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L’Iva secondo Trump*

L’Iva è diventata un bersaglio negli Stati Uniti: il presidente la equipara a un dazio, alcuni commentatori la ritengono un incentivo alle esportazioni. Ma come la sales tax Usa, l’imposta europea non fa distinzioni sulla provenienza delle merci.

Un’imposta e due tesi sbagliate

Da qualche giorno l’Iva è entrata tra gli argomenti usati per spiegare “la più stupida guerra commerciale della storia”. Una settimana fa Donald Trump, nell’annunciare l’intenzione di aumentare i dazi per bilanciare le imposte che gli altri paesi applicano sulle merci americane, ha chiarito che nella sua visione “l’Iva è un dazio” e che quell’imposta contribuisce a spiegare il disavanzo commerciale degli Stati Uniti con l’Unione europea (236 miliardi di dollari nel 2024). È una tesi evidentemente sbagliata. Un dazio è un’imposta che colpisce solo i beni importati al fine di scoraggiarne il consumo rendendoli più costosi dei beni prodotti internamente. È, in altre parole, lo strumento di una politica protezionista. L’Iva, invece, è un’imposta che tassa tutti i beni consumati all’interno di un paese nello stesso modo, senza distinguere tra beni prodotti in loco o importati. Su un’automobile importata dagli Stati Uniti in Italia grava la stessa Iva che grava su un’automobile prodotta in Italia. Nessuna restrizione alle importazioni, ma libero commercio. Al contrario se, come vorrebbe Trump, l’automobile americana fosse esente dall’Iva, avremmo un sussidio alle merci importate, che le renderebbe meno costose di quelle prodotte in Italia. Un protezionismo al contrario. È pretendere un po’ troppo.


Una tesi un po’ più sofisticata sull’interferenza che l’Iva avrebbe sul commercio internazionale circola da tempo negli Stati Uniti ed è stata riproposta in questi giorni dal New York Times. Se un’automobile prodotta in Europa viene esportata negli Stati Uniti, l’esportatore riceve dal fisco del suo paese la restituzione dell’Iva già versata. Ciò “dà alle imprese un incentivo a esportare beni invece di venderli nel mercato interno”. È una tesi ripresa dal Corriere della Sera, secondo cui la restituzione dell’Iva agli esportatori ”equivale a uno sconto sulle loro merci esportate, che può raggiungere il valore del 20 per cento”. Anche questa tesi è sbagliata. Vediamo perché.

Gli Usa, la Ue e due forme di imposta sui consumi

In tutti i paesi, in genere, esiste un’imposta indiretta che tassa il valore dei consumi (una percentuale del prezzo di vendita). Queste imposte assumono forme diverse. Negli Stati Uniti c’è una sales tax (imposta sulle vendite) che viene applicata solo nella fase del consumo al dettaglio (si dice che è un’imposta monofase). In Europa c’è l’Iva, l’imposta sul valore aggiunto, un’imposta plurifase che colpisce tutte le fasi della produzione e dello scambio fino al consumatore finale.


Un esempio aiuta a capire come funzionano. Un negozio di abbigliamento acquista camicie da un grossista. Con la sales tax l’imposta non si applica nel passaggio tra grossista e negozio al dettaglio. Sarà invece pagata dal consumatore finale al negoziante, che la verserà al fisco. Con l’Iva l’imposta viene pagata in ogni passaggio e ogni venditore versa al fisco la differenza tra l’Iva che ha incassato dalle vendite e quella che ha pagato sui suoi acquisti. Anche in questo caso, l’imposta alla fine grava interamente sul consumatore finale.


Vediamo cosa accade con l’esportazione del bene. Se un negozio italiano esporta la camicia negli Stati Uniti riceve dal fisco italiano il rimborso dell’Iva che aveva pagato acquistando dal grossista. Se un negozio americano vende la camicia in Italia non riceve nessun rimborso dal fisco americano in quanto non ha pagato alcuna imposta al momento dell’acquisto dal grossista. Il consumatore finale pagherà la stessa imposta (la sales tax negli Usa e l’Iva in Italia) sulle camicie prodotte nel proprio paese e su quelle importate. Insomma, laisser faire, laisser passer: c’è piena neutralità rispetto alla provenienza delle merci.


Alla confusione americana contribuisce il fatto che l’aliquota dell’Iva è molto più alta di quella della sales tax (e infatti il gettito della sales tax negli Stati Uniti è circa il 2-3 per cento del Pil, mentre quello dell’Iva nella Ue supera il 7 per cento del Pil). Ma ciò è irrilevante per il commercio internazionale, come abbiamo visto e come, anche negli Stati Uniti, notava un articolo comparso già nel 2016 su Forbes, dal titolo eloquente: “L’Iva non è né un sussidio alle esportazioni né un’imposta sulle importazioni”.


Purtroppo, Public finance negli Stati Uniti e Scienza delle finanze in Italia sono materie facoltative nei corsi di laurea in economia.

* L’articolo è pubblicato in contemporanea su Domani.

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  1. Savino

    Provate ad immaginare il consumatore finale, vero tartassato solo per aver acquisito, cosa ne pensa dell’IVA.

    • Giuseppe Pisauro

      Commento poco rilevante
      Il punto dell’articolo è che se tartassato lo è allo stesso modo quando acquista un bene importato o un bene prodotto internamente

  2. Enrico Motta

    Sarebbe interessante il parere del Prof. Pisauro su due cose: 1) la sales tax in quanto monofasica necessita, nell’insieme dei vari passaggi, di un minore lavoro burocratico rispetto all’IVA, e sarebbe da questo punto di vista preferibile? 2) Se per ipotesi si sostituisse in Italia l’IVA con la sales tax, il gettito sarebbe probabilmente invariato o potrebbe variare? Grazie comunque per l’articolo.

    • Angelo

      Altra cosa su cui sarebbe interessante ragionare: diminuendo il numero di passaggio dell’ IVA e avendola solo alla fine è possibile ipotizzare che diminuirebbe in maniera importante l’evasione e che le risorse per il controllo sarebbero un deterrente maggiore avendo meno passaggi da controllare?

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