Il fiscal drag è una tassa occulta dovuta solo all’inflazione e non a una maggiore ricchezza reale. Andrebbe sterilizzato per impedire un aumento indebito del gettito fiscale. Le riforme delle aliquote avevano uno scopo diverso. E comunque non bastano.
Cos’è il fiscal drag
Il fiscal drag – o drenaggio fiscale – è una “tassa invisibile”, che ha luogo all’interno dei sistemi fiscali progressivi che non sono indicizzati all’inflazione.
Un sistema di tassazione è progressivo se, per esempio, a un incremento del reddito del 50 per cento, l’imposta aumenta del 70 per cento. È comunemente accettato che quel 20 per cento trova giustificazione in termini di equità se corrisponde non solo a un incremento nominale del reddito ma anche a un aumento reale, ovvero un incremento di reddito che permetta di comprare più cose di quante se ne potevano comprare prima.
Eppure, in molti paesi, tra cui l’Italia, l’aliquota aumenta anche se aumenta solo il reddito nominale senza che aumenti quello reale. Succede perché non neutralizzano il fiscal drag. Secondo OECD taxing wages 2023, sono 20 paesi su 38 presi in considerazione.
Il tema è rilevante in periodi di forte inflazione, in cui di solito i salari nominali crescono meno dei prezzi e quindi i salari reali scendono. Ne consegue che i cittadini pagano più tasse anche se sono più poveri in termini reali e i governi raccolgono più gettito. Il fiscal drag è una tassa occulta dovuta solo all’inflazione e non a una maggiore ricchezza reale, mentre trasparenza politica esigerebbe che le imposte si aumentino con una decisione legislativa e non con meccanismi automatici “invisibili”.
Il fiscal drag può essere sterilizzato, semplicemente indicizzando ai prezzi i limiti degli scaglioni e delle classi di reddito a cui fanno riferimento le detrazioni e le deduzioni. Alcune nazioni, come ad esempio Stati Uniti e Canada e tanti altri paesi, lo fanno già da molto tempo. Quando i redditi reali scendono, questi stati riducono il proprio gettito. Lì l’aliquota media dipende dal reddito reale e non nominale: aumenta se il reddito reale sale e invece scende se il reddito reale scende. È corretto che scenda perché non è giusto tassarti allo stesso modo se in termini reali sei più povero di prima. L’implicazione per i governi è che il gettito scende quando i redditi reali scendono.
La differenza con gli anni Settanta
Negli anni Settanta e Ottanta con “fiscal drag” si intendeva un concetto diverso. Si riferiva alle conseguenze del particolare sistema di indicizzazione dei prezzi e salari che vigeva allora. C’era infatti la scala mobile: i redditi nominali aumentavano, adeguandosi più o meno in modo simultaneo all’inflazione, lasciando di fatto quasi invariato il reddito reale.
In quel periodo il tasso di inflazione dei prezzi coincideva, con una buona approssimazione, col tasso di crescita dei salari e praticamente non era possibile che il reddito reale si riducesse perché la scala mobile lo manteneva più o meno sempre costante.
Ovviamente, se il reddito reale rimaneva costante, doveva rimanere costante anche l’aliquota media. In questo caso, un sistema fiscale progressivo non indicizzato, al crescere del reddito nominale, vedeva aumentare la quota di reddito da versare all’erario senza che il reddito reale fosse cambiato.
In altre parole, negli anni Settanta e Ottanta l’aliquota a cui si faceva riferimento per calcolare il fiscal drag era una aliquota media costante e non decrescente, come nel caso di reddito reale in discesa. L’implicazione è che il gettito del governo non poteva mai diminuire, ma ciò avveniva semplicemente perché il reddito reale veniva di fatto mantenuto costante. In quegli anni il fenomeno è stato una delle determinanti del forte incremento di gettito Irpef: insomma, il malcostume viene da lontano.
Ma adesso che non c’è più la scala mobile le cose cambiano: i redditi reali scendono quando c’è inflazione, non rimangono sempre costanti. Ad esempio, nel periodo 2019-2025 il tasso di crescita dell’indice dei prezzi al consumo risulta essere più del doppio del tasso di crescita dei salari, certificando una forte diminuzione di quelli reali e quindi della capacità contributiva dei lavoratori. Se si indicizza il sistema fiscale, volendo tenere conto dell’inflazione subita dai lavoratori, si deve utilizzare il tasso di variazione dell’indice dei prezzi al consumo. In tal caso il risultato sarà un’aliquota media inferiore a quella che si aveva nel 2019: se i salari reali sono diminuiti, la quota da pagare in accordo al sistema progressivo deve anch’essa diminuire e quindi l’aliquota applicata al reddito del 2025, dopo l’indicizzazione sarà inferiore a quella del 2019.
Un calcolo diverso
Così si spiega la differenza dei nostri calcoli rispetto a quelli di altri, ad esempio di Giampaolo Galli e Valerio Ferraro, sull’ammontare esatto di fiscal drag, da cui poi consegue anche il tema di quanta parte sia stata restituita ai cittadini dalle riforme fiscali del governo. Ovviamente, se il fiscal drag è piccolo, le riforme fiscali lo avranno più che restituito; se è grande lo avranno restituito a malapena.
