate giustificazioni: burocrazia e livello di regolamentaazione, basso livello di scolarizzazione in materie funzionali, difficolta’ di accesso ai capitali e certamente le dimensioni aziendali.
    L’Italia e l’Europa languono da questo punto di vista.

  16. AR

    La dimensione delle imprese ante 2000 non era uguale tra Italia e Francia. (Ok, che le privatizzazioni ci hanno distrutto ma c’era anche prima questa differenza.)

    Mi pare ovvio che quello non è il motivo. Guarderei invece principalmente al maggiore deficit pubblico e indebitamente privato che hanno permesso alla Francia di continuare a crescere rispetto all’Italia.

    (Insomma ci ha fregato l’austerità, l’oligopolio delle banche e tutti i loro sostenitori/professori/giornalisti compiacenti)

  17. Francesco

    In più la piccola impresa italiana sa di poter evadere il fisco con la protezione dei politici imprenditori ed evasori di professione, quindi perché migliorare la produttività se può scaricare la propria improduttività sulla collettività senza costi aggiuntivi?
    Una struttura produttiva basata su sussidi pubblici ed evasione fiscale e contributiva non porta crescita, ma consuma ricchezza.

  18. Giorgio magnanti

    L’85% delle leggi economiche nefaste assistenziali della democrazia cristiana passarono grazie all’astensione di quella iattura che fu il PCI. I governi hanno sempre fatto l occhiolino alle grandi famiglie colpevoli di aver spolpato le casse italiane per poi svendere agli stranieri . Prima leggevo da un lettore che senza l’Europa saremmo nani si dimentica però che la stessa Europa invece ci vuole e ci tratta già da nani!

    • stegano. baudino

      ma. le. hanno. smantellate. quasi tutte. rimangono. il.sistema. a. ripartizione. e. le. pensioni. di. vecchiaia

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