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Europa: ecco le nuove regole fiscali*

La Commissione europea ha presentato la proposta di riforma delle regole fiscali. Sono differenziate e chiedono ai paesi ad alto debito di presentare un piano pluriennale di rientro. Danno più rilievo alla crescita. Ma resta il problema del rispetto delle norme.

Una riforma necessaria

Alla fine, la Commissione ce l’ha fatta e a quasi un anno dalla conclusione del dibattito pubblico sul tema ha presentato la sua proposta di revisione della governance economica dell’Unione europea, comprensiva di una riforma delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita. Alla buon’ora, perché a gennaio 2024 la clausola di sospensione del Patto, introdotta nel marzo 2020 a seguito della pandemia, verrà revocata e i governi europei devono sapere già dal prossimo anno, al momento di iniziare la programmazione di bilancio per il 2024, che cosa la Commissione si aspetta da loro. Ma alla buon’ora anche perché le regole fiscali sono difficilmente riattivabili nella forma attuale, dopo lo shock pandemico e alla luce della situazione economica odierna.

Dietro il ritardo, c’è il tentativo di trovare l’accordo unanime dei paesi europei sulla riforma. Quanto la Commissione ci sia riuscita non è ancora chiaro e si vedrà solo nei prossimi mesi, quando il progetto (per il momento è solo una “comunicazione”, priva di molti dettagli attuativi) verrà trasformato in una serie di proposte legislative che dovranno essere approvate dal Consiglio e dal Parlamento europeo.

I problemi

Per discutere la proposta della Commissione, è utile partire da quelli che sono i problemi che una riforma delle regole fiscali europee deve necessariamente affrontare. In primo luogo, deve porre al centro la sostenibilità del debito pubblico dei paesi membri, un tema che oltretutto ritorna prepotentemente alla ribalta per via dell’incremento nei tassi di interesse. Questo fa subito drizzare le orecchie agli italiani ma è inevitabile: una crisi del debito in un paese membro non sarebbe devastante solo per quel paese (e per i suoi cittadini), per il contagio finanziario avrebbe effetti pesanti anche su tutti gli altri, in particolare per quelli che condividono la stessa moneta. Ovvio che il tema resti centrale. Ma, e questo è il secondo punto, la riduzione del debito non può avvenire a scapito della crescita e dunque della capacità di un paese di investire, soprattutto alla luce degli enormi impegni finanziari che saranno necessari per affrontare le sfide del futuro, a cominciare da quella climatica. Infine, la riforma deve rispettare una logica di ugual trattamento tra i paesi, senza dare l’impressione che le regole valgano solo per alcuni e non per altri.

Le regole attuali

Le regole attuali, riviste dopo la crisi dell’euro nel 2011-2013, danno peso essenzialmente al primo e al terzo obiettivo. Regole identiche per tutti, ma focalizzate solo sul tema della sostenibilità del debito, tramite l’imposizione di una lunga lista di vincoli quantitativi su diversi aggregati di finanza pubblica: sul disavanzo (il famoso 3 per cento del Pil), sul deficit strutturale (cioè sul disavanzo al netto del ciclo, con un avvicinamento annuale predeterminato verso il cosiddetto medium term objective, essenzialmente il pareggio di bilancio), sulla spesa “netta” e sul percorso di riduzione del debito su Pil (un ventesimo all’anno della differenza tra il debito su Pil attuale rispetto al target del 60 per cento). Il secondo obiettivo viene invece lasciato alle scelte autonome dei singoli paesi, al massimo con la concessione di “clausole di flessibilità”, in sostanza rallentamenti nel percorso di aggiustamento, per tener conto di riforme strutturali, investimenti, ed eventi inattesi.

Nel periodo in cui l’attuale Patto di stabilità e crescita è stato in vigore, non ha funzionato granché, anche perché mal congegnato fin dall’inizio, con un eccessivo peso dato a variabili non osservabili (il famoso “output gap” sulla cui base si calcola il deficit strutturale) e per la moltiplicazione di regole diverse non coerenti tra di loro. Il risultato è stato una perdita di trasparenza del sistema e una concentrazione eccessiva sul bilancio annuale, per la necessità che i vincoli quantitativi venissero rispettati anno su anno. Sul piano dei risultati economici, le regole non hanno impedito che la politica fiscale rimanesse largamente pro-ciclica e che l’aggiustamento fiscale avvenisse soprattutto sul lato degli investimenti, in forte caduta in tutta Europa nella decade precedente la pandemia.

