Per avere più uniformità su diritto societario, procedure concorsuali, diritto del lavoro e disciplina fiscale, la Commissione ha proposto l’istituzione di un nuovo regime societario, in alternativa a quelli nazionali. Rischia di essere controproducente.
Il ventottesimo regime nel Rapporto Draghi e nel Rapporto Letta
La Bussola per la competitività pubblicata di recente dalla Commissione europea, sulla scorta di alcune proposte contenute nel “Rapporto Draghi” e nel “Rapporto Letta”, propone di introdurre un “28° regime”, che le imprese potrebbero scegliere al posto delle disposizioni nazionali. Il termine, evocativo, rinvia all’idea di aggiungere un’ulteriore opzione alle norme dei 27 stati membri. Lo scopo dovrebbe essere di assicurare più uniformità in materia di diritto societario, procedure concorsuali, diritto del lavoro e disciplina fiscale. Ma ha senso una simile proposta?
Nonostante si tratti di una proposta solo abbozzata e dai contorni poco chiari, non si può negare che la fantasia degli ingegneri istituzionali europei è sempre piuttosto fervida.
Secondo il Rapporto Letta, in particolare, occorrerebbe proporre un “European Business Code” opzionale (ossia, appunto, il 28° regime) che, oltre a prevedere un nuovo tipo societario “semplificato”, affronti le seguenti materie: diritto commerciale generale, diritto del mercato, e-commerce, diritto societario, diritto dei mercati finanziari, procedure esecutive, diritto fallimentare, diritto bancario, proprietà intellettuale, diritto del lavoro e fiscalità d’impresa. In definitiva, il nuovo “codice” sarebbe in realtà un nuovo ordinamento giuridico omnicomprensivo, che le imprese potrebbero scegliere in via opzionale.
Più prudente si mostrava il Rapporto Draghi, il quale suggeriva di esplorare forme di cooperazione rafforzata tra alcuni stati membri su “aspetti-chiave” del diritto fallimentare, societario, fiscale e del lavoro.
Il progetto contenuto nella Bussola, comunque, accoglie l’idea del “28° regime” opzionale, nelle materie indicate dal Rapporto Letta, limitandolo alle start-up innovative e alle società che intendano compiere un “salto di scala” dimensionale. L’obiettivo è di incrementare l’innovatività del sistema economico europeo e il tasso di produttività di capitale e lavoro, agevolando anche l’attività di fondi di venture capital in Europa. La scarsità degli investimenti in capitale di rischio sembra essere, infatti, uno dei punti di debolezza del sistema economico europeo.
Si tratta di una soluzione possibile?
L’armonizzazione degli ordinamenti societari
Sul piano del diritto societario, a partire dal 1968 l’Unione europea ha condotto un’opera molto complessa di armonizzazione delle discipline nazionali. Tralasciando il problema, molto dibattuto, di quale sia l’impatto reale delle direttive (secondo alcuni limitato, se non nullo), il punto di partenza dell’armonizzazione è che spetti agli ordinamenti nazionali disciplinare le questioni di diritto societario.
L’unico tentativo di creare un regime unitario sono stati i due regolamenti sulla società europea e sulla società cooperativa europea: questi sono davvero “ventottesimi regimi”, nel senso che società per azioni o cooperative già esistenti, a certe condizioni, possono trasformarsi in uno dei tipi societari interamente di diritto della Ue. Quei regolamenti, però, rinviano quasi integralmente alle discipline nazionali sulle società per azioni e le cooperative, quindi non rappresentavano “regimi” alternativi a quelli domestici, bensì veicoli atti ad aggirare i limiti esistenti allora alla mobilità delle società, limiti poi superati grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia e alla direttiva sulle operazioni transfrontaliere.
Il potere dell’Unione europea, però, non è illimitato e dipende da specifici articoli del Trattato: le direttive di armonizzazione si fondano sull’art. 50, che consente di adottare, con procedura legislativa ordinaria, direttive di armonizzazione dei diritti nazionali al fine di realizzare la libertà di stabilimento. Viceversa, il regolamento sulla “società europea” si fonda sull’articolo 352 (ex 308 Tce), che attribuisce al Consiglio il potere di decidere azioni necessarie a realizzare un obiettivo del trattato senza che sia previsto un potere specifico. Lo stesso dovrebbe essere il fondamento giuridico del futuro “ventottesimo regime”, con la conseguenza che il regolamento dovrà essere approvato all’unanimità degli stati membri, su proposta della Commissione e dietro delibera del Parlamento. Un meccanismo lungo e complesso, che si giustifica per l’assenza di un potere della Ue in materia e che, quindi, produrrà necessariamente risultati compromissori e lacunosi (come fu il regolamento sulla “società europea”).
