Il premio Nobel per l’Economia 2024 è stato assegnato a Acemoglu, Johnson e Robinson per gli studi empirici sugli effetti di istituzioni giuridiche e politiche sulla prosperità economica e per quelli teorici su come le istituzioni possono evolvere nel tempo.
I contributi fondamentali dei tre vincitori
Il premio Nobel per l’economia 2024, assegnato a Daron Acemoglu (Mit Department of Economics), Simon Johnson (Mit Sloan School of Management) e James Robinson (University of Chicago Harris School of Public Policy), nelle sue motivazioni ufficiali, riconosce due contributi fondamentali dei vincitori: gli studi empirici sugli effetti di lunga durata delle istituzioni giuridiche e politiche sulla prosperità economica; e gli studi teorici su come queste istituzioni possano evolvere nel tempo, per esempio in conseguenza di transizioni da dittature a democrazie.
Il primo filone di ricerca, basato su due articoli pubblicati rispettivamente sull’American Economic Review nel 2001 e sul Quarterly Journal of Economics nel 2002, è senz’altro il più rilevante, come dimostrano le citazioni da Champions League ricevute dalle due pubblicazioni. Sembra quasi che il secondo filone sia stato inserito come una sorta di ammortizzatore per attutire il colpo delle possibili polemiche sul primo.
Politica e storia al centro dell’analisi economica
Politica e storia: aver portato queste due dimensioni al centro dell’analisi economica, combinando rigore e creatività metodologica, è il vero motivo dietro l’assegnazione del Nobel. Dopo gli studi di Acemoglu, Johnson e Robinson, generazioni di studiosi e studiose si sono lanciate nell’analisi econometrica dell’impatto delle istituzioni politiche sull’economia, contribuendo così a portare la cosiddetta “credibility revolution” all’interno degli studi di political economy, la branca dell’economia che studia le determinanti e l’impatto delle scelte politiche. Sulla loro scia, molti lavori successivi hanno utilizzato dati storici per svelare legami di causa ed effetto, fino a giungere a un recente filone che usa dati archeologici. Se oggi la political economy ha definitivamente abbracciato il rigore dell’analisi econometrica causale, impiegando dati micro che sfruttano variazioni istituzionali o storiche all’interno di singoli paesi, è grazie al percorso tracciato da Acemoglu, Johnson e Robinson e altri con loro.
Lo studio empirico del 2001 avanzava una tesi semplice a dirsi, ma difficile da dimostrare empiricamente: la natura delle istituzioni politiche imposte dalle potenze europee sui paesi che avevano colonizzato ha influenzato la crescita economica di questi ultimi, anche dopo che hanno raggiunto l’indipendenza. Gli anelli della catena causale che spiega questo effetto sono più o meno questi: laddove le condizioni di vita erano peggiori e la mortalità dei coloni (soldati, preti e commercianti) era più alta, le potenze coloniali si limitavano a introdurre istituzioni dittatoriali ed estrattive, volte solo a sfruttare le popolazioni locali. Laddove, invece, le condizioni di vita erano migliori, i coloni europei si stabilivano nei nuovi territori e facevano pressione per ottenere istituzioni più inclusive, attente ai diritti di proprietà e alla partecipazione dei cittadini. Le istituzioni coloniali hanno finito per influenzare le costituzioni e i sistemi giuridici adottati dai futuri Stati indipendenti e, tramite questi, la loro prosperità economica.
Acemoglu, Johnson e Robinson mostrano che ciò è avvenuto indipendentemente dall’identità dei colonizzatori (inglesi, spagnoli, francesi o portoghesi) e non può essere spiegato da altri fattori come il clima, la religione, le risorse naturali o la frammentazione etnolinguistica. Per questo motivo, usare la mortalità dei coloni come variabile strumentale permette loro di isolare l’effetto causale delle istituzioni sulla crescita.
Preso da solo, il loro studio non è privo di limiti, come molti hanno tenuto a ricordarci in questi giorni. Si possono criticare certe ipotesi statistiche. Si può criticare la natura della variabile strumentale. Per carità: l’ipotesi storiografica è semplificata, i dati sono imperfetti, le condizioni su cui si basa l’econometria sono discutibili. Ma è proprio la combinazione di queste imperfezioni (che esistono sempre in ogni studio empirico) a essere originale e innovativa. Lo studio di Acemoglu, Johnson e Robinson è perfetto per scrivere un referee report negativo, se capitasse sulla scrivania in una giornata di cattivo umore, ma è anche perfetto per vincere un Nobel. E tra le due cose c’è spesso una correlazione (che non è causalità). Chi fa da apripista crea le condizioni perché chi viene dopo possa mettere a punto i dettagli. Criticarli per questo significa non capire il ruolo degli apripista. E le ragioni per cui si dovrebbe vincere un premio Nobel.
Istituzioni, una delle chiavi della prosperità
Gli studi di Acemoglu, Johnson e Robinson evidenziano l’importanza dei fattori politici per la prosperità economica e spiegano come istituzioni e scelte politiche non siano né neutre né determinate dall’economia, ma rispondano a conflitti di potere che trovano equilibri diversi in contesti distinti. Questo non vuol dire che solo le istituzioni contino (i tre non suggeriscono certo letture monocausali). Tuttavia, mettere a fuoco il ruolo della politica ci permette di apprezzare come e perché istituzioni e cultura, per dirla con Alberto Bisin e Thierry Verdier, evolvano insieme. È grazie agli studi di political economy se si è capito che il compito della scienza triste non è fornire soluzioni “tecniche” di politica economica calate dall’alto, ma mettere in luce come ogni scelta collettiva sia intrinsecamente politica e abbia bisogno del percorso giusto per materializzarsi. Come hanno scritto Acemoglu e Robinson: “Esistono forze sistematiche che trasformano una buona raccomandazione della scienza economica in una cattiva scelta politica: anche quando possibile, eliminare un fallimento del mercato non necessariamente migliora l’allocazione delle risorse a causa dei suoi effetti sui futuri equilibri politici”.
Queste riflessioni valgono anche per il progresso tecnologico, al cui studio si sono dedicati Acemoglu e Johnson negli ultimi anni (si veda il loro libro del 2023, Power and Progress). L’evoluzione dell’intelligenza artificiale non è né neutra né dettata dalla tecnica, ma risponde a scelte politiche. Ed è forse il momento che la politica ci metta la testa, altrimenti quelle scelte verranno prese da qualcun altro.
Il Nobel di quest’anno rappresenta un riconoscimento dell’importanza che gli studi di political economy hanno raggiunto nella scienza economica. È un riconoscimento che non può non abbracciare due economisti che avrebbero potuto vincere il premio, se non ci avessero lasciato prematuramente, come Mancur Olson e Alberto Alesina, e altri che potrebbero vincerlo in future edizioni, grazie agli indiscussi contributi che hanno apportato, come Guido Tabellini, Torsten Persson, Tim Besley e Gerard Roland. Checché ne pensasse Karl Marx, le istituzioni giuridiche e politiche non sono una mera sovrastruttura della sottostante struttura economica: sono una delle chiavi della prosperità.
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Savino
Avere un’organizzazione pubblicistica ed amministrativa riconoscibile come istituzione, che esprime delle politiche concrete, è importante ed è un faro per l’economia, avendo il diritto-dovere anche di intervento per correggere le storture presenti nel meccanismo economico e finanziario.
DARIO RONCADIN
Perché lo chiamate premio Nobel quando non lo è in senso proprio?