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La proposta della Commissione

La Commissione prova ora a cambiare registro, proponendo un sistema meno meccanico, più growth friendly e più legato alle diverse esigenze nazionali. Le regole vengono dunque differenziate sulla base della situazione della finanza pubblica nei diversi paesi, proponendo in sostanza uno scambio tra regole più incisive per i paesi ad alto debito, cioè quelli che presentano più rischi per sé stessi e per gli altri (il club mediterranee, i sei paesi europei meridionali con un rapporto debito su Pil superiore al 90 per cento) e un’applicazione più graduale e più in linea con le aspirazioni dei singoli paesi.

Specificamente, il nuovo modello assume che, sulla base di indicazioni quantitative generali provenienti dalla Commissione, ciascun paese ad alto debito formuli un proprio piano di rientro dal debito su base quadriennale, che può essere portato a sette anni se il paese si impegna a introdurre riforme e investimenti pro-crescita. Il piano viene analizzato dal fiscal board nazionale (l’Ufficio parlamentare di bilancio in Italia) e dalla Commissione; se supera l’esame, passa al Consiglio che l’approva definitivamente. In questo modo, ciascun paese prende un impegno politico esplicito nei confronti dei partner nel portare avanti il piano. Di interesse è anche il fatto che la valutazione della validità del Piano da parte della Commissione non viene più legata esclusivamente al raggiungimento di un particolare livello del rapporto debito su Pil, ma sul fatto che questo rapporto, quando eccessivo, si mantenga per il prevedibile futuro su un percorso decrescente, un concetto di sostenibilità sicuramente più adeguato alla realtà. Il piano nazionale può essere modificato nel corso del tempo, ma solo di fronte a shock imprevisti particolarmente rilevanti e previa approvazione da parte del Consiglio.

Da un punto di vista operativo, il piano prende la forma di un impegno a contenere la crescita della spesa pubblica, al netto di tutti quegli elementi che non sono sotto il diretto controllo del governo (spese per interessi e per il ciclo, cioè gli stabilizzatori automatici) e di eventuali aumenti nella pressione fiscale. La Commissione valuta annualmente la variazione di questa spesa “netta”, e solo di questa (non ci sono dunque più vincoli europei sul bilancio strutturale né c’è più bisogno di calcolare l’“output gap”) ma, a meno di “grossi errori”, cioè ampie deviazioni rispetto agli obiettivi, non impone modifiche ai paesi. Quello che conta è che nell’ambito del periodo di programmazione si raggiungano i risultati previsti, non l’evoluzione annuale del bilancio. La programmazione di bilancio diventa dunque di fatto pluriennale, come dovrebbe essere per poter portare avanti politiche economiche di respiro.

Due ulteriori aspetti devono essere segnalati. In primo luogo, la Commissione non propone modifiche – comunque assai difficili da introdurre perché richiederebbero modifiche ai Trattati – alla regola del 3 per cento per il disavanzo (che resterebbe come è adesso e che sarebbe vincolante per tutti i paesi) e all’obiettivo del 60 per cento per il rapporto debito su Pil. Il mantenimento della prima regola non è controverso, quella della seconda sì, sia per l’arbitrarietà del numero sia perché la soglia potrebbe spingere i paesi europei nel loro complesso a politiche deflazionistiche. Va però osservato che la comunicazione della Commissione si concentra in realtà sui paesi ad alto debito; non è chiaro quanto stringenti davvero siano le regole per gli altri. In secondo luogo, la proposta include nella riforma anche la Mip (Macroeconomic Imbalances Procedure), che finora era rimasta un po’ in disparte, essendo scollegata dalle regole fiscali e priva di un meccanismo sanzionatorio efficace. Di qui in avanti se un paese viola i criteri macroeconomici, la correzione dovrebbe essere inserita nel Piano ed avere lo stesso impianto sanzionatorio, un elemento potenzialmente utile per una governance economica dell’Unione che non si esaurisca nella sola finanza pubblica.

