L’offensiva protezionistica del 2018 voluta dalla prima amministrazione Trump non ha dato i risultati sperati e ha danneggiato gli americani. Oggi è soprattutto l’incertezza causata dalla guerra commerciale nella competizione internazionale a creare problemi.

Le lezioni del 2018

Nell’epoca del vintage non stupisce trovare, anche negli ambienti più prestigiosi, complementi d’arredo di cui francamente avevamo sperato di poterci dimenticare. Non fa eccezione lo Studio Ovale della Casa Bianca, dove sulla scrivania presidenziale è riapparsa la logora collezione di strumenti daziari di cui, fino a non molto tempo fa, pensavamo di esserci liberati. Sono strumenti di cui si fa fatica a capire l’utilità.

In un remake di un film già visto in questi stessi giorni del 2018, il presidente degli Stati Uniti ha ricominciato a imporre o a minacciare di imporre dazi sulle importazioni che arrivano dai principali partner commerciali. Ora come allora, la ragione dell’escalation è duplice. Da un lato, un’amministrazione guidata da “un artista degli affari” ritiene che tutti gli accordi commerciali stipulati dai suoi predecessori (anche da sé stesso nel caso di quello con Canada e Messico del 2020) siano, se non disastrosi, quanto meno poco ambiziosi e vadano quindi rinegoziati con le buone o, soprattutto, con le cattive. Dall’altro, la logica della contrattazione affaristica tra privati applicata alle relazioni internazionali fa apparire le guerre dei dazi facili da vincere se si è il paese più importante del pianeta. Repeal and replace, cioè abroga un accordo esistente e sostituiscilo con un accordo più vantaggioso, è la strategia di chi si sente sufficientemente forte da poter cambiare le carte in tavola in ogni momento, in barba agli impegni presi in precedenza. Dopo che per decenni gli americani hanno promosso la riduzione delle barriere al commercio internazionale su scala globale, coercizione ed estorsione attraverso ricatti protezionistici sembrano essere diventate gli strumenti insostituibili per fare nuovamente grande l’America (per dirla alla Trump), garantendo che il futuro sia realizzato in tutta l’America da tutti i lavoratori americani (per dirla alla Biden). 

Eppure, l’esperienza dell’offensiva protezionistica americana del 2018 avrebbe dovuto far riflettere. Che cosa si sarebbe dovuto imparare? Innanzitutto, che contrariamente a quanto si pensa a Washington, “dazio” non dovrebbe essere considerata la parola più bella del vocabolario, soprattutto dall’elettorato trumpiano, e che le guerre dei dazi non sono affatto facili da vincere. Il dazio è una “tassa” sulle importazioni, pagata da chi compra, a meno che chi vende non ne assorba almeno una parte abbassando il prezzo. Non è successo e, poiché i dazi di Washington del 2018 non hanno cambiato i prezzi mondiali dei prodotti presi di mira, vuol dire che hanno pescato nelle tasche dei cittadini americani. Quei dazi infatti sono stati generalmente pagati dalle famiglie e dalle imprese statunitensi, con poche eccezioni come quella del settore siderurgico, in cui gli esportatori hanno assorbito circa la metà dell’onere tariffario aggiuntivo.

Si sarebbe anche dovuto imparare che nel 2018 i dazi non sono nemmeno serviti ad avvantaggiare i settori in cui sono stati imposti per promuoverne l’espansione a danno delle importazioni. La distribuzione delle ricadute economiche degli interventi protezionistici ha mostrato una chiara regolarità geografica, che si può spiegare in termini di dinamiche politiche interne agli Stati Uniti a vantaggio dell’elettorato trumpiano. Proprio per questo, le rappresaglie di Unione europea e Cina sono state chirurgiche nel colpire gli interessi economici degli elettori di Donald Trump. Sfruttando il proprio peso come cliente degli americani nel settore manifatturiero, l’Ue ha usato i propri dazi per colpire soprattutto la Rust Belt, cioè il cuore storico dell’industria a stelle e strisce. Facendo invece leva sul proprio ruolo di compratore dominante di alcuni prodotti agricoli americani, la Cina ha colpito soprattutto le Great Plains, cioè le grandi pianure del Midwest.

