Il riscaldamento globale causa fenomeni atmosferici che non possiamo più classificare come calamità. Si tratta invece di cambiamenti strutturali, che ci accompagneranno a lungo. Serve dunque un piano di adattamento. Quello dell’Italia ha molte lacune.
Perché non si può più parlare di calamità
A settembre e poi di nuovo a metà ottobre, gravi inondazioni hanno colpito alcune regioni italiane, in particolare l’Emilia-Romagna, a distanza di poco più di un anno da disastri simili che nel 2023 avevano causato morte e distruzione nel Centro-Nord Italia. La causa sono i cambiamenti climatici di origine antropica che determinano un aumento della intensità e frequenza di fenomeni atmosferici estremi, come le piogge torrenziali dopo lunghi periodi di siccità.
Subito dopo il disastro, oltre al consueto rimpallo di responsabilità, le prime parole riportate dalla stampa sono in genere “dichiarato lo stato di emergenza” (o di calamità). È comprensibile che gli amministratori locali chiedano aiuto, dopo aver subito danni, e che per farlo utilizzino tutti gli strumenti a disposizione.
È però essenziale comprendere che non si tratta di emergenze contingenti, ma di un cambiamento strutturale che accompagnerà il territorio italiano per molti decenni. Non basta chiedere i danni e riparare, ma bisogna prevenire, perché anche impegnandoci a mitigare oggi il riscaldamento globale, riducendo le emissioni di gas climalteranti, gli effetti negativi di quelle già accumulate in atmosfera richiederanno un grande e inevitabile sforzo di adattamento. Il rischio non è solo una perdita economica per cittadini e imprese, ma la stessa permanenza dell’uomo nei territori vulnerabili. Per impegnarsi seriamente nella prevenzione servono soldi, programmazione e capacità di intervento.
Le debolezze del piano italiano di adattamento
Non è semplice sapere quanto costa adattarsi ai cambiamenti climatici poiché i fenomeni sono complessi e incerti. Il calcolo dipende tra l’altro dal metodo adottato, dal fatto che le perdite umane siano o meno messe in conto e dallo scenario ambientale. Per esempio, il Centro comunitario di ricerca, che considera scenari con aumento della temperatura da 1,5 a 3 gradi, ha stimato una perdita tra 42 e 175 miliardi di euro l’anno per l’Europa. Per somme così ingenti, l’intervento pubblico è certamente essenziale, per esempio nella pianificazione e per le infrastrutture. Ma è centrale il ruolo dei privati, che dovrebbero considerare inevitabili le spese per la messa in sicurezza e l’adattamento. Ecco perché le iniziative di sensibilizzazione e formazione, i vantaggi fiscali o gli obblighi assicurativi sono utili.
Intanto, però, il piano di adattamento di cui l’Italia si è dotata – come previsto dalla legge europea sul clima (regolamento (Ue) 2021/1119) – è debole e privo di finanziamenti certi. La debolezza è stata sottolineata anche in uno studio della Corte dei conti europea, da cui è tratta la mappa della figura 1, che mostra le differenze nella programmazione tra i paesi europei. Debole è pure il coordinamento tra i molteplici attori (ministeri, regioni, commissario straordinario quando c’è, comuni, protezione civile, autorità di bacino e altri ancora) e non è chiaro dove inizino le competenze dell’uno e finiscano quelle dell’altro.
Proprio per fare chiarezza sui ruoli ed evitare il rimpallo di responsabilità, sarebbe auspicabile creare, almeno nelle regioni, un’unica cabina di regia o “centro di competenza” che si occupi della pianificazione e del coordinamento degli interventi, da realizzare ai vari livelli territoriali indipendentemente dal settore o dalla minaccia o rischio, mettendo a fattor comune le risorse (nazionali, regionali, europee). La cabina di regia dovrebbe poi interfacciarsi con l’Arpa, l’agenzia regionale per la protezione ambientale, responsabile per la raccolta e il monitoraggio di tutti i dati rilevanti. Ciò dovrebbe consentire di gestire in modo efficiente le risorse umane e finanziarie e superare così i “blackout” dovuti alla carenza di personale tecnico abilitato a svolgere le perizie che molte amministrazioni, per esempio i comuni, lamentano.
Troppa burocrazia
Sul tema della burocrazia e del “gold plating” (oneri normativi e requisiti supplementari rispetto al minimo necessario), il nostro paese eccelle in senso negativo. Per esempio, sulle richieste di rimborso per i danni subiti da imprese e cittadini dell’Emilia-Romagna dopo i disastri del 2023, molti hanno tirato in ballo la piattaforma informatica Sfinge, attraverso la quale vengono gestite le domande, compreso un recente reportage della trasmissione “Presa Diretta”, come se fosse un ostacolo all’assorbimento dei fondi. In realtà, la piattaforma ha dimostrato di funzionare bene anche per altre finalità per cui viene utilizzata. L’ostacolo sta semmai negli innumerevoli adempimenti che i beneficiari devono espletare per ottenere un rimborso: dalla foto di ciascun bene andato perso alla dichiarazione di non riparabilità, alla prova delle movimentazioni contabili sul proprio conto corrente al momento dell’acquisto, ad altro ancora. Non stupisce allora che dei circa 2,5 miliardi stanziati, solo 250 milioni risultino erogati. È certamente importante controllare che i soldi vengano utilizzati bene, ma non è di nessuna utilità pretendere un numero irragionevole di prove, quando la richiesta di rimborso viene inoltrata. In quel momento, bisognerebbe limitarsi a valutare in modo snello l’eleggibilità della spesa, rimandando i controlli a una fase successiva, svolgendoli anche a campione.
Figura 1 – Mappa dello stato della programmazione relativa all’adattamento ai cambiamenti climatici nella Ue
Fonte: Corte dei conti Ue (2024) – Special report 15/2024: Climate adaptation in the EU – Action not keeping up with ambition
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