In un mondo sempre più frammentato, nel quale il commercio internazionale ha smesso di crescere, la quota delle esportazioni cinesi sul Pil mondiale continua ad aumentare. A renderlo possibile è un sistema inefficiente, ma dinamico.
Un caso unico nella storia economica
In un celebre lavoro di dieci anni fa Arvind Subramanian e Martin Kessler notavano che l’andamento delle esportazioni cinesi rappresenta un unicum nella storia economica mondiale, mai eguagliato neppure dall’impero britannico al massimo della sua potenza. Infatti, in pochi anni la loro quota sul commercio mondiale era passata da zero al 7,5 per cento (12 per cento nel settore manifatturiero).
Dalla grande crisi finanziaria, tuttavia, molte cose sono cambiate. La Cina è stata sottoposta a tariffe mai applicate, prima dagli Stati Uniti di Donald Trump e Joe Biden poi dall’Unione europea, dal Canada, dall’Australia, dal Giappone e da molti altri paesi occidentali. Sono state imposte o rafforzate sanzioni dirette e indirette a molti altri paesi, tra cui la Russia, l’Iran e l’Afghanistan. I vincoli ai movimenti delle persone e dei capitali sono anch’essi enormemente cresciuti. Gli investimenti diretti sono crollati anche a causa delle tensioni geopolitiche. Il commercio internazionale in percentuale del Pil, pur non avendo conosciuto una caduta, ha smesso di crescere. In altri termini, dopo la grande crisi finanziaria la frammentazione internazionale è enormemente aumentata, mentre l’era della “iper-globalizzazione” è tramontata.
Nonostante la Cina sia al centro di queste guerre commerciali, il “paese di mezzo” è riuscito negli ultimi quindici anni a raddoppiare la sua quota di mercato sulle esportazioni mondiali sino a sfiorare il 15 per cento (e addirittura il 22 per cento nel settore manifatturiero). Sorprendentemente negli stessi anni, a differenza di quanto era avvenuto in precedenza, la quota delle esportazioni sul Pil cinese si è dimezzata, passando dal 71 al 35 per cento. In altri termini, la crescita dell’export non è avvenuta a discapito di quella interna.
In questo scenario il saldo delle partite correnti in percentuale del Pil, dopo essere salito fino al 12 per cento nell’era dell’iper-globalizzazione, oggi è vicino al 2 per cento. Possiamo allora concludere che se l’epoca del mercantilismo sembra essere tramontata, l’eccezionalità cinese continua a protrarsi.
L’eccezionalità è ulteriormente confermata da un recente lavoro del Cepii (Centre d’Études Prospectives et d’Informations Internationales), dove si mostra come la Cina detenga una posizione dominante, definita da una quota di oltre il 50 per cento del mercato mondiale delle esportazioni, su quasi 600 prodotti (su circa 5mila considerati). Questa posizione è almeno sei volte tanto quella degli Stati Uniti, del Giappone e doppia di quella dell’Unione europea considerata nel suo insieme.
Lo sviluppo dell’alta qualità
Al di là di una crescente inaffidabilità dei dati, la straordinaria crescita delle esportazioni cinesi pare una conferma della persistente competitività del paese, raggiunta anche grazie ai sussidi e stimoli pubblici diretti e indiretti.
Siamo allora lontani da una “economia pianificata centralmente”, ma in un mondo che Yuen Yuen Ang ha definito di “improvvisazione direttiva”, in cui i leader centrali segnalano le loro priorità, mentre la vasta burocrazia del paese, composta da ministeri e governi locali, interpreta e agisce su questi segnali in base a incentivi politici.
Xi Jinping ha peraltro chiarito che intende promuovere una nuova economia incentrata sullo “sviluppo di alta qualità”, vale a dire sull’innovazione high-tech. Di qui la nascita di ben 450 fabbriche di vetture elettriche che operano al 20 per cento della loro capacità produttiva, il moltiplicarsi di brevetti spesso “spazzatura”, la caduta del venture capital, ma anche il rientro in patria di migliaia di scienziati e di una fiera competizione che finisce per creare campioni nazionali, nonché la conquista di nuovi mercati di sbocco delle esportazioni nei paesi emergenti.
In questa ottica, si spiegano anche le reticenze a rilanciare la vecchia economia delle industrie inquinanti, degli investimenti infrastrutturali e della speculazione immobiliare, che ha contribuito a far uscire il paese dalla povertà e ora rischia di mandarlo in deflazione.
Qualcuno pronostica che la Cina seguirà la stessa parabola del Giappone con l’invecchiamento della popolazione e la crescita dei salari, la perdita di competitività e l’ascesa del settore dei servizi che toglierà spazio a quello manifatturiero, il venir meno del mercato americano e via elencando.
Può darsi. Per il momento inefficienza e dinamismo convivono e non finiscono di sorprenderci.
Figura 1 – Quota di mercato delle esportazioni cinesi sulle esportazioni mondiali, sul Pil cinese e saldo delle partite correnti sul Pil
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Carmine Meoli
Siamo in presenza di una “pianificazione della carezza”. Facendo tesoro della causa del crollo russo , i Cinesi hanno affidato alla “carezza” l’adesione agli obiettivi collettivi e al dumping sociale la capacità di esportare . Riuscirà XI a incrementare l’ export con produzioni innovative ? Sembra di si !
Marco
Certo che sì, o almeno dirà che ci riesce finchè ci sarà qualcuno che gli crede. Dover leggere da un professore universitario “al di là di una crescente inaffidabilità dei dati” come se fosse un dettaglio da poco fa veramente cascare le braccia. Dà una buona misura del pressapochismo che regna sovrano in Italia. Anche la Grecia dichiarava parametri macro confortevoli, finchè non si è “scoperto” che erano del tutto fasulli. Ci avviamo sullo stesso percorso, inseguendo sogni cinesi?
Nik
I dati reali che sono sotto gli occhi di tutti parlano di un crollo del 30% di capitalizzazione in borsa delle aziende Cinesi , una crescita stentata , un mercato immobiliare che collassa insomma il dato dell’esportazioni contrasta se veritiero sulla situazione attuale .
lorenzo
L’unica certezza è la sempre più evidente spaccatura a suon di dazi e tariffe che non porterà a nulla di buono.