Nell’Unione europea è inevitabile (e forse persino sano) che sussistano diversi diritti societari, i quali, peraltro, già si stanno progressivamente avvicinando tra loro, grazie a un processo molecolare di “mutuo apprendimento” tra stati membri (più efficace delle direttive di armonizzazione). E se gli organi dell’Unione europea riscontrassero che alcuni ordinamenti societari hanno caratteristiche chiaramente d’ostacolo a investitori istituzionali e venture capital, potrebbero benissimo – e più agevolmente – intervenire con direttive di armonizzazione specifiche, invece di proporre un grandioso e forse irrealizzabile diritto societario completo e alternativo.
Procedure concorsuali e diritto del lavoro
Riguardo al diritto fallimentare i dubbi sono ancora più grandi. Le procedure concorsuali, infatti, sono legate all’ambiente giuridico e sociale in cui l’impresa insolvente opera, perché redistribuiscono tra stakeholder locali risorse che sono per definizione “scarse”. Le procedure concorsuali, quindi, non possono essere scollegate da istituti domestici, quali la protezione sociale e assicurativa del lavoro o i privilegi sui crediti. Questo spiega perché sia estremamente difficile armonizzare le procedure concorsuali a livello europeo. Quel che è stato uniformato è il criterio per individuare il giudice nazionale competente e la legge applicabile, criterio che dal regolamento del 2000 (confermato in un regolamento rifusione del 2015) è il centro degli interessi principali del debitore. In altri termini, è competente il paese dove si trova il “centro” dell’attività imprenditoriale, perché lì si trovano i principali stakeholder dell’impresa. Questo criterio marca una differenza significativa con il diritto societario, rispetto al quale, grazie alle libertà di stabilimento, società costituite in qualsiasi stato membro possono operare in tutto il territorio della Ue con le regole societarie del paese prescelto in origine (mentre l’eventuale insolvenza verrebbe governata dal paese in cui si trova il centro degli interessi, che potrebbe essere diverso dal paese di costituzione).
Un discorso ancor più esplicito merita il diritto del lavoro, che è governato sempre dalle norme del paese in cui si svolge la prestazione lavorativa, per evitare che le tutele del lavoro vengano aggirate e si produca un’inaccettabile corsa al ribasso tra stati membri. Pertanto, non avrebbe senso, né sarebbe politicamente sostenibile, creare un “ventottesimo regime”, applicabile a tutta la Ue, in balia delle scelte dell’impresa.
Un problema di legittimazione e democrazia
Il ventottesimo regime, quindi, non è un progetto davvero realizzabile nelle forme previste dai documenti della Ue. Naturalmente, questo non significa che i problemi individuati dal Rapporto Draghi, dal Rapporto Letta e dalle analisi compiute dagli organi della Ue non siano corrette ed è anche possibile che una maggiore uniformità normativa in alcuni settori possa favorire la creazione del mercato unico e, quindi, aumentare produttività e innovazione a livello europeo. Ma questi obiettivi richiedono operazioni chirurgiche e specifiche, che tengano conto anche dei complessi rapporti tra stati membri e della natura della Ue, che non è uno stato sovrano, ma un’unione di Stati, sia pure di tipo “nuovo” e molto integrato.
Inoltre, nella logica della Bussola per la competitività, sarebbe in mano alle imprese la scelta se optare per il “ventottesimo regime” o restare ancorate alle leggi nazionali (e ai comuni criteri di selezione della legge applicabile). Le imprese, in altri termini, avrebbero il potere di scegliere le norme applicabili non solo ai loro rapporti interni (il diritto societario) o a questioni contrattuali, ma anche regole che coinvolgono gli interessi di altri corpi sociali, quali lavoratori, clienti, fornitori e la collettività nel suo complesso. Questa soluzione solleva un problema di legittimazione politica e, quindi, di democrazia, perché regole che coinvolgono la collettività sarebbero in balia di uno solo degli attori, ossia l’impresa.
In sintesi: la crescita europea e il mercato unico sono obiettivi importantissimi che non possono essere affidate a slogan a effetto (come il “ventottesimo regime”) che rischiano, al contrario, di essere solo controproducenti.
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Savino
Chi commenta negativamente trova normale che abbiamo la stessa moneta quasi tutti, stesso ordinamento comunitario tutti, ma ordinamenti commerciali, fiscali, giuslavoristici, di diritto industriale, di procedure bancarie, fallimentari e di informatica applicata al commercio diversi?