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Concorrenza e crescita: un campionato globale

Dopo la pubblicazione del Rapporto Draghi, l’attenzione si è concentrata sugli ingenti investimenti necessari per stimolare crescita e aumenti di produttività. Ma i punti strategici centrali riguardano il diritto della concorrenza e il commercio con l’estero.

Il concetto di competitività nel Rapporto Draghi

Il rapporto presentato da Mario Draghi a Bruxelles il 9 settembre, “Il futuro della competitività europea”, ha innescato ondate di reazioni e commenti da parte di politici, imprenditori e studiosi di tutta Europa. Il documento di quasi 400 pagine parte dalla constatazione severa di una crescita economica fiacca, che mette a serio rischio la prosperità e il benessere sociale degli europei, e di conseguenza anche la sopravvivenza dei valori fondativi dell’Unione: appianamento dei divari di sviluppo e stato sociale.

Il Rapporto adotta allora un concetto di competitività molto diverso dagli indicatori che si è soliti utilizzare per confrontare la forza relativa dei paesi sui mercati internazionali, soprattutto la loro competitività di prezzo: “L’obiettivo principale di un programma per la competitività dovrebbe essere quello di aumentare la produttività, che è il motore più importante della crescita a lungo termine e porta all’aumento del tenore di vita nel tempo. La promozione della competitività non deve essere vista in senso stretto come un gioco a somma zero incentrato sulla conquista di quote di mercato globale e sull’aumento delle eccedenze commerciali. Non dovrebbe nemmeno portare a politiche di difesa dei “campioni nazionali” che possono soffocare la concorrenza e l’innovazione, né a politiche di repressione salariale per abbassare i costi relativi. Oggi la competitività non riguarda tanto il costo relativo del lavoro, quanto piuttosto le conoscenze e le competenze che la forza lavoro racchiude”.

Segue una ricca analisi di proposte per “riaccendere la crescita”, raggruppate in tre ambiti: colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina nelle tecnologie chiave; cogliere le opportunità offerte dal processo di decarbonizzazione globale in corso; ridurre le vulnerabilità delle catene di approvvigionamento dalle dipendenze geopolitiche. Puntuali raccomandazioni di politiche settoriali (energia, farmaceutica, IA, trasporti) e orizzontali (innovazione, competenze, governance) sono proposte per garantire che l’Ue rimanga, o meglio diventi, competitiva con gli Stati Uniti e la Cina in futuro.

Le politiche Ue per la crescita e quelle di Usa e Cina

I tre ambiti evidenziano che la competitività del continente è un tema ben più ampio di quanto non sia mai stato considerato dalla Commissione europea, finora molto concentrata sul completamento del mercato interno e sul principio della concorrenza a favore del benessere dei consumatori europei. Fatti salvi questi principi e il loro perseguimento, resta il fatto che la competitività europea a livello globale risente pesantemente del divario abissale che si è aperto negli ultimi decenni tra le politiche europee per la crescita e quelle adottate negli Stati Uniti e in Cina.

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In entrambi i paesi, le strategie hanno incluso massicci investimenti in innovazione tecnologica, politiche industriali attive, politiche commerciali direttamente e indirettamente protezionistiche, generosi programmi di sussidi pubblici e lungimiranti politiche di sviluppo del capitale umano. Non è stato così in Europa, che ora deve recuperare su questi fronti per ambire a riacquistare almeno in parte competitività rispetto alle due più grandi economie del mondo.

Il diritto della concorrenza

All’uscita del rapporto Draghi, si è scatenata la bagarre in merito agli enormi impegni finanziari proposti per stimolare la crescita e gli aumenti di produttività, nell’ordine di investimenti pubblici e privati per 750-800 miliardi di euro all’anno, ovvero fino al 5 per cento del Pil totale dell’Ue. A titolo di confronto, durante il Piano Marshall (1948-1951) è stato speso annualmente l’1-2 per cento del Pil. I paesi “virtuosi” nelle finanze pubbliche, Germania in testa, hanno ribadito le loro perplessità su un nuovo round di risorse (e di debito), a breve distanza dai fondi del Next Generation EU, che ancora devono dare i loro frutti.

