Quanti figli? Tra condizioni socio-economiche e fattori culturali*

L’Italia non è ancora un paese “da figlio unico”, ma la questione demografica è una sfida decisiva, per la quale non esistono soluzioni semplici. Ecco cosa raccontano sui modelli riproduttivi delle famiglie italiane le domande di assegno unico universale.

La transizione demografica

L’Italia attraversa una fase di profonda transizione demografica, caratterizzata da persistente denatalità e progressivo invecchiamento della popolazione. I dati derivanti dalle domande di assegno unico universale, misura che ha raggiunto un take-up pari al 94,6 per cento nel 2024 e che quindi rappresenta un registro molto attendibile delle nascite in Italia, offrono un’opportunità unica per analizzare i modelli riproduttivi delle famiglie italiane, superando i limiti delle indagini campionarie. Alcune analisi presentate nel XXIV Rapporto Annuale Inps mostrano che circa metà delle madri ha un solo figlio, quattro su dieci ne hanno due, mentre appena il 10 per cento ne ha tre o più.

Se ci concentriamo sulle donne che hanno avuto il primo figlio nel 2012-2013 – e che quindi hanno più verosimilmente concluso il proprio percorso riproduttivo – l’immagine cambia leggermente. In questo gruppo, come si può notare dalla tabella 1, prevalgono le madri con due figli (49 per cento), seguite da quelle con un solo figlio (38 per cento), mentre solo il 13 per cento ha tre o più figli. Non siamo dunque ancora un paese “da figlio unico”, ma il segnale è chiaro: la propensione a fermarsi presto, dopo il primo o al massimo il secondo figlio, si conferma la scelta più diffusa.

Vi sono tuttavia anche sostanziali differenze, influenzate da fattori culturali ed economici.

Il differenziale etnico-culturale

L’analisi comparativa tra madri italiane e straniere, in linea con i rispettivi tassi fecondità (1,14 contro 1,82 nel 2023, dati Istat), mette in luce un divario molto rilevante. Se tra le madri italiane domina il modello dei due figli (circa il 50 per cento), tra quelle straniere la propensione ad avere famiglie più numerose è molto più marcata: quasi il 20 per cento ha tre figli e oltre il 5 per cento arriva ad averne quattro o più.

Il differenziale ha rappresentato un elemento di resilienza per il sistema demografico italiano, attenuando quella che altrimenti sarebbe stata una contrazione ancora più pronunciata delle nascite. Il contributo delle madri immigrate ha, infatti, fornito un argine parziale alla denatalità, mitigando squilibri già evidenti nella struttura per età e nel ricambio generazionale.

Tabella 1 – Numero di figli per madre (considerando donne con primo figlio nato nel 2012-2013)

La relazione reddito-fecondità

Un aspetto particolarmente interessante riguarda la relazione tra status socioeconomico e scelte riproduttive. L’analisi dell’indicatore della situazione reddituale (Isr) – utilizzato in alternativa all’Isee, che, considerando la dimensione familiare, tende a risultare sistematicamente più basso per le famiglie numerose – mette in evidenza un quadro piuttosto articolato. Nonostante per molti paesi europei la letteratura demografica suggerisca che la tradizionale relazione inversa tra reddito e numero di figli sia ormai superata (grazie a fattori come l’aumento dell’istruzione femminile, l’accesso universale alla contraccezione, e così via), in Italia questa tendenza non sembra ancora emergere. Le madri con più figli si contraddistinguono per condizioni economiche peggiori: quelle con un solo figlio registrano in media un indicatore della situazione reddituale di 47mila euro, che scende progressivamente a 39mila euro per chi ha tre figli e a circa 31mila euro per chi ne ha quattro.

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Tuttavia, la relazione tra reddito e numerosità non è lineare. Ciò emerge chiaramente dal grafico 1, dove è rappresentata la distribuzione delle madri con uno, due e tre o più figli (per comodità abbiamo raggruppato le ultime tre categorie in un unico gruppo) in base all’indicatore Isr. Si osserva, infatti, una forte presenza di figli unici sia nelle famiglie economicamente svantaggiate che in quelle più benestanti (la non presentazione di Isee indica, tendenzialmente livelli di reddito elevati, si veda ad esempio qui). Al contrario, le famiglie con tre o più figli si concentrano soprattutto nelle fasce di reddito medio-basse.

