Canada, Messico e Cina sono i primi destinatari dei dazi promessi dal presidente Usa. Ma le tariffe non daranno i risultati economici sbandierati. Perché sono soprattutto uno strumento di pressione. La reazione però potrebbe essere diversa da quella voluta.
Sono arrivati i dazi
Il 1° febbraio, Trump ha annunciato l’introduzione di dazi del 25 per cento sulle importazioni provenienti da Messico e Canada (ma sulle importazioni energetiche da Ottawa il dazio è solo del 10 per cento) e del 10 per cento sulle importazioni dalla Cina. Per il momento non è stato annunciato alcun provvedimento nei confronti dell’Unione europea. Ma potrebbe trattarsi solo di un’attesa breve.
Nel frattempo, sia Justin Trudeau che Claudia Sheinbaum hanno già ottenuto dilazioni sull’entrata in vigore dei provvedimenti, dopo l’impegno a realizzare alcune delle azioni di controllo alle frontiere richieste da Trump. Il tutto mentre Pechino annunciava le prime misure di ritorsione commerciale.
Date queste premesse, se non siamo nel pieno di una guerra commerciale, poco ci manca. Le misure decise da Trump costituiscono il provvedimento protezionistico più rilevante da diversi decenni a questa parte.
Il dazio medio sulle importazioni Usa crescerà, causando un aggravio di costi per la famiglia mediana americana vicino ai 100 dollari al mese e un aumento del livello dei prezzi al consumo almeno dell’1,2 per cento. La politica monetaria ne risentirà. La Federal Reserve sarà spinta a rinviare ancora la riduzione dei tassi di interesse, cosa che favorirà un ulteriore rafforzamento del dollaro sui mercati valutari.
Più difficile è invece la stima dell’impatto sul Pil Usa, anche perché il provvedimento – benché generalizzato a tutte le importazioni – avrà effetti molti diversi tra i settori. In cima alla lista di quelli più esposti ci sono automobilistico, alimentare e materiale per edilizia. Le prime stime pubblicate mostrano una riduzione della crescita Usa compresa tra lo 0,24-0,32 per cento, ma molto dipenderà dalle ritorsioni commerciali che potrebbero contribuire a limare ulteriormente la performance dell’economia americana.
Giustificazioni poco convincenti
Ufficialmente i provvedimenti verso Canada, Messico e Cina sono motivati dall’esigenza di limitare il traffico di fentanyl, oltre che l’afflusso di immigrati illegali. Nei confronti di Pechino, ritenuta responsabile di non aver ostacolato la circolazione di precursori chimici utilizzati per la produzione dell’oppioide, Trump ha anche reiterato l’accusa di aver condotto pratiche commerciali scorrette.
Come ha lucidamente spiegato Paul Krugman , le argomentazioni contro Messico e Canada sono del tutto prive di giustificazione. Per di più, i dazi colpiscono i due paesi membri dell’Usmca, l’area di libero scambio erede del vecchio Nafta, che ha garantito lo sviluppo di solide interdipendenze commerciali tra i tre stati membri. Non a caso Canada e Messico sono rispettivamente il primo e il secondo più grande mercato per l’export americano, mentre gli Usa sono il più importante mercato di sbocco per le esportazioni di entrambi i paesi. L’istituzione di barriere tariffarie non fa altro che smantellare un sistema produttivo integrato a livello continentale (soprattutto nel manifatturiero), che non sarà semplice ricostruire. Né in futuro, considerato il colpo inferto alla fiducia degli investitori nel mantenimento di un’area di libero scambio; né altrove, visto lo scenario di crescente frammentazione geopolitica. Le prime dichiarazioni dei top-manager delle principali multinazionali automobilistiche che operano sul mercato Usa lasciano intendere che la ricostituzione di capacità produttiva all’interno del territorio statunitense (dovuta a investimenti diretti di tipo tariff-jumping) resta comunque un pio desiderio. Invece, i dazi potrebbero danneggiare seriamente il sistema produttivo messicano, creando le condizioni per una ripresa dei flussi migratori.