Ma la strategia di Draghi non si riduce alla necessità di maggiori investimenti. Uno dei punti strategici più importanti riguarda il diritto della concorrenza, che finora ha precluso le fusioni di imprese. Per esempio, nel 2019, la Commissione europea ha vietato la proposta di acquisizione di Alstom da parte di Siemens nel settore dei treni ad alta velocità. Analogamente, è stata bloccata la fusione tra Ericsson e Nokia nel settore delle telecomunicazioni. In buona sostanza, mentre i colossi americani delle telecomunicazioni e i campioni nazionali cinesi dei trasporti si ingigantivano sempre più, sostenuti dai rispettivi governi, la Commissione applicava pedissequamente una regola nata per proteggere i consumatori europei (dall’eccessivo potere sul mercato interno), senza tener minimamente conto che la sicurezza economica di cui tanto oggi si lamenta la fragilità, dovrebbe considerare l’incoerenza di concedere l’accesso al mercato europeo a imprese estere con quote di mercato globale superiori al 50 per cento (nel 2019, la Cina deteneva una posizione dominante per quasi 600 prodotti). Di conseguenza, il Rapporto Draghi propone un auspicabile allentamento delle regole della concorrenza per alcuni importanti settori, per esempio la difesa e le telecomunicazioni. Il rischio di un tale approccio pragmatico, diametralmente opposto all’applicazione meccanica interna del principio di concorrenza, è che la concorrenza diventi un valore à la carte (buono in generale, cattivo quando non conviene), e crei potenti incentivi alla formazione di gruppi di pressione votati a sospendere il principio di concorrenza nel proprio settore.

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Libero scambio in pericolo?

Il secondo punto strategico in tema di concorrenza riguarda il commercio con l’estero. Le lobby imprenditoriali e i legislatori si chiedevano quanto sarebbe stata ambiziosa la relazione nel rivedere le politiche fondamentali dell’Ue, come le norme sulla concorrenza e il commercio. In un discorso tenuto quest’estate, Draghi ha accennato a un uso massiccio delle tariffe doganali per contrastare gli approcci più protezionistici di America e Cina. Diversi paesi temono che l’Ue abbandoni la sua posizione di campione del libero scambio, ma questi timori sono eccessivi. Al momento, quasi l’80 per cento degli appalti degli ultimi due anni sono stati fatti al di fuori dell’Ue e, a differenza di quanto fanno i grandi concorrenti, non vi sono mai state inserite clausole “Buy European”. L’Europa è poi molto dipendente da paesi con i quali non ha siglato trattati commerciali: si affida a una manciata di fornitori (quasi tutti governati da regimi non democratici) per le materie prime critiche, così come per le importazioni di tecnologia digitale.

In questo contesto, il Rapporto invita l’Ue ad agire come le altre grandi economie e a costruire una vera e propria “politica economica estera”: coordinare gli accordi commerciali preferenziali e gli investimenti diretti con i paesi ricchi di risorse, costituire scorte in aree critiche selezionate e creare partenariati industriali per garantire la catena di approvvigionamento delle tecnologie chiave.

A differenza di quanto avviene negli Stati Uniti e nella Repubblica Popolare Cinese, il “modello sociale europeo” ha sempre perseguito valori quali l’uguaglianza sociale, l’equità e la qualità dei servizi pubblici. Al contempo, sempre diversamente dalle due economie più grandi del mondo, ha adottato un atteggiamento di apertura incondizionata del proprio mercato alle imprese estere, a prescindere dalle altrui regole sulla concorrenza. Così facendo, ha giocato la sfida della competitività giocando in un campionato diverso. Ripristinare la competitività parte da un riequilibrio delle regole, della concorrenza e del commercio.

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Il Punto

  1. Savino

    Dopo oltre 30 anni di paletti di bilancio, improvvisamente parrebbe non così importante tenere i conti in ordine e non così rilevante il debito ed il deficit di uno Stato membro, tanto tutto ciò parrebbe caricato sul debito comune (Paesi frugali permettendo) e ai governanti degli Stati membri non spetterebbe altro, in questa maniera, che gestire una paccata di soldi, che viene quantificata in 800 mld di Euro per volta (per anno/esercizio finanziario?). Quanto ai settori specifici, l’economia prospettata sembrerebbe bellica (energia compresa) e farmaceutica, per gli altri argomenti la concorrenza può attendere. La dura realtà, dalle poste in bilancio della Finanziaria, al debito pubblico, ai balneari e alle riforme strutturali volutamente mai avviate, ci conduce altrove.

  2. alessandro cargasacchi

    Da questa interessante esposizione mi pare di capire che Draghi spinga noi europei a bearci meno delle nostre conquiste sociali indubbiamente valide e di confrontarci anche duramente (in senso economico) con le grandi economie spingendoci a vedere i vantaggi di politiche economiche che vadano oltre un’ottica troppo legata all’interesse dei singoli stati membri dell’UE.

  3. mike

    Penso che il rapporto Draghi sia dannoso per l’italia, per il messaggio che passa di una crescita sempre dettata dalla spesa pubblica. Facciamo una croce su riforma del fisco e liberalizzazioni e politica di bilancio responsabile

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