Trump invoca il taglio dei tassi di interesse Usa. Ma tra inflazione, pressioni sui rendimenti a lunga scadenza e disavanzo pubblico crescente, una politica monetaria espansiva rischia di ottenere l’effetto opposto. In gioco anche la credibilità della Fed.

Perché Trump vuole tassi di interesse più bassi

Donald Trump continua a esercitare forti pressioni sulla Federal Reserve affinché riduca i tassi di interesse. Ammettiamo, per un attimo, che si tratti di una posizione formulata in buona fede. Nella visione a dir poco semplicistica del presidente, abbassare i tassi di interesse aiuterebbe a contenere l’inflazione, intesa genericamente come “costo della vita”. Minori tassi, in particolare, ridurrebbero le rate dei mutui contratti da famiglie e imprese, alleggerendo il peso dei pagamenti mensili e quindi – secondo questa logica – migliorando il benessere delle famiglie.

A dire il vero, questa visione, per quanto errata, riflette una percezione diffusa nell’opinione pubblica. Ricerche recenti evidenziano come molti individui associno tassi d’interesse più bassi a una minore inflazione, avendo presumibilmente in mente proprio l’effetto di mutui più leggeri sul costo della vita. Si tratta però di un’illusione ottica. L’unica eccezione nel panorama mondiale è il Canada, il cui indice generale dei prezzi include il “mortgage interest cost”, ovvero il costo per l’interesse ipotecario.

La ricerca economica ha da tempo dimostrato che il legame tra tassi di interesse e inflazione è, in realtà, inverso: tassi più bassi stimolano la domanda aggregata – attraverso maggiori consumi e investimenti – generando, con un certo ritardo, una pressione al rialzo sui prezzi. In altre parole, ridurre i tassi di interesse alimenta l’inflazione, non la frena.

Non è tutto. È importante distinguere la natura dei tassi di interesse: a breve o a lungo termine? I tassi rilevanti per il costo dei mutui sono quelli a lungo termine, su scadenze di 10 o 20 anni. Il paradosso, quindi, sta proprio nella richiesta di Trump: spingere oggi per una riduzione dei tassi a breve termine (quelli controllati dalla Fed) non farebbe che innescare aspettative di inflazione più elevate. Quando i mercati interpretano una politica monetaria espansiva come segnale di tolleranza verso l’inflazione, le famiglie anticipano gli acquisti, le imprese aumentano i prezzi e gli investitori, per prestare a lungo termine, chiedono un premio per il rischio di inflazione più alta. Il risultato è un aumento dei tassi a lungo termine, cioè proprio quelli che determinano il costo dei mutui, delle decisioni di spesa per beni durevoli (come le automobili) e degli investimenti produttivi.

La politica economica Usa e le aspettative d’inflazione

Il meccanismo è ancora più marcato nell’attuale contesto dell’economia statunitense. I prezzi di molti beni importati hanno invertito il trend e sono oggi in aumento a causa della politica dei dazi introdotta da Trump, da ultimo quelli applicati all’Unione europea. La figura 1 mostra, ad esempio, l’andamento crescente dei prezzi di alcuni prodotti per la casa importati a partire dall’elezione di Trump. L’inflazione importata che ne deriva spinge ulteriormente verso l’alto il livello generale dei prezzi, alimentando aspettative di inflazione già elevate. Non solo, ma i dati dei primi due trimestri del 2025 ci dicono che al netto delle componenti volatili l’economia americana ha continuato a espandersi e il tasso di disoccupazione rimane storicamente basso al 4,2 per cento (anche se dagli ultimissimi dati sul mercato del lavoro l’economia statunitense sembra rallentare; ciò è però coerente appunto con la natura dei dazi come shock dal lato dell’offerta, ossia che fa crescere i prezzi ma rallenta la crescita). Entrambi questi fattori esercitano pressione al rialzo sull’inflazione.

Va anche ricordato che negli ultimi 52 mesi l’inflazione non è mai tornata al target del 2 per cento e la componente di fondo è ancora oggi vicina al 3 per cento, con il rischio si muova ben sopra questo livello nei prossimi mesi. Ma soprattutto le aspettative di inflazione a lungo termine delle famiglie sono cresciute notevolmente a partire dall’elezione di Trump. La figura 2 illustra chiaramente questo effetto.

In questo scenario, una riduzione dei tassi da parte della Fed non solo risulterebbe inefficace, ma rischierebbe di aggravare ulteriormente le tensioni inflazionistiche, spingendo ancora più in alto i tassi di interesse a lungo termine richiesti dagli investitori. Ovvero, abbassare i tassi a breve produrrebbe il risultato opposto a quello invocato da Trump. Del resto, basterebbe ricordarsi quanto avvenuto a settembre 2024 quando la banca centrale Usa ha sorpreso i mercati tagliando i tassi a breve di 50 punti base (contro i 25 attesi). I mercati, dati i timori inflazionistici, hanno rigettato la decisione spingendo al rialzo il rendimento decennale sui titoli di stato americani dal 3,6 al 4,8 per cento nel giro di poche settimane.

La difesa dell’indipendenza della Fed

A questa dinamica si aggiunge una questione strutturale: la continua pressione politica di Trump sull’indipendenza della Federal Reserve. Interferenze ripetute e pubbliche sul suo operato minano la credibilità dell’istituzione e indeboliscono la percezione della sua autonomia. L’indipendenza della banca centrale è il fondamento della sua capacità di ancorare le aspettative di inflazione. Se famiglie, imprese e mercati iniziano a dubitare che la Fed possa operare in piena libertà per perseguire la stabilità dei prezzi, l’efficacia della politica monetaria viene compromessa. Paradossalmente, proprio le continue pressioni di Trump per un allentamento monetario rendono questo esito meno probabile, poiché spingono il presidente della Fed, Jerome Powell, a riaffermare con maggiore determinazione l’autonomia della banca centrale.

Anche la politica fiscale aggrava il quadro. Il nuovo piano proposto da Trump prevede una significativa espansione del deficit attraverso massicci tagli alle imposte. Questo implica un aumento dell’emissione di titoli di stato (Treasuries), che deve trovare acquirenti disposti ad assorbirla. L’incremento dell’offerta di debito pubblico genera una pressione al rialzo sui rendimenti richiesti dai mercati, tanto più in presenza di dubbi sulla sostenibilità del sentiero di politica fiscale degli Stati Uniti. Cominciano a emergere segnali di crescente cautela anche da parte degli investitori internazionali, storicamente affidati alla sicurezza e liquidità dei Treasuries. La perdita graduale di fiducia contribuisce già da mesi all’aumento dei tassi di interesse a lungo termine.

Il paradosso, dunque, è chiaro. Trump invoca tassi di interesse più bassi per alleggerire il costo della vita. Ma in un contesto segnato da inflazione importata, pressioni sui rendimenti a lunga scadenza e disavanzo pubblico crescente, una politica monetaria espansiva rischia di ottenere l’effetto opposto: far aumentare proprio quei tassi — a lungo termine — che determinano il costo effettivo del credito per famiglie e imprese.

Uno dei tanti paradossi, non solo comunicativi ma strutturali, del populismo economico.

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