Reazioni diverse da paese a paese
I provvedimenti del presidente Usa hanno indotto reazioni diverse da parte dei tre paesi coinvolti. Il Messico ha perseguito una linea morbida, basata su di una interlocuzione diretta tra Sheinbaum e Trump nel tentativo (raggiunto) di scongiurare l’immediata applicazione dei dazi. Il prezzo sinora pagato è stato l’impegno a dispiegare militari lungo il confine per aumentare il controllo di traffici illegali (di sostanze e di esseri umani). Il Canada invece non ha esitato a minacciare l’imposizione di dazi su uno svariato numero di merci del valore complessivo di oltre 100 miliardi di dollari. La strategia pan-per-focaccia ha pagato, visto e considerato che anche Trudeau ha ottenuto la sospensione temporanea del provvedimento. La Cina invece ha definito la solita ritorsione mirata (ripercorrendo una strategia già seguita nel 2018). Nel giro di pochi giorni, Pechino ha disposto indagini (condotte dall’antitrust cinese) nei confronti di giganti tecnologici come Google, Intel e Nvidia, rei di aver violato la normativa sulla concorrenza. Ha introdotto quote sulle esportazioni di materie prime critiche. Ma soprattutto ha stabilito dazi (tra il 10 e il 15 per cento) sulle importazioni dagli Usa di gas naturale liquefatto carbone, petrolio, macchinari per agricoltura e auto. Una scelta che va a colpire due mercati – carbone e petrolio – che rivestono una certa importanza per gli esportatori statunitensi. Nel complesso, si tratta di una reazione “aggressiva ma non troppo”, giustificata dall’importanza della domanda estera per il ciclo cinese. I problemi dell’immobiliare, uniti alla mancata accelerazione dei consumi, rendono le esportazioni un importante motore di crescita. Da qui il tentativo di non entrare in una escalation tariffaria con gli Usa che potrebbe rivelarsi oltremodo costosa.
Cosa ci aspetta?
Trump ha tenuto a chiarire – per bocca di Peter Navarro – che ”non è una guerra commerciale, ma una guerra alla droga!”. Al di là dei giochi di parole, è davvero difficile ritenere che non si tratti di una guerra commerciale. Rispetto alle dichiarazioni durante la campagna elettorale, ora lo scenario è più chiaro, almeno per quanto riguarda gli strumenti adottati. Lo è invece molto meno quando si cerca di valutarne gli obiettivi e la fattibilità.
È opinione comune – persino tra i commentatori più vicini all’area repubblicana (come il Wall Street Journal) – che il protezionismo di Trump non riuscirà a creare nuovi posti di lavoro negli Usa. Nell’era delle catene globali del valore, le merci, compresi i manufatti “americani”, contengono una parte rilevante di componenti importate da altri paesi; il dazio le rende più costose e contribuisce quindi ad aumentare i costi di produzione dei beni “made in Usa”, con conseguenze negative per la competitività e l’occupazione lungo le global value chains.
Analogamente, pochi credono alla possibilità che la nuova ondata di dazi riuscirà a eliminare il deficit commerciale Usa. Probabilmente si ripeterà quanto già visto dopo il 2018. Muterà il deficit bilaterale con Messico, Canada e Cina, ma non il saldo complessivo. La ragione è ormai nota. Dazi selettivi (che colpiscono solo alcuni paesi) inducono un fenomeno di diversione dei flussi commerciali, che si spostano dai paesi gravati dai dazi verso quelli esenti. A riprova di ciò basta dire che dopo il 2018 gli alti dazi verso la Cina hanno ridotto le importazioni Usa dal gigante asiatico, favorendo però le importazioni da altri paesi. Messico e Vietnam (al centro di triangolazioni commerciali costruite proprio per aggirare le tariffe) hanno registrato crescenti surplus bilaterali verso gli Usa. Nel frattempo, il deficit americano complessivo è aumentato.
E se il risultato è opposto a quello voluto?
Se i dazi non sono in grado di produrre gli effetti economici desiderati (su occupazione, commercio e gettito fiscale), allora perché introdurli? La risposta è che sono uno strumento di pressione (spesso basta la semplice minaccia di introdurli) utilizzato per ottenere concessioni dagli altri paesi, nei più svariati ambiti. L’aspetto singolare della economic statecraft al centro della Trumponomics è che la pressione viene sì esercitata nei confronti dei “paesi nemici” (da un punto di vista politico), ma anche verso i “paesi amici”.
Il rischio concreto che Trump corre questa volta – come ha messo in evidenza Gideon Rachman – è quello di scatenare una reazione da parte degli “amici” che potrebbe ritorcersi contro Washington. Ad esempio, creando le condizioni utili per la costituzione di nuove coalizioni tra paesi normalmente appartenenti a blocchi politicamente antagonisti. Il fronte contrario a Washington verrebbe ulteriormente consolidato, andando ben oltre il gruppo dei Brics. L’isolazionismo americano sarebbe raggiunto. Ma a quale prezzo e con quali rischi?
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bob
ci sono molti aspetti per così dire surreali se non comici in questa vicenda che evidenziano soprattutto una cosa in particolare:
siamo di fronte a livello mondiale a veri e autentici dilettanti, dopolavoristi tirare a campare della politica. Il periodo storico purtroppo è questo.
I dazi in un mondo connesso e collegato come quello attuale è una contraddizione in termini oltre che un ” ferro vecchio arrugginito” . La politica e la diplomazia messa all’angolo ha lasciato spazio a soggetti che promettono miracoli con un ” conflitto d’ interessi” a dir poco squalidi.
Rileggere in questi giorni i discorsi di Winston Churchill prima dell’imminente attacco della Germania fa comprendere la pochezza degli attuali “attori”