La Ue ha fissato per il 2035 il divieto di vendita di nuove auto a benzina e diesel. È un impegno preso oggi per una scelta che sarà attuata domani. È una buona strategia per non farsi condizionare da chi propone risposte semplici a un problema complesso.

L’arte umana di procrastinare

Procrastinare è un’attività profondamente umana, decisamente comune nelle nostre vite quotidiane, e si riflette anche sul piano ambientale. Continuiamo a rinviare investimenti fondamentali per la transizione ecologica, a bruciare combustibili fossili, a erodere ecosistemi, a consumare suoli fertili – come se la Terra fosse destinata a chiudere i battenti. Ogni anno trascorso senza intervenire è un anno in cui il debito ecologico si accumula, lasciando alle generazioni future il conto da saldare. Ogni foresta abbattuta, ogni falda acquifera prosciugata, ogni tonnellata di CO₂ emessa è un prelievo forzoso a danno di chi verrà dopo di noi.

Come per la salute individuale, anche per quella ambientale esistono soglie critiche oltre le quali il recupero diventa estremamente oneroso o impossibile. Dobbiamo imparare a dare più valore al domani, riconoscendo che ogni scelta nel presente ha ripercussioni a lungo termine. Ovvero sarebbe opportuno smettere di vedere le politiche ambientali come un fastidioso intralcio alla nostra libertà e iniziare a riconoscerle per quello che sono: strumenti per proteggerci da noi stessi e per tutelare chi verrà dopo di noi.

Quando il costo dell’inazione sarà sotto gli occhi di tutti, sarà troppo tardi per correggere la rotta.

Il problema è che la mancanza di lungimiranza è spesso amplificata proprio da chi dovrebbe correggerla: i politici. Misure come l’aumento delle tasse sul carbonio, l’eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili, l’introduzione di standard più rigidi per l’efficienza energetica o la progressiva uscita di scena dei veicoli a benzina e diesel sono difficili da accettare perché i costi sono immediati, visibili e certi, mentre i benefici – stabilità climatica, riduzione degli eventi estremi – appaiono lontani e astratti. E poiché l’orizzonte temporale della politica raramente supera un ciclo elettorale, i governi hanno tutto l’interesse a rimandare decisioni impopolari per non perdere voti. Il risultato è una spirale perversa, in cui l’opportunismo della classe dirigente si alimenta della stessa miopia dei cittadini.

Impegni presi oggi per misure attuate domani

Che fare, allora? La soluzione è vincolarci oggi ancora più saldamente a decisioni che verranno attuate in seguito, riducendo così la tentazione di rimandarle quando i costi si faranno più vicini e concreti. In pratica, ci impegniamo preventivamente a introdurre misure indigeste ma necessarie prima che le pressioni del presente inducano i governi a scansarle. Del resto, problemi come la protezione delle coste messe a rischio dall’innalzamento del livello del mare, il contenimento di eventi meteorologici estremi, la sicurezza alimentare minacciata dalla siccità e dalle microplastiche, richiedono strategie pianificate con decenni di anticipo.

Un’applicazione di successo di questa strategia è il programma “Save More Tomorrow” (Smart), ideato da Richard Thaler e Shlomo Benartzi per incentivare il risparmio pensionistico negli Stati Uniti. Il principio è semplice: invece di chiedere ai lavoratori di iniziare a risparmiare subito (cosa che rimanderebbero all’infinito), il programma permette loro di impegnarsi a destinare alla pensione una parte dei futuri aumenti salariali. Pianificare di risparmiare domani è molto più facile che farlo oggi. E infatti funziona. Nei primi 40 mesi di sperimentazione, Smart ha quadruplicato il tasso medio di risparmio dei lavoratori. Secondo i dati disponibili, ha aiutato oltre 15 milioni di americani ad accantonare più denaro per la pensione.

Nell’edizione aggiornata di La spinta gentile. L’edizione definitiva, (uscito nel 2021), un libro che ha influenzato le politiche pubbliche in molti paesi, Richard Thaler e Cass Sunstein suggeriscono di declinare lo stesso principio in chiave ambientale: impegnarsi oggi a fare la cosa giusta, ma rendendola operativa solo domani. Il nome del programma è già pronto: Green More Tomorrow. Se ha dato buona prova di sé per il risparmio previdenziale, perché non dovrebbe funzionare anche per l’ambiente?

Vincolare oggi una politica a un’attuazione futura consente a chi governa di approvare misure necessarie senza subire immediati contraccolpi elettorali. L’impatto concreto della norma si manifesterà solo negli anni successivi, quando gli effetti positivi saranno più evidenti e le resistenze minori. Inoltre, una volta istituzionalizzata, una politica tenderà a radicarsi nello status quo, rendendo più difficile abrogarla. 

