Tar e Commissione europea hanno messo paletti all’esercizio dei poteri speciali nell’operazione Unicredit-Banco Bpm. Più in generale, l’eccessivo interesse dei governi nazionali per le banche contrasta con la costruzione di un mercato unico dei capitali.

La parola ai giudici italiani

La seconda puntata del golden power in salsa italiana potrebbe aprirsi con la classica frase “l’avevo detto”: i traballanti presupposti del provvedimento relativo all’operazione Unicredit-Bpm, già chiari al momento della sua adozione, non sono riusciti a passare indenni il vaglio della giurisprudenza e, soprattutto, quello comunitario.

Del golden power esercitato dal governo italiano si occupano infatti due provvedimenti molto lunghi e complessi: una sentenza del Tar del Lazio e una lettera della Commissione europea. Naturalmente, meritano approfondimenti e riflessioni che lo spazio di un breve articolo non consente, ma è comunque possibile cogliere il significato generale e il filo conduttore che li lega.

I giudici del Tar, in una sorta di “pari patta”, riconoscono, in coerenza peraltro con gli orientamenti già manifestati nel passato, l’amplissima discrezionalità del governo nell’esercizio dei poteri speciali. Discrezionalità sindacabile soltanto sotto il profilo della “manifesta illogicità” o della inesistenza o incongruità della motivazione. Usando questi parametri, pongono paletti temporali a due delle condizioni previste dal decreto governativo, quella del rapporto depositi-impieghi e quella relativa al portafoglio di project finance. Non ravvisano, invece, alcuna irregolarità sulle altre due. Il passaggio però più importante è il riconoscimento della legittimità del golden power a salvaguardia della sicurezza e dell’ordine pubblico, sicurezza che si qualifica anche come sicurezza economica per tutelare interessi di carattere strategico, nel novero dei quali, dicono i giudici, vi sono “operazioni direttamente coinvolgenti la tutela del risparmio nazionale e con esso, la erogazione del credito verso settori e/o bacini di utenza ritenuti, con apprezzamento invero indenne  da mende, affatto rilevanti come le piccole e medie imprese e le famiglie”.

Se mi è consentita una digressione personale, ricordo quando agli studenti di diritto bancario insegnavamo che con l’approvazione – all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso – del Testo unico bancario era definitivamente finita in soffitta la vocazione dirigistica e totalmente discrezionale della vecchia e longeva legge bancaria del 1936. La sensazione che si ricava da queste parole è che ora quella vocazione stia rientrando dalla finestra, attaccata al vagone dei poteri speciali, con l’arbitro che può anche indirizzare il tipo di gioco più gradito.

La parola alla Commissione europea

Sensazione confermata dalla ben più severa e chiara comunicazione della Commissione, che partendo in premessa dalla necessità di promuovere un mercato interno ancora troppo frammentato, fa propria una interpretazione esattamente opposta, sempre in coerenza con la giurisprudenza comunitaria, della nozione di sicurezza pubblica, intesa, in senso restrittivo, solo come una “minaccia effettiva e sufficientemente grave ad un interesse fondamentale della società”. Secondo la Commissione, quindi il governo italiano ha violato i canoni comunitari anche perché ha omesso (e forse si capisce perché) ogni previa comunicazione.

Ma fra i tanti profili che meriterebbero molto più di un rapido sguardo, uno è di particolare importanza. La Commissione, infatti, richiama il fatto che se le prescrizioni del golden power sono giustificate “sulla base di considerazioni relative ai rischi relativi alla condotta di un ente creditizio”, inevitabilmente vanno a finire nel campo dei controlli prudenziali e quindi incidono sulle competenze delle autorità di vigilanza (in questo caso la Bce): una pericolosa confusione che configura una violazione del Trattato sull’Unione europea.  

Guardando al futuro

È ancora presto per conoscere gli esiti finali del golden power all’italiana, che oltretutto si intreccia e interferisce con le regole di mercato che governano le procedure delle offerte pubbliche, sia perché le parti possono ricorrere a un secondo grado di giurisdizione, sia perché il governo dovrà rispondere ai puntigliosi rilievi della Commissione, È però evidente che gli incontenibili desideri dei diversi stati europei (il nostro paese è in buona compagnia) stanno di fatto diventando incompatibili con le strategie comunitarie volte a costruire un forte ed efficiente mercato unico con altrettanto forti ed efficienti operatori transfrontalieri.

Bisogna allora decidersi: o si conservano discipline della allocazione dei diritti proprietari fondate sulle giurisdizioni nazionali ed esposte agli umori del governo di turno (ma allora bisogna avere la consapevolezza che tutte le belle parole dei vari rapporti Letta e Draghi e gli impegni sulla Unione dei capitali corrono il rischio di rimanere, appunto, belle parole), oppure si intraprende una coraggiosa strada di riforme. Le opzioni possono essere diverse, da una più attenta e rigorosa definizione del perimetro e dei presupposti del golden power, in una logica di trasparenza che riduca sensibilmente lo spazio discrezionale, fino a quella recentemente proposta dal documento programmatico della Associazione delle società per azioni (Assonime) di eliminarlo completamente per gli acquisti di partecipazioni di operatori comunitari e nazionali tranne che per i settori della difesa e della sicurezza nazionale: una sorta di ritorno alle origini.

Vi sono però due aspetti dai quali un percorso di riforma non può prescindere: il primo riguarda il fatto che le possibilità di successo risiedono solo e soltanto in uno forzo comunitario che omogeneizzi i singoli ordinamenti. Nessun paese, infatti, modificherà le carte in tavola se non in una logica di reciprocità, perché ciascuno vorrà proteggere i propri campioni nazionali, anche se poi sul piano internazionale finiscono tutti in serie B.

L’altro aspetto lo ha scolpito bene la comunicazione della Commissione e riguarda il confine oggettivamente molto labile tra le condizioni che i poteri speciali possono imporre e i parametri di vigilanza previsti dalla disciplina speciale. In altri termini, quella disciplina trova la sua ragion d’essere nel fatto che le banche non sono imprese come le altre e necessitano di sistemi di tutele e protezioni particolari che debbono prevalere su ogni altra istanza. È anch’essa una delle prime cose che si insegnano agli studenti, ma spesso la si dimentica. Se quindi è necessario cambiare le regole del gioco, un ruolo fondamentale occorre attribuirlo alla autorità di controllo. I poteri speciali sono troppo speciali per lasciarli solo nelle mani dei governi.

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