La conclusione di svariati studi condotti da allora sembra essere chiara. C’è chi ha trovato che i dazi degli Stati Uniti non hanno avuto alcun impatto positivo sull’occupazione nei settori interessati, mentre lo hanno avuto negativo – e particolarmente significativo – quelli imposti dagli altri paesi in ritorsione, soprattutto in agricoltura. L’effetto congiunto del protezionismo di Trump e delle ritorsioni dei partner commerciali ha portato a una rilevante riduzione sia delle importazioni che delle esportazioni Usa, con una significativa perdita di reddito nazionale reale. C’è, infine, chi ha rilevato come il maggior danno all’economia americana sia derivato dai dazi di Washington più che da quelli imposti dagli altri stati come ritorsione. La proverbiale zappa sui piedi. Nessuno ha trovato effetti benefici rilevanti per gli Stati Uniti nel loro insieme. Insomma, la guerra commerciale tra Washington e resto del mondo ha danneggiato anche chi l’ha lanciata.

Lungi dall’essere consolatoria, la conclusione dovrebbe accrescere le preoccupazioni di paesi come l’Italia che, esportando molto negli Stati Uniti, perdono due volte. Una prima volta perché i dazi rendono più problematico l’accesso al grande mercato americano. Una seconda volta perché quello stesso mercato diventa un pochino più piccolo per la perdita di reddito nazionale dovuta ai dazi.

I danni causati dall’incertezza

Perché allora Washington insiste a usare i dazi? Per ottenere altre cose, dicono molti, in modo magari inefficiente ma sicuramente efficace. Se anche fosse, il quadro diverrebbe ancora più preoccupante. Basta guardare alla lunga lista di obiettivi che in campagna elettorale Trump dichiarava di poter raggiungere coi dazi: contenere l’ascesa della Cina, ridurre il disavanzo commerciale americano, reindustrializzare gli Stati Uniti, sostituire le entrate fiscali nazionali con il gettito dei dazi, promuovere la sicurezza nazionale, impedire ad altri paesi (soprattutto alle grandi economie emergenti) di rinunciare al dollaro Usa come valuta globale e via elencando. Come i mercati azionari americani suggeriscono in questi giorni travagliati, ci sono forti dubbi che l’offensiva daziaria possa davvero raggiungerne anche solo una parte. Quello che indubbiamente sta ottenendo è di creare molta incertezza, sia per la sua natura ogni giorno più ondivaga che per l’inadeguatezza di un solo mezzo, quello daziario, a perseguire fini disparati e tra loro spesso in conflitto. I danni più duraturi che la guerra commerciale può fare all’economia mondiale non vengono necessariamente dai maggiori dazi, ma dall’incertezza che crea sulla coerenza della politica economica americana e sulle regole del gioco della competizione internazionale. Sono danni che potrebbero permanere a lungo anche dopo l’eventuale fine delle ostilità.

La scrivania dello Studio Ovale ha un nome, la Risoluta (Resolute desk), che ben si adatterebbe all’attitudine di chi la sta occupando. Se non fosse che ha preso il nome e il legno da una nave britannica abbandonata in Artide in seguito a una missione fallita. La nave fu recuperata e restaurata dal governo americano per essere poi inviata come dono alla regina Vittoria dal presidente e dal popolo degli Stati Uniti, in segno di buona volontà e amicizia. A sua volta, la scrivania fu ricavata dal legname della nave quando venne infine demolita e fu donata dalla regina al presidente degli Stati Uniti in memoria della cortesia e dell’amorevole gentilezza che ne avevano dettato il dono iniziale. Così recita la targa bronzea che la decora. Bei tempi di concordia transatlantica.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!