Il divieto di vendita di nuove auto a benzina e diesel nell’Unione europea, fissato per il 2035, è stato pensato proprio secondo questa logica. Stabilire una data futura permette ai produttori automobilistici di adattare gradualmente i propri investimenti verso tecnologie più pulite, come l’elettrico e l’idrogeno, evitando stravolgimenti improvvisi. Allo stesso tempo, i consumatori hanno il tempo necessario per adattarsi al cambiamento e rivedere le proprie scelte di acquisto, senza percepirlo come un’imposizione immediata. Il divieto resisterà all’assalto della retorica del “buonsenso”, degli interessi industriali, delle pressioni politiche e delle campagne elettorali a corto respiro?

Numerosi studi confermano inoltre che la trasparenza nella destinazione dei fondi raccolti attraverso imposte ambientali è cruciale per aumentarne l’accettabilità sociale e politica. Questi meccanismi, agendo come vincoli autoimposti, rendono progressivamente più costoso – politicamente, economicamente e socialmente – fare marcia indietro, proteggendo le politiche ambientali dalle pressioni di breve termine.

Il pre-impegno si rivela così un ponte indispensabile tra il presente e un futuro sostenibile, capace di vincere l’inerzia decisionale e di promuovere azioni concrete e lungimiranti. Se proprio non possiamo evitare di procrastinare, facciamolo con cognizione di causa, e fissiamo una data precisa, credibile e soprattutto irrevocabile in cui smetteremo di farlo.

Fiducia alla base di una vera comunità global

Eppure, mentre un clima sempre più instabile bussa alle nostre porte, cresce anche il consenso per leader politici che negano l’origine antropica del riscaldamento globale, ne sminuiscono la gravità o rinviano la soluzione a tecnologie salvifiche inesistenti. Alla nostra paura di un futuro improvvisamente incerto e minaccioso, rispondono trasformando la crisi climatica in una questione identitaria, guardando nostalgicamente a un passato che comunque non tornerà. Così, al posto della cooperazione, si impongono dazi; al posto della responsabilità collettiva, prevalgono interessi nazionali; al posto della solidarietà intergenerazionale, si moltiplicano le promesse elettorali a breve termine. Risposte semplici a un problema complesso; ma del tutto inefficaci perché la CO₂ non si ferma ai confini, non chiede asilo, non resta imprigionata in un hotspot.

La chiave per una governanceclimatica globale efficace sarebbe la fiducia. Fiducia tra i leader mondiali, affinché nessuno si senta l’unico a sostenere costi e sacrifici. Fiducia nei meccanismi di enforcement, affinché per chi non rispetta gli impegni ne subisca le conseguenze. Fiducia dei cittadini nelle istituzioni, affinché le regole siano percepite come legittime, non come imposizioni, e quindi attuate.

Se questa fiducia esistesse, potremmo ribaltare lo slogan “pensare globale e agire locale” in un più incisivo “pensare locale e agire globale”. Un cambio di prospettiva che trasformerebbe il mondo in una vera comunità glocal, dove i principi alla base del successo cooperativo su piccola scala valgano anche a livello mondiale. Questo ci permetterebbe di affrontare le sfide climatiche non come rivali in un gioco a somma zero, ma come membri di un’unica comunità planetaria, in cui reciprocità tra nazioni e responsabilità comune rappresentino la forza propulsiva e il collante di un’azione collettiva.

La fiducia, però, non si crea per decreto: si conquista faticosamente. E, nel contesto attuale, segnato da tensioni geopolitiche, guerre commerciali e una nuova corsa al riarmo, è una merce rara.

È stato stimato che ogni punto percentuale di Pil in più destinato alla difesa comporta un aumento delle emissioni nazionali compreso tra lo 0,9 per cento e il 2 per cento. Solo per i paesi Nato (esclusi gli Stati Uniti), un incremento di due punti percentuali equivarrebbe a un’aggiunta di 87-194 milioni di tonnellate di CO₂ l’anno, con un costo climatico stimato in 264 miliardi di dollari. Ma c’è anche un costo opportunità: ogni miliardo investito in armamenti è un miliardo sottratto all’azione climatica.

Coordinamento internazionale ed esperienze locali 

Un accordo più stringente di quello di Parigi è certamente auspicabile. Per esempio, con il protocollo di Montreal (1989) si è riusciti ad affrontare efficacemente il buco dell’ozono, mettendo al bando a livello globale le sostanze che ne erano causa. Allora si era in una fase storica diversa, e il problema era relativamente semplice da risolvere.

Eppure, senza un radicamento nelle comunità locali, anche il miglior trattato internazionale rischierebbe oggi di restare sulla carta. La cooperazione non si impone, si costruisce. Con il coinvolgimento di governi nazionali, aziende, comunità e cittadini. D’altro canto, anche le migliori iniziative locali, se prive di un coordinamento globale, non sarebbero sufficienti ad affrontare una crisi di tale portata. Come ha mostrato il premio Nobel Elinor Ostrom, le istituzioni più resilienti sono quelle in cui più centri decisionali interconnessi operano su vari livelli in modo autonomo, ma coordinato. Non si tratta quindi di contrapporre locale e globale, bensì di creare un sistema integrato in cui le soluzioni sperimentate dal basso si rafforzino attraverso il coordinamento internazionale e viceversa.

*L’articolo è tratto da Scongeliamo i cervelli, non i ghiacciai, Solferino Libri, settembre 2025

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