L’accordo raggiunto tra Ue e Usa riporta il negoziato sul terreno politicamente più gestibile di dazi, esenzioni mirate, quote e catene del valore industriali. Si evita così di aprire un confronto su valori e competenze regolatorie del mercato interno.
L’escalation scongiurata
L’Unione europea e gli Stati Uniti hanno raggiunto un primo accordo sul delicato tema dei dazi, dopo mesi di tensioni e dichiarazioni muscolari da parte di Washington. L’intesa, ancora in fase di definizione, consente per il momento di evitare una piena escalation commerciale e apre spazi di cooperazione mirata. Non è un accordo risolutivo né privo di costi, ma si tratta di un compromesso, sia pur al ribasso per l’Ue, che risulta ragionevole dato il contesto politico, benché sia contrario, almeno in prima battuta, alle regole del commercio internazionale.
È bene chiarire subito il perché di questo giudizio parzialmente assolutorio per la Commissione europea che ha condotto il negoziato. A partire dal “Liberation Day”, l’amministrazione statunitense aveva avanzato nei confronti dell’Unione europea richieste ampie e ambiziose, non solo sul piano tariffario, ma anche su quello normativo. Washington spingeva, tra l’altro, per un maggiore accesso al mercato europeo su servizi digitali in termini di regolamentazione della privacy, liberalizzazione degli standard tecnici di accesso alle piattaforme, abolizione della digital tax (nei paesi dove è in vigore), e abolizione del regime Iva per gli esportatori americani, tutte aree su cui l’Ue mantiene forti specificità regolatorie e, soprattutto, non ha competenza esclusiva (cosa che invece ha sul fronte della fissazione delle tariffe), ma condivisa con gli stati membri. Accettare concessioni in questi ambiti avrebbe richiesto l’accordo della maggioranza qualificata degli stati membri, con il rischio di impantanare l’intero processo negoziale, ed esporsi alle ritorsioni americane. Ritorsioni che potevano prendere la forma di un disimpegno Usa sul fronte della sicurezza, una linea rossa assolutamente da non valicare per la gran parte dei paesi dell’Est e del Nord Europa, o l’imposizione di dazi ‘punitivi’ (il famoso 30 per cento minacciato da Trump), che rappresentava ugualmente una linea rossa invalicabile per la gran parte dell’industria europea, in particolare per quella tedesca.
È dunque ovvio che di fronte a questa posizione negoziale degli stati membri le carte in mano alla Commissione europea fossero limitate. E dunque l’accordo raggiunto, che perimetra il negoziato sul terreno politicamente più gestibile di dazi, esenzioni mirate, quote e catene del valore industriali, ed evita di aprire un confronto su valori e competenze regolatorie del mercato interno, rappresenti oggi un accettabile compromesso.
Tariffe sopportabili
Chiarito questo, veniamo ai termini dell’accordo. Uno degli elementi centrali è il mantenimento di un dazio del 15 per cento quale base di riferimento per i prodotti europei esportati verso gli Stati Uniti. Sebbene un dazio di questa entità rappresenti un ostacolo evidente (la tariffa media americana pre-Trump era intorno al 3 per cento), gli effetti diretti non sono catastrofici. Diverse ricerche condotte negli ultimi mesi a partire dal Liberation Day (e riportate per esempio da The Economist, 27 luglio) mostrano che l’impatto dei nuovi dazi di Trump si distribuisce in modo relativamente bilanciato tra margine dell’esportatore, importatore e poi distributore statunitense, e consumatore finale.
Tradotto in termini concreti, per ogni punto percentuale di dazio, l’esportatore europeo subisce una riduzione di margine pari in media allo 0,2 – 0,3 per cento. Su un dazio del 15 per cento, la compressione del margine arriva dunque intorno al 3-4 per cento. Si tratta di una perdita significativa ma sostenibile, specie in un contesto in cui molte imprese europee – a partire da quelle tedesche e italiane – mantengono un vantaggio competitivo in termini di qualità o know-how tecnologico nelle loro esportazioni verso gli Usa.
Ovviamente, la “resistenza” al dazio varia da settore a settore. Le esportazioni ad alto valore aggiunto (come appunto farmaci, aerospazio, meccanica di precisione) tendono ad assorbire meglio il colpo rispetto a beni più standardizzati o facilmente sostituibili, o a imprese di più piccole dimensioni, con costi fissi più alti da gestire, e dunque margini tendenzialmente più bassi.
Ma l’accordo non si limita solo a fissare dazi al 15 per cento. Una delle novità più rilevanti dell’intesa con l’Ue, a differenza di tutti gli altri accordi che gli Usa hanno concluso con i loro partner commerciali, è l’introduzione del principio “zero per zero”: l’eliminazione reciproca dei dazi su una lista selezionata di prodotti. Per il momento, la lista è ancora in fase di definizione, ma comprende comparti strategici come aeromobili e componenti per l’aviazione; prodotti chimici avanzati e farmaci generici selezionati; attrezzature per semiconduttori; alcuni prodotti agricoli e materie prime critiche.
