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Il destino di Unicredit-Commerzbank si gioca tra Berlino e Francoforte

L’acquisizione del 9 per cento nel capitale di Commerzbank da parte di Unicredit ha riacceso il dibattito sulle possibili nuove fusioni bancarie in Europa, in particolare su quelle transfrontaliere. Quale atteggiamento adotterà la Bce verso l’operazione?

La mossa di Orcel

L’acquisizione di una quota del 9 per cento nel capitale di Commerzbank da parte di Unicredit ha riacceso il dibattito sulle possibili nuove fusioni bancarie in Europa, in particolare su quelle transfrontaliere (rara avis in un ecosistema dominato da campioni nazionali sempre più ingombranti).

La mossa dell’istituto guidato da Andrea Orcel denota una precisa volontà di affondare il colpo (tanto che l’ultimo 4,5 per cento è stato comprato direttamente dal governo tedesco, sbaragliando i possibili concorrenti con un’offerta insolitamente generosa). È improbabile, dunque, che tutto si risolva con una sostanziosa partecipazione di minoranza ed è facile immaginare che l’acquisto preluda a un progetto di integrazione.

Le medesime ragioni che rendono l’aggregazione interessante dal punto di vista industriale (Unicredit detiene già una forte presenza in Germania e potrebbe realizzare significative sinergie di costo, anche grazie alle inefficienze tuttora presenti in Commerzbank) possono complicarne le sorti sul piano sindacale e politico. Le prime avvisaglie di resistenza non si sono fatte attendere: nessuno in Germania muore dalla voglia di mettere la firma su un piano di tagli che creerebbe la prima banca del paese, lasciandola però in mano agli Spaghettifresser.

Il ruolo della Bce

In questa prevedibile partita a scacchi, la regina è rappresentata dalla Banca centrale europea che è responsabile della vigilanza sui grandi gruppi bancari dell’area euro. Pur restando formalmente neutrale di fronte ai progetti industriali promossi dai soggetti vigilati, dispone di molte leve per orientare l’operazione su un piano inclinato: in salita o in discesa. Con gli investitori sempre più attenti alla redditività del capitale investito, infatti, una variabile chiave per comprendere quanto sia appetibile l’integrazione è data dai requisiti patrimoniali minimi che verranno imposti al nuovo soggetto. E ci sono almeno tre leve che Francoforte può azionare, in una direzione o nell’altra.

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La prima è data dai requisiti di capitale aggiuntivi oltre il minimo legale, i cosiddetti requisiti “di secondo pilastro”: un’aggregazione può creare nuovi rischi, che giustificano la richiesta di cuscinetti extra, ma anche creare un soggetto più forte e diversificato, inducendo l’autorità a concedere uno sconto rispetto a quanto precedentemente richiesto ai due istituti coinvolti.

La seconda leva è il trattamento del cosiddetto badwill, cioè il risparmio realizzato dal compratore rispetto al valore teorico della banca acquisita quando i prezzi di borsa (come accade oggi) sono inferiori al patrimonio contabile. Secondo i principi contabili, questo risparmio può essere assimilato a un profitto che rafforza il patrimonio e rende apparentemente più ricchi gli azionisti. La Bce non si oppone a questa lettura, ma impone alcuni paletti, richiedendo che il profitto non venga distribuito ai soci e che sia in primo luogo utilizzato per rafforzare la banca (per esempio svalutando i crediti dubbi o accantonando riserve per coprire i costi dell’integrazione).

La terza leva riguarda i modelli interni con cui le banche misurano il rischio del proprio portafoglio crediti (dunque, indirettamente, determinano la quantità di capitale minima da detenere di fronte a tali rischi): in caso di fusione questi modelli, che coprono circa i tre quarti dei crediti in portafoglio a Commerzbank, dovrebbero essere gradualmente allineati a quelli di Unicredit, sotto lo sguardo più o meno severo della vigilanza.

Come si muoverà la Bce? Negli ultimi anni, ha più volte sollecitato le integrazioni transfrontaliere; dovrebbe dunque fare il possibile per non scoraggiare l’esperimento (e Unicredit potrebbe aver sondato il terreno prima di uscire allo scoperto). I malpensanti osservano che Francoforte è in Germania e che l’attuale presidente della vigilanza è tedesca; ma molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 2016, Deutsche Bank superò gli stress test con un plateale “aiutino” della Bce che prestò il fianco a critiche e ironie.

La partita della governance

Se la vigilanza maturerà un atteggiamento positivo sull’integrazione, resteranno da superare le resistenze dell’establishment locale: alcuni azionisti, a cominciare dallo stato, potrebbero chiedere qualcosa di più di un prezzo (o un concambio) generoso. Una governance più tedesca, in fondo, potrebbe non dispiacere allo stesso management di piazza Cordusio, visto che l’etichetta di banca italiana non porta necessariamente vantaggi, specie in tempi di turbolenze sui mercati. Ah, se gli investitori scrivessero Unikredit con la “k”…

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  1. Paolo

    Unicredit è solida e il sistema bancario tedescoè un colabrodo. E Commerzbank (ma anche Deutsche) non sono diventati rottami “nonostante” la governance tedesca, ma proprio per via della governance. Essere una banca italiana, a conti fatti, è sinonimo di maggiore solidità. Sarebbe anche ora che dei ricercatori, come chi scrive su questa rivista, comincino a puntare il dito contro questi pregiudizi invece di avallarli, magari chiedendo conto alla governance tedesca del disastro. La Germania è tutt’altro che la locomotiva d’Europa.

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