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Funzionerà?

La proposta è sicuramente più ragionevole del sistema delle regole attuali e costruisce su quelle analoghe che nel frattempo sono state avanzate da parte di singoli studiosi e di organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale e l’European Fiscal Board. È evidente anche il legame della proposta con l’esperienza della recovery and resilience facility (Rrf); come in quel caso, ai paesi è richiesto, all’interno di una cornice indicata dagli organismi europei, di proporre un proprio piano di intervento, che dunque tenga conto delle esigenze nazionali. L’idea è che in questo modo il processo di correzione del debito, invece che essere percepito come imposto da Bruxelles, sia vissuto come un impegno nazionale, che in teoria dovrebbe coinvolgere, per la durata quadriennale o settennale del piano, sia il governo in carica al momento che l’opposizione. C’è dunque implicita anche una scommessa sulle capacità dei paesi ad alto debito di ancorarsi a politiche economiche coerenti con l’obiettivo, indipendentemente dai governi in carica. 

Ma nel parallelismo con l’Rrf sta anche il limite più evidente della proposta; nel caso dei Piani nazionali di ripresa e resilienza sono le risorse europee che da un lato garantiscono il rispetto del Patto da parte dei paesi e dall’altro legittimano il controllo stretto della Commissione sui comportamenti dei governi. Nel caso del piano di rientro dal debito, le sanzioni finanziarie (un po’ ridotte) restano sostanzialmente quelle attuali (mai applicate in realtà), con in aggiunta l’aspetto reputazionale derivante dall’impegno esplicito preso da un paese nei confronti del Consiglio. Bisogna vedere se ciò sarà sufficiente a convincere i paesi più restii alla riforma che questa sia in effetti attuabile o non si risolva piuttosto in un rinvio infinito del processo di aggiustamento da parte degli stati con alto debito. Non a caso sia la proposta del Fmi che dell’Efb, a differenza di quella della Commissione, immaginano un ampliamento delle risorse comuni europee su cui si innesta un sistema sanzionatorio più rigido. A un accresciuto bilancio europeo verrebbero affidati compiti di finanziamento di politiche europee comuni e di supporto alla gestione del ciclo, con risorse che tuttavia verrebbero perdute se un paese non rispetta il piano proposto.

* Le opinioni espresse sono personali e non riflettono necessariamente quelle dell’istituto di appartenenza.

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Fabio Ranchetti, filosofo ed economista*

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Il Punto

  1. Savino

    Non è data una risposta definitiva sul fatto se sia vitale rispettare strettamente le regole o si possa fare debito (quasi)in libertà. Nella prima ipotesi, l’Italia avrebbe problemi serissimi e dovrebbe rifare completamente la struttura della spesa pubblica. Nella seconda ipotesi, ci sarebbe l’opportunità per delineare un welfare nuovo, mirato ai bisogni effettivi al posto dell’assistenzialismo generalizzato odierno.

  2. Maurizio Cortesi

    Non sarebbe meglio pianificare la parziale mutualizzazione del debito- parziale per noi e gli altri grossi debìtori in valore assoluto, per stock piccoli come quelli di Portogallo e Grecia si potrebbe anche essere più radicali- per creare un grande mercato di titoli europei che rivaleggi con quello dei T-bonds, e in contropartita fissare regole più stringenti e soprattutto più cogenti? Ho sempre più netta l’impressione che il punto di convergenza tra populisti e progressisti, tra patrioti e globalisti sia proprio la distruzione della moneta come istituzione ordinatrice ed equilibratrice, ben più importante e costituzionale dei tanti ministeri nazionali e dei direttorati comunitari con i loro piani pluriennali “verso il sol dell’avvenire “.

