Populismi e nazionalismi ottengono consenso negando il problema del clima e attaccando le istituzioni scientifiche. Invocano una libertà senza responsabilità. Ma la crisi climatica non conosce frontiere e si lega a quella democratica.

La strategia migliore: imparare dagli errori

Il cambiamento climatico sta già producendo effetti su ecosistemi, insediamenti umani e infrastrutture, con un aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi estremi. L’Ipcc lo afferma da tempo. Ondate di calore, siccità, incendi, innalzamento del livello del mare, acidificazione degli oceani, perdita di biodiversità e diffusione di malattie sono solo alcune delle sue conseguenze. Di fronte a un’emergenza così vasta, multiforme e dinamica, è difficile immaginare un’unica ricetta. Soluzioni one-size-fits-all di tipo economico o tecnologico sono un’illusione che ignora la natura al contempo sistemica e capillare del problema. Servono strategie policentriche, diversificate e multilivello, capaci di adattarsi alle caratteristiche singolari e alla scala specifica dei problemi.

Già Friedrich Hayek, economista e filosofo austriaco tra i maggiori teorici del liberalismo, aveva evidenziato come la conoscenza sia dispersa e distribuita nella società, rendendo impossibile a un pianificatore centrale disporre di tutte le informazioni necessarie per prendere decisioni efficienti. Applicata alla gestione delle risorse comuni, questa visione implica riconoscere che chi vive e lavora a stretto contatto con un territorio possiede conoscenze insostituibili, che nessuna autorità distante può replicare.

Per valorizzare la conoscenza diffusa serve un ecosistema di governance capace di sperimentare, adattarsi e apprendere nel tempo. Le istituzioni di successo non sono entità statiche: evolvono continuamente, sono in grado di modificare le regole attraverso processi decisionali inclusivi, e di integrare tempestivamente nuove conoscenze e innovazioni. Solo così è pensabile rispondere a sfide ambientali, economiche e sociali in continua trasformazione.

L’errore, qui, non è il nemico: lo è la presunzione di infallibilità. Alcune strategie funzionano in un contesto e falliscono in un altro; alcune normative incentivano comportamenti virtuosi, ma possono al tempo stesso ostacolarne altri. Il problema non è evitare gli errori, ma trasformarli in occasioni di apprendimento. Non abbiamo altra scelta che imparare facendo: un processo continuo, alimentato da miliardi di azioni quotidiane interconnesse, capaci di evolvere, rafforzarsi e – auspicabilmente – tracciare la strada verso un nuovo equilibrio ambientale. In fondo, è il metodo scientifico applicato alla governance globale del clima.

Se la scienza è messa a tacere

Senonché oggi gli Stati Uniti sono testimoni di un’ondata di disinformazione propagata da un ambiente mediatico sempre più avvelenato. Piattaforme digitali, algoritmi virali, reti di bot, influencer compiacenti, media tradizionali,think tank ideologizzati e persino interferenze esterne – come quelle della Russia – fanno da cassa di risonanza a leader politici che alimentano il sospetto, screditano gli esperti, attaccano le istituzioni scientifiche e costruiscono consenso proprio sul dispregio di un sapere dimostrabile, controllabile, condiviso.

Nel paese che per molto tempo ha guidato le classifiche internazionali dell’eccellenza scientifica, nel 2025 si è nuovamente insediato un presidente apertamente negazionista climatico che con il suo entourage si è subito impegnato ad aggredire frontalmente l’università e la ricerca.

La scienza ci sta disperatamente dicendo che il nostro sistema economico non è sostenibile. Dai rapporti dell’Ipcc ai lavori di Johan Rockström sui “limiti planetari”, sappiamo che stiamo superando i limiti entro cui la Terra può sostenere la vita umana in modo stabile. Cambiamento climatico, perdita di biodiversità, deforestazione, acidificazione degli oceani: sei dei nove limiti sono già stati oltrepassati o sono sul punto di esserlo.

Non può esserci libertà di inquinare

Riconoscere questa realtà implica ripensare certe libertà – come quella di inquinare. Significa accettare che il cambiamento ha un costo: non solo economico, ma anche sociale.