Lo schema si basa su una logica di mutuo interesse e punta a rafforzare la cooperazione su segmenti cruciali delle catene del valore transatlantiche. Questa componente dell’accordo, nella misura in cui fosse estesa nel tempo a una ampia categoria di prodotti, creerebbe progressivamente una sorta di area di libero scambio Ue-Usa che riporterebbe il negoziato nell’ambito delle regole Wto (ex. art. XXIV del Gatt). È particolarmente significativo il riferimento a componenti strategiche: materiali rari, chip, e macchinari di precisione, fondamentali per le transizioni digitali e green, e in chiara ottica di “de-risking” dalle forniture cinesi.
Alla luce di quanto sopra non è dunque sorprendente che il modello KITE di IFW-Kiel sull’impatto dei dazi stimi la perdita per l’area euro dall’accordo al 15 per cento in circa -0,1 per cento di Pil, con l’Italia addirittura al -0,03 per cento (probabilmente perché i farmaceutici, che sono in parte essere esentati, sono oggi il nostro settore di maggiore esportazione negli Usa).
L’accordo non è tuttavia ancora un testo giuridico, e come tale si presta ad alcune interpretazioni controverse. La prima riguarda i dazi su acciaio e alluminio. Secondo gli Usa, per il momento restano al 50 per cento, mentre l’Ue sottolinea come sia partito un negoziato con la controparte americana per una loro riduzione attraverso un sistema di quote. In parallelo, le due sponde dell’Atlantico si sono impegnate a lavorare congiuntamente per affrontare il tema della sovra-capacità produttiva globale, in particolare cinese, verosimilmente attraverso un gruppo di lavoro congiunto che disciplini il meccanismo di quote anche con altri paesi produttori (Corea del Sud, Giappone, India).
L’impegno su acquisti e investimenti negli Usa
Uno dei punti più controversi riguarda gli impegni presunti dell’Ue ad acquistare fino a 750 miliardi di dollari nei prossimi tre anni di prodotti energetici statunitensi e a effettuare investimenti produttivi negli Usa per 600 miliardi. Queste cifre sollevano dubbi sia in termini di realizzabilità che di legittimità.
Sul fronte energetico, attualmente, l’Ue importa circa 400 miliardi di dollari all’anno in beni energetici complessivi, di cui solo 20 miliardi di Lng (gas naturale liquefatto) provengono dagli Usa. Ipotizzando un aumento degli acquisti e una sostituzione integrale del greggio russo (circa 50 miliardi di euro pre-sanzioni) con prodotti statunitensi, si arriverebbe a 70–90 miliardi annui, ben lontani dagli ipotetici 250 miliardi l’anno indicati da Washington. Peraltro, se autonomia strategica e de-risking hanno un valore, perché dipendere dagli Usa in futuro per oltre il 60 per cento delle nostre fonti energetiche fossili?
Sul fronte degli investimenti diretti, invece, l’Ue già oggi investe circa 150 miliardi di dollari l’anno negli Stati Uniti. L’impegno di 600 miliardi di investimenti da qui al 2029 sembra dunque plausibile, peraltro in un contesto in cui le imprese europee decidano di aggirare, attraverso la produzione diretta in loco, gli ostacoli tariffari (“tariff jumping Fdi”).
In entrambi i casi, tuttavia, è bene chiarire che l’Ue non ha strumenti legislativi per “imporre” queste scelte a imprese che restano libere di operare sui mercati, scegliendo i migliori acquirenti di prodotti energetici e le più economiche opportunità di investimento.
In sintesi, l’accordo Ue–Usa non rappresenta una soluzione definitiva alla questione commerciale, ma stabilisce una cornice di cooperazione pragmaticamente utile. Si evitano escalation tariffarie generalizzate, si introducono elementi di flessibilità su settori chiave e si riattiva un canale politico tra Bruxelles e Washington, utile anche in vista dei rapporti reciproci con la Cina.
Resta, tuttavia, l’esigenza di monitorare con attenzione l’evoluzione della dinamica commerciale, in particolare per le Pmi esportatrici europee, meno capaci di compensare l’erosione dei margini. E l’Ue dovrà chiarire la propria posizione su energia e investimenti, per evitare ambiguità che rischiano di essere strumentalizzate politicamente.
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Savino
Non ho mai sentito negoziare sui capricci umorali altrui. Semmai si negozia su dati di fatto, che appaiono assenti. Prima ci si mette a fare il bullo e, poi, si chiede di approcciare la negoziazione e ci si spinge a taglieggiare chi si è bullizzato. Ma che atteggiamento è questo? Che razza di uomo d’affari è questo e che razza d’affari ha fatto in vita propria, trattando solo con Epstein, Hulk Hogan e qualche star del porno? E’ un imprenditore costui? Al netto anche degli errori europei, Trump non ha autorevolezza morale, politica, giuridica ed economica e non ha titoli validi per imporre alcunchè. Ci si deve porre questa questione prima di continuare a discutere di dazi che vorrebbero orientare l’economia globale dei prossimi anni e decenni.