Nell’applicare il metodo usato da noi e dalla letteratura per calcolare il fiscal drag (qui, qui, qui), Galli e Ferraro utilizzano come deflatore il tasso di crescita dei salari, pari per l’Italia al 7,95 per cento dal 2019 al 2023. E ottengono che il fiscal drag risulta essere di 12,3 miliardi. Le riforme introdotte dal 2019 al 2023 coprirebbero quindi il fiscal drag per ogni categoria di reddito.
Tuttavia, per le ragioni prima descritte, riteniamo che l’indice da utilizzare sia l’Ipca (Indice dei prezzi al consumo armonizzato) che per lo stesso periodo è pari al 17,2 per cento. Così facendo il fiscal drag, sempre dal 2019 al 2023 sale a oltre 25 miliardi. Risulterebbero così più che compensati dalle riforme fiscali i redditi sotto 35mila euro, ma non quelli cosiddetti medi fino a 45mila, come d’altronde confermato anche dalla recente audizione dell’Upb (vedi pag. 66). Tutti i paesi che indicizzano il proprio sistema di imposta sui redditi lo fanno utilizzando l’Ipca, escluse Danimarca e Lituania, che optano per il tasso di crescita dei salari.
Pensiamo che nella situazione attuale sia necessario prendere atto del fatto che il fiscal drag non può essere circoscritto solo all’incremento del gettito, come fanno Galli e Ferraro. L’incremento dei salari oggi non recupera assolutamente l’inflazione, come invece avveniva negli anni Settanta e Ottanta. I lavoratori sono più poveri in termini reali e nel fiscal drag rientra una parte di gettito che prima della fiammata inflazionistica era riscossa e ora non lo può più essere, perché la capacità contributiva reale dei lavoratori è diminuita.
La questione delle compensazioni
Una volta accettato e compreso quanto accaduto, è utile riflettere, attraverso qualche esempio, sull’entità del fiscal drag e delle compensazioni avvenute con le riduzioni fiscali.
Dalla tabella 1 si nota chiaramente come per i livelli di reddito medio-basso il fiscal drag sia stato più che compensato dalle riforme fiscali. Il metalmeccanico di settimo livello e il commesso di IV livello hanno un saldo positivo di quasi 400 euro, mentre nel comparto dell’istruzione il saldo è leggermente più basso. Per quanto riguarda i redditi lordi superiori a 40mila euro vi è, nonostante le riforme, una perdita netta di circa 1.000 euro.
I governi Draghi e Meloni hanno varato riforme fiscali per i sei soggetti del nostro esempio che avrebbero implicato una minore pressione fiscale attorno ai 1500 euro annui. Tuttavia, sono servite in gran parte solo a restituire il fiscal drag.
Per il metalmeccanico di settimo livello, ad esempio, 1127 euro all’anno. In altre parole, il 74 per cento delle minori imposte dovute alla riforma (1527 euro all’anno) non è stato altro che la restituzione dell’improprio incremento di imposte dovuto al fiscal drag. Nel caso del metalmeccanico quadro, addirittura, le riforme fiscali non hanno neanche restituito l’improprio incremento di imposte dovuto al fiscal drag. Nei confronti di questo lavoratore lo stato risulta ancora in debito di 1.029 euro. Un ragionamento simmetrico vale per il contratto istruzione e commercio e servizi.
Alla luce di questo meccanismo, vanno riviste alcune cifre ampiamente sbandierate dal governo per quanto riguarda i redditi bassi. Il metalmeccanico di settimo livello con le riforme fiscali dal 2019 al 2025 paga oggi meno tasse per 399 euro all’anno (circa 30,67 euro al mese) rispetto a quanto pagava nel 2019 e non 1527 euro all’anno (circa 117 al mese). Nel caso della classe media (il metalmeccanico quadro) addirittura vi è un incremento di imposte pari a 1029 euro all’anno, ovvero 79 euro al mese.
Insomma, se si decide di dire realmente cosa è successo, bisogna ammettere che le riforme fiscali di questi anni sono di fatto state una partita di giro, tutta interna al lavoro dipendente e ai pensionati, che ha redistribuito un po’ di soldi dalla classe media, impoverendola, alla classe a basso reddito, impedendo comunque a quest’ultima di fruire di gran parte dello sgravio fiscale che avrebbe dovuto ottenere dalla riforma, ma che è stato usato per restituire il maltolto.
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È professore ordinario di Economia dell'Università degli studi di Milano. Phd. in economia alla London School of Economics, è stato visiting scholar presso il Massachussetts Institute of Technology di Boston e l'Università di Berkeley. I suoi principali interessi scientifici riguardano l'economia del lavoro e in particolare temi legati a disoccupazione, disuguaglianza e redistribuzione. È stato, durante il governo guidato da Paolo Gentiloni, consigliere economico del presidente del Consiglio.
Si è laureato in Economia all'Università Cattolica di Milano. Ha conseguito il Master in Economics a Louvain-la-Neuve e il dottorato in Economia Politica all'Università Federico II di Napoli. E' stato Marie Curie post-doc fellow alla LSE. Si occupa di temi di economia pubblica e political economy con particolare riguardo alla finanza locale. Ha insegnato all'Università Cattolica di Milano e all'Università di Novara e Ferrara. E' professore ordinario di Scienza delle Finanze presso quest'ultima Università e research affiliate presso l'IEB dell'Università di Barcellona. Ha svolto e svolge attività di consulenza per vari enti pubblici. È stato membro del comitato direttivo della Siep (Società Italiana di Economia Pubblica) per il periodo 2015-2021. È redattore de lavoce.info. @leonziorizzo su Twitter.
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