Grafico 1 – Valore ISR medio in relazione al numero di figli

Il timing riproduttivo come variabile strategica

L’età della madre al primo figlio rappresenta una variabile cruciale nella determinazione della dimensione familiare. I dati mostrano una relazione inversa robusta. A scopo esplicativo si consideri che le madri italiane con cinque o più figli hanno avuto il primo in media a 24,4 anni, contro i 30,5 anni per quelle con due figli e 34,5 anni delle donne con un solo figlio. Il pattern è ancora più accentuato per le madri straniere: 23,6 anni per chi ha cinque figli versus 26,7 anni per chi ne ha due e 31,6 anni per chi ne ha uno.

Questa evidenza sottolinea l’importanza dell’orologio biologico e dei vincoli temporali nella pianificazione familiare, elementi che assumono particolare rilevanza in un contesto caratterizzato da prolungamento dei percorsi formativi e ritardo nell’ingresso nel mercato del lavoro. Ritardare la decisione di avere un figlio incide sulla dimensione famigliare e, naturalmente, riduce anche la probabilità di poterlo avere. Come evidenziato dall’Istituto superiore di sanità, è questa una delle principali cause di infertilità, che colpisce il 15 per cento delle coppie in Italia.

La geografia della numerosità dei figli

L’analisi territoriale rivela differenziazioni geografiche che riflettono la persistenza di modelli culturali, opportunità economiche e dotazioni infrastrutturali eterogenei. Le madri con figlio unico si concentrano prevalentemente nel Nord-Ovest (Piemonte, Lombardia, Liguria) e in Sardegna, mentre le famiglie con due o più figli mostrano maggiore frequenza nel Mezzogiorno e in alcune aree del Nord-Est. Le famiglie più numerose (tre o più figli) presentano una distribuzione particolarmente concentrata in specifiche regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Puglia) e in alcune aree alpine.

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La geografia della numerosità dei figli ha alla base una combinazione di fattori culturali ed economici, accesso ai servizi e composizione della popolazione residente. Al Nord, ad esempio, la presenza di madri con più di tre figli è legata anche alla maggiore incidenza di donne straniere, a un sistema di welfare più strutturato e a un contesto economico più solido. Al Sud, invece, il modello della famiglia estesa e tradizionale continua a prevalere.

Grafico 2 – Distribuzione dell’incidenza delle donne con 1, 2 e 3 o più figli nelle province italiane (primo figlio nato nel periodo 2012-2013)

Tutto ciò mostra quanto il fenomeno sia complesso e quanto sia necessario un approccio integrato. Le politiche di sostegno alla famiglia dovrebbero andare di pari passo con interventi sul mercato del lavoro, capaci di affrontare le cause della posticipazione delle scelte riproduttive: aumento dell’occupazione femminile (in Italia il tasso di occupazione femminile è di oltre 12 punti inferiore rispetto alla media Ue), potenziamento dei servizi alla prima infanzia, miglior bilanciamento tra vita privata e lavoro e dei carichi famigliari tra padri e madri attraverso un uso più equo dei congedi. Sono solo alcune policy di un piano che dovrebbe essere più ampio, sistemico e strutturale, in grado di rispondere alle esigenze e ai desideri di chi vorrebbe avere figli o vorrebbe averne di più (in un recente report di Fondazione per la natalità in collaborazione con Istat è emerso che quasi il 70 per cento dei giovani intervistati desidererebbe dei figli e di questi l’80 per cento ne vorrebbe due o più). Al tempo stesso, è cruciale valorizzare il contributo demografico delle famiglie immigrate.

Non esistono soluzioni semplici: definire strategie realmente efficaci rappresenta una sfida aperta e decisiva per il futuro del paese.

* Le opinioni espresse sono da attribuire esclusivamente agli autori e non impegnano in alcun modo l’Istituto di appartenenza. L’articolo è pubblicato in contemporanea su Menabò di Etica ed Economia.

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L’occupazione tra congiuntura e trasformazioni strutturali*

  1. Savino

    La soluzione è il ricambio generazionale nel sistema Paese, nella dirigenza e nelle classi dirigenti, nel ciclo di economia, lavoro e produzione. E’ richiesta anche una maggiore responsabilizzazione dei più giovani. Sono i boomers che debbono essere maggiormente proattivi e tocca proprio a loro, per garantire questo ricambio e scongiurare alcune problematiche, anzichè continuare ad accumulare ricchezza che diventa superflua nella prospettiva delle loro aspettative di vita.