Ed è proprio sulla resistenza al cambiamento che fanno leva i populismi. Promettono di difendere “il nostro stile di vita”, dipingendo la transizione ecologica come un’imposizione calata dall’alto, voluta da élite lontane dai problemi del “vero popolo”. Invocano la libertà di non cambiare nulla, la rivendicano come sovranità, la confezionano come volontà di rendere il popolo “nuovamente grande”. Ma una libertà senza responsabilità cessa di essere una garanzia di autonomia: diventa una licenza di danneggiare gli altri. È “la libertà dei lupi, che ha significato spesso la morte degli agnelli”. È il privilegio del più forte: di chi ha più potere, più mezzi, più media, più voce. Di chi ha tutto da guadagnare dal lasciare tutto com’è.

Una libertà compatibile con una convivenza e un pianeta sostenibili, al contrario, richiede un terreno comune: fatti condivisi, limiti riconosciuti, regole giuste e vincoli che proteggano i più vulnerabili – il Sud globale e le generazioni future. Perché senza un quadro comune di diritti e doveri, la libertà diventa privilegio, e la giustizia arbitrio.

Nessuno si salva da solo

I populismi e i nazionalismi costruiscono consenso negando il problema del clima, o minimizzando, e spostando la colpa altrove. Ma la crisi climatica, per sua natura globale, interdipendente e intergenerazionale, smaschera l’inganno. Non si può agire da soli, né salvare solo la propria economia, il proprio territorio, il proprio elettorato.

Ecco perché la scienza del clima dà fastidio: perché incrina la narrazione identitaria e sovranista secondo cui possiamo bastare a noi stessi. E per questo viene denigrata, deformata, derisa.

Non è successo solo con Donald Trump, che ha definito il cambiamento climatico «una bufala ordita dalla Cina per indebolire l’economia Usa». Jair Bolsonaro, presidente del Brasile dal 2019 al 2023, ha smantellato le tutele dell’Amazzonia appellandosi all’autonomia economica. Javier Milei, presidente dell’Argentina dal dicembre 2023, descrive l’ambientalismo come una bugia socialista. E in Italia le politiche ambientali vengono bollate come «eco-follie di Bruxelles».

Ma il clima non conosce frontiere. Negarlo, in nome della sovranità nazionale, non ci renderà più liberi, solo più soli ed esposti.

Due crisi che si alimentano a vicenda

La crisi climatica e quella democratica non sono problemi slegati, ma sintomi dello stesso malessere: il rifiuto dei limiti naturali, una dipendenza patologica dai consumi, una sfiducia crescente negli esperti e una paura radicale del cambiamento. Due crisi che si alimentano a vicenda, aggravandosi reciprocamente. E che richiedono un approccio unitario che includa la ricostruzione di legami di fiducia, l’adozione di regole comuni, e la legittimazione di un sapere condiviso su cui fondare la deliberazione pubblica.

Senza fiducia nella scienza non è possibile un’azione climatica efficace. E senza un terreno comune per il confronto politico, non può funzionare la democrazia. Affrontare la crisi del clima significa allora rafforzare le pratiche democratiche. Non solo per definire politiche ambientali più giuste ed efficaci, ma per ottenere quel consenso pubblico senza cui nessuna trasformazione è davvero possibile.

Philip Kitcher, filosofo della scienza, lo ha spiegato così: «Ai problemi della democrazia si risponde con più democrazia. Dove l’ignoranza è irrimediabile, l’unica via è creare canali che permettano agli organi rappresentativi dei cittadini di facilitare la comprensione del consenso tra esperti, ristabilire la fiducia nella competenza e agire da arbitri nelle decisioni più delicate». Muovono in questa direzione le assemblee cittadine, gruppi di cittadini selezionati a campione e chiamati a deliberare su temi di interesse pubblico dopo essere stati informati sugli aspetti scientifici rilevanti. Pur essendo ancora sperimentali e non prive di difficoltà pratiche, promettono di rinsaldare il legame tra cittadini e istituzioni, creando spazi di dialogo informato che possano costruire consenso e sostenere politiche più ambiziose.

In un’epoca in cui il negazionismo climatico si presenta come libertà di opinione, riaffermare il valore della scienza è forse l’atto più radicale per difendere la democrazia: l’unico modo per tenere viva la possibilità di capirsi, ascoltarsi e decidere insieme come cambiare rotta.

*L’articolo è tratto da Scongeliamo i cervelli, non i ghiacciai, Solferino Libri, settembre 2025

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