  3. Henri Schmit

    Più che norme sono obiettivi, e nuovi paletti indicativi per inquadrare la procedura coordinamento (differenziata per situazione di partenza) fra Commissione e paese membro in modo da concordare un piano (altri obiettivi) nazionale di previsione e di politica eco-fin convergente con gli obiettivi degli altri paesi membri dell’euro/zona. Non funzionerà meglio del PSC esistente perché la Commissione può formulare suggerimenti di politica eco-fin nazionale, ma non può obbligare il governi nazionali a realizzare determinate riforme. Il nuovo governo italiano supportato da una maggioranza composita che fino a pochi anni fa era interamente anti-europea anti-euro e/o euro-scettica insisterà più di coloro che l’hanno preceduto sulla sovranità nazionale in particolare in materia di riforme eco-fin (fra cui il sistema fiscale) e meno si piegherà ai buoni consigli della Commissione. La nuova formulazione del PSC non cambierà nulla da questo punto di vista. 20 anni di appartenenza all’euro-zona, di discussioni interne spesso demagogiche e incoerenti con i requisiti dell’euro-zona, la deviazione dai veri obiettivi causata dalle vane polemiche anti-euro e euroscettiche non permettono all’opinione pubblica e ai dirigenti politici di riconoscere i veri interessi nazionali all’interno dell’Ue e dell’eurozona. Al paese servirebbe (da almeno 25 anni) un consenso su Ue, euro e priorità di politica eco-fin , una prospettiva lunga (+certezza, prevedibilità) per gli investimenti privati e i FDR. Se ci fosse questo consenso ci sarebbero ancora abbastanza materie per litigare, fare campagna elettorale e ingannare la gente.

    • Stefano

      Purtroppo qui si continua a dire bugie alla gente.
      L’Italia è entrata nell’euro con un rapporto debito pubblico/PIl del 109% (quando Francia e Germania erano sotto il 60%) per colpa dei c,d, padri della nazione che volevano fruire della riduzione dei tassi di interesse (pensando ci fossero pranzi gratis).
      Poi hanno dovuto adottare politiche restrittive che hanno portato a ridurre il nostro debito pubblico prima della crisi mondiale della Lehman Borthers a 103% (mentre Francia e Germania erano salite a 65%).
      Dopo la crisi del 2008 l’Italia è salita a 130%, la Francia a 98%, mentre la Germania è scesa a 58%.
      Con la pandemia covid-19 tutti sono saliti: Italia al 150% , Francia al 112%, Germania a 69%,
      Peraltro questi dati sono influenzati dagli interventi strutturali per salvare l’economia, senza di quelli non avremmo avuto alcun rimbalzo economico.
      L’italia tra il 1990 ed il 2019 ha registrato 26 avanzi primari (entrate superiori alle uscite, esclusa la spesa interessi) su 30 anni…
      Ed ancora nel 2022 si chiedono ulteriori misure restrittive per l’Italia??

  4. Henri Schmit

    Allego un’interessante analisi tedesca di varie ipotesi per modificare il PSC che circolavano prima della pubblicazione della proposta della Commissione: https://buff.ly/3DNS5yD. Il problema (dal punto di vista italiano è europeo) comunque non è tecnico, ma di volontà e capacità politica.

  5. Andrea Zatti

    Una questione tecnica: siamo sicuri che per calcolare la spesa netta non serva l’output gap?
    Come calcoliamo la parte di flessibilità automatica?

    • “Una questione tecnica: siamo sicuri che per calcolare la spesa netta non serva l’output gap?
      Come calcoliamo la parte di flessibilità automatica? ”
      Scrive Andrea Zatti
      Teoricamente l’osservazione è giusta, peccato che praticamente è impossibile accertare in via preventiva i livelli massimi di crescita sostenbili da una certa realtà economica al netto degli effetti del ciclo .
      Sta di fatto che in passato il pil potenziale veniva calcolato su base statistica, in base ai pil degli anni precedenti e al loro livello di crescita . Questo imponeva naturalmente una regola assurda per cui al paese che più aveva problemi finanziari e bassa crescita per farvi fronte, veniva imposto il massimo delle regole di contenimento del deficit pubblico. In questa modo, che economicamente si definisce prociclico, si affondavano le realtà economiche come stava avvenendo nei famosi periodi dell’austerity, prima delle pandemia, che ha portato alla sopensione del PSC e di tutte quelle sue regole malsane colegte e successive tra le quali svettava l’output gap.

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