  2. Elena Toschi

    Come si sottolinea nella parte finale dell’articolo, secondo me è cruciale aiutare chi desidera avere 2 o più figli.
    A fronte di una quota maggiore rispetto al passato di persone che per scelta non ha figli o ne ha uno al massimo (scelte assolutamente legittime), non ci sono aiuti da parte dello stato che permettano a chi ne desidera 3 o più di farli senza impoverirsi, soprattutto se lavora anche la madre.
    Se si lavora entrambi (dichiarandolo e pagando le tasse) e si hanno risparmi da parte (come è comprensibile che uno faccia, avendo figli), è facile superare certe soglie ISEE e dallo stato non si riceve quasi nulla (bonus nido 136 euro a fronte di una spesa per il nido che parte da 500-600 euro per arrivare ai privati da 1.000 e più, assegno unico di 58 euro a figlio). Con il terzo figlio diventa necessario cambiare macchina (altrimenti 3 seggiolini, richiesti per legge, non ci stanno) e 3 seggiolini possono essere installati solo su automobili di fascia medio-alta, certo non bassa: perché non c’è un aiuto dello stato per questo scopo, peraltro tracciabilissimo? Con 3 o più figli è preferibile vivere in una casa con più di due stanze e fare la spesa costa parecchio (soprattutto con i rincari degli ultimi anni), eppure le scale di equivalenza ISEE pesano i figli (tranne il quinto, non si capisce perché) meno di quanto pesino in media i primi due componenti (0,795), che magari sono adulti (almeno il primo) per i quali andrebbe benissimo vivere in un monolocale e che possono benissimo lavorare e guadagnare, a differenza dei bambini, che, per il nucleo familiare, rappresentano solo uscite di denaro e accrescimento delle necessità abitative in termini di metri quadri. Nell’ISEE entra a numeratore il reddito lordo, che è molto distante da quello netto (per chi paga le tasse), e non ci sono aggiustamenti in base al costo della vita e alla rendita catastale media del comune in cui si vive. Così, sia che si sia in affitto, sia che si sia proprietari di una prima casa, le franchigie fissate vanno a favorire, di molto, chi abita in comuni più poveri. Non è realmente un indicatore della situazione economica EQUIVALENTE se non tiene conto del costo della spesa e della casa dei nuclei familiari che va a fotografare per stabilire quali hanno più bisogno di altri di ricevere aiuto, a meno che non si voglia suggerire alla famiglia che abita a Milano di trasferirsi in Calabria dove con lo stesso stipendio, gli stessi metri quadri e lo stesso numero di figli vedrebbe abbassarsi il proprio ISEE (e di conseguenza aumentare i bonus) e aumentare il proprio potere d’acquisto per le spese quotidiane.
    Dal punto di vista organizzativo, avere più di 1-2 figli è molto complicato se si lavora in due. Servono i famosi “aiuti”: se ci sono i nonni, benissimo, altrimenti si deve pagare qualcuno, o rinunciare al lavoro di uno dei due, in genere la madre. Fare figli non è una scelta priva di grossi sacrifici. Io credo che là fuori ci siano tante famiglie che vorrebbero o avrebbero voluto 3 o più figli e che non li hanno. Dovessi fare aumentare la natalità, partirei da loro, non dallo studio dei determinanti della scelta legittima di chi non ne vuole.
    Non a caso la mappa della percentuale di donne con 1 solo figlio è del tutto sovrapponibile alla mappa del tasso di occupazione femminile in Italia, fatta eccezione per la provincia di Cuneo, il Trentino-Alto Adige, la Valle D’Aosta, le province di Brescia, Verona, Vicenza e poche altre. Quando si lavora in due è molto complicato, organizzativamente, avere più di 1 o 2 figli, bisognerebbe andare a vedere cosa avviene nelle province che fanno eccezione: c’è qualche politica che sostiene la fecondità o che concilia lavoro e famiglia (per esempio, in Alto Adige i nidi sono aperti per tutta l’estate, anche ad agosto, mentre nel Comune di Bologna chiudono dopo la terza settimana di luglio e riaprono alla seconda di settembre)? L’età media al primo figlio è sovrapponibile a quella nelle altre regioni o per qualche motivo hanno potuto iniziare prima ad avere figli? Il livello di istruzione delle donne è simile a quello delle altre regioni? Come sono i contratti di lavoro? È maggiore, rispetto al resto del nord, il numero di famiglie che ha i nonni vicini?
    Mi fermo qui, ma sarei davvero interessata ad approfondimenti su questi temi.

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