Il coworking è un’idea affascinante. Ma è un modello che produce risultati vantaggiosi per le aziende che gestiscono gli spazi e per quelle che li utilizzano? L’analisi del bilancio di un’impresa italiana del settore lascia più di un dubbio.
La rivoluzione in ufficio
Negli ultimi anni, gli spazi di coworking sono stati una delle innovazioni più affascinanti nel panorama lavorativo. Concepiti per combinare flessibilità, estetica e benessere, questi ambienti promettono di rivoluzionare il modo in cui lavoriamo e collaboriamo. Spazi ben progettati, aree comuni stimolanti e un’atmosfera di condivisione sembrano attrarre giovani talenti, startup e professionisti indipendenti.
Sorgono però due domande: 1) il coworking produce effetti misurabili sulle aziende che ne fanno uso in termini di maggiore produttività? 2) L’attività di business del coworking genera importanti ritorni in termini di valore aggiunto sull’economia di un paese?
Per rispondere alla prima domanda, abbiamo fatto una breve rassegna della letteratura scientifica che, seppure in rapida crescita, risulta ancora limitata e spesso caratterizzata da metodologie non troppo rigorose. Studi recenti, comunque, esplorano aspetti come l’effetto dell’uso degli spazi di coworking sulla produttività degli utilizzatori e sul loro benessere.
L’effetto sulla produttività
Lo studio Coworking Spaces: A New Way of Achieving Productivity evidenzia un impatto positivo delle interazioni sociali e dell’ambiente collaborativo sulla produttività individuale. Tuttavia, l’effetto è misurato dalle percezioni dei coworker, è dubbio che i risultati possano essere generalizzati. Altri studi, come quello pubblicato su Economics and Business, sottolineano il ruolo ambivalente delle interazioni sociali: se da un lato favoriscono l’innovazione e lo scambio di competenze, dall’altro possono diventare un fattore di distrazione, riducendo l’efficienza.
In conclusione, l’impatto del coworking sulla produttività appare variabile e strettamente legato alla progettazione degli spazi e alla gestione delle dinamiche sociali. La possibilità di bilanciare collaborazione e concentrazione rimane una sfida cruciale. E per dati più affidabili servirebbero esperimenti sul campo tesi a misurare indicatori oggettivi di produttività (per esempio, fatturato, numero di contratti e collaborazioni avviate, brevetti depositati).
Benessere: un punto a favore del coworking
Quando si sposta l’attenzione dal rendimento al benessere, il quadro sembra più positivo. La revisione sistematica Exploring the Potential of Coworking Spaces for Quality of Working Life and Wellbeing mette in luce come questi spazi possano migliorare la qualità della vita lavorativa rispetto alle modalità classiche di organizzazione degli uffici. Offrendo opportunità di socializzazione, networking e supporto psicologico, i coworking si configurano come ecosistemi che promuovono autonomia, creatività e senso di appartenenza. Anche lo studio italiano pubblicato su Journal of Urban Technology conferma l’impatto positivo sul benessere, evidenziando come la riduzione dell’isolamento percepito rappresenti un vantaggio significativo per freelance e lavoratori autonomi. Tuttavia, emergono anche alcune criticità, come la competizione tra coworker e la mancanza di privacy.
La letteratura scientifica, con analisi non troppo rigorose da un punto di vista empirico, sembra portare a rispondere no alla prima domanda: il coworking non aumenta la produttività. Cosa possiamo dire invece dell’attività di business degli spazi di coworking? Producono una redditività interessante?
WeWork e Tag: uno sguardo sulla redditività
Ha destato scalpore globale il caso di WeWork, nata proprio come startup innovativa nel settore del coworking, proponendosi di rivoluzionare gli ambienti di lavoro condivisi, offrendo spazi flessibili, servizi integrati e una forte impronta comunitaria. Fondata nel 2010 da Adam Neumann e Miguel McKelvey, l’azienda è stata in grado di attirare rapidamente investimenti ingenti grazie a una visione ambiziosa e a una crescita vertiginosa in diverse città globali. Tuttavia, nel 2019, in vista dell’Ipo (la quotazione in borsa), sono emerse alcune problematiche: il modello di business è apparso infatti troppo dipendente da costi elevati, contratti di locazione a lungo termine e dalle continue iniezioni di capitale esterno. La valutazione dell’azienda, gonfiata da aspettative non realistiche, ha iniziato a crollare quando gli investitori si sono interrogati sulla sostenibilità economica di un format che genera margini ridotti e comporta rischi elevati. Le dimissioni forzate di Neumann, i massicci tagli al personale e la necessità di un salvataggio finanziario hanno dunque gettato nuova luce sul settore, evidenziando le vulnerabilità insite in un modello fondato sulla semplice intermediazione di spazi.
Per comprendere ancora più in dettaglio la gestione degli spazi di coworking, abbiamo esaminato il bilancio di una realtà italiana, Talent Garden (Tag). fondata nel 2011. Talent Garden è diventata una delle principali realtà europee nel settore dei coworking e degli spazi di innovazione ed è presente anche in Spagna, Austria, Polonia, Svezia, Danimarca, Irlanda, Germania, Romania, Finlandia e Francia.
Il modello di business si impernia su tre voci in particolare: affitto degli spazi, organizzazione eventi e formazione alle aziende. Ma proprio la gestione degli spazi di coworking rappresenta senz’altro un elemento chiave del business.
Analizzando i principali indicatori finanziari e le voci di ricavi e costi, è possibile ottenere una visione chiara della sostenibilità e delle sfide che ha di fronte. Partiamo dallo stato patrimoniale.
Lo stato patrimoniale attivo ci racconta di un’impresa capogruppo, che possiede le azioni di tante aziende partecipate che altro non sono che filiali operative nei vari paesi, come Talent Garden Danimarca, Talent Garden Francia, e così via. Queste partecipazioni pesano poco meno del 70 per cento dell’intero attivo, evidenziando come l’assetto patrimoniale sia fortemente concentrato su investimenti in filiali e partecipazioni estere e non su asset aziendali tradizionali.
Lo stato patrimoniale passivo ci racconta che a finanziare Tag sono stati soprattutto i soci; infatti, il patrimonio netto vale circa il 70 per cento del passivo. Trascurabili quindi i finanziamenti da banche o i debiti verso i fornitori.
Passiamo al conto economico.
Il conto economico ci mostra una situazione tutt’altro che semplice: nel 2022 e nel 2023 l’azienda è in perdita. Non solo, ma la perdita arriva proprio dal core business: sia in Italia (il risultato operativo è negativo di circa 1,6 milioni di euro in entrambi gli anni) sia all’estero (i dividendi che arrivano dalle filiali – proventi finanziari – sono contenuti e il valore delle partecipazioni diminuisce di molto – rettifiche di valore di attività finanziarie). Quindi i costi di Tag sono di gran lunga superiori ai ricavi, e la situazione si ripete dal lontano 2014.
La redditività del modello di business sembra quindi insostenibile nel lungo periodo, a meno che non vengano intraprese azioni correttive significative per migliorare l’efficienza operativa e rendere le filiali più redditizie.
Un entusiasmo da ridimensionare?
La promessa degli spazi di coworking è indubbiamente accattivante, ma i risultati empirici sembrano indicare che gli utenti degli spazi non ne traggono benefici significativi per la loro attività (ma servono studi più rigorosi), mentre dal punto di vista delle imprese di coworking le criticità insite del modello di business sono molto rilevanti.
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