Si parla di sovraistruzione quando un laureato svolge il lavoro di un diplomato. Ma quanti sono in Italia gli overeducated? E a che tipo di laurea appartengono? Essere in questa condizione costa: al singolo, ma anche alla società nel suo complesso. Cosa si potrebbe fare per superare il fenomeno.
UNO SPRECO DI CAPITALE UMANO
L’Italia è molto al di sotto degli obiettivi sul livello di istruzione secondaria superiore e terziaria fissati dall’Unione Europea nell’ambito di Europa 2020. Nel corso degli anni, il dibattito si è soffermato sulle cause e i possibili rimedi del basso livello di istruzione, mentre poca attenzione è stata dedicata al fenomeno della sovraistruzione, che si verifica quando un laureato lavora come diplomato.
Quanti sono gli overeducated in Italia? A che tipo di laurea appartengono in misura maggiore? Quanto costa essere overeducated? Come evitare che i giovani cadano in questa condizione? L’overeducation è una forma di spreco di capitale umano per l’individuo, la famiglia, l’università e la società nel suo complesso. L’investimento in capitale umano è estremamente costoso e aiutare le famiglie nelle loro scelte dovrebbe essere un obiettivo fondamentale del sistema di istruzione, non meno della formazione in sé e per sé.
Proponiamo qui una evidenza empirica abbastanza affidabile sul fenomeno dell’overeducation in Italia, fondata sui dati AlmaLaurea., e allo stesso tempo, cerchiamo di riflettere sulle cause, sulle conseguenze e i possibili rimedi. (1)
IL FENOMENO
Nei dati a disposizione, l’overeducation si verifica quando il titolo di studio non è stato necessario per acquisire il posto di lavoro, mentre l’overskilling si verifica quando le competenze acquisite nel percorso di studio non sono utili allo svolgimento del proprio lavoro.
Queste definizioni non devono trarre in inganno. L’overeducation e l’overskilling non denotano necessariamente troppo capitale umano, ma esattamente il contrario. Per capire l’arcano, va considerato che il capitale umano è costituito non solo dall’istruzione, ma anche dall’esperienza lavorativa generica, cioè trasferibile da un lavoro all’altro, e specifica, cioè acquisibile solo in un certo tipo di posto di lavoro. Il punto è che i nostri laureati hanno molte conoscenze teoriche, ma poche competenze pratiche, ciò che li spinge a lavorare in posti di lavoro che non utilizzano neppure le loro competenze teoriche.
L’overeducation e l’overskilling persistono anche a cinque anni dalla laurea con percentuali dell’11,4 e dell’8 per cento rispettivamente. La figura 1 riporta le percentuali per tipo di laurea, che resta senz’altro la determinante più importante sia dell’overeducation che dell’overskilling. L’overeducation oscilla fra zero e il 2,8 nel caso di medicina, architettura, chimica e farmacia, ingegneria e scienze; è invece oltre il 10 per cento per geologia e biologia (10,2 per cento), educazione fisica (12,2 per cento), lingue (13,2 per cento), scienze politiche (14 per cento) e letteratura (17,9 per cento). L’overskilling segue all’incirca lo stesso pattern, con una percentuale leggermente maggiore in ciascun tipo di percorso di studio.
Fonte: nostra elaborazione su dati AlmaLaurea.
La qualità della preparazione universitaria, misurata dal voto di laurea, ma anche dalla durata degli studi e dalla formazione post-lauream, incide molto sulla probabilità di overeducation/overskilling, suggerendo che l’overeducation dipenda non solo dalla bassa domanda di laureati, ma anche da una formazione poco orientata allo sviluppo di competenze spendibili nel mondo del lavoro.
Le esperienze formative post-laurea, la frequenza di corsi di formazione avanzata e di master rappresentano una sorta di assicurazione contro la probabilità di sovra-istruzione, confermando così l’importanza di rafforzare quelle istituzioni formative capaci di aumentare le competenze specifiche che i laureati non potrebbero acquisire altrimenti, né frequentando l’università né sul posto di lavoro
Le donne sono più spesso overeducated/overskilled, ma quando controlliamo per il tipo di laurea, la loro differenza in termini di rischio di overeducation si annulla poiché è colta già dal percorso di studi. In altri termini, le ragazze scelgono in prevalenza lauree che hanno un maggior rischio di overeducation.
Il background familiare caratterizzato da un livello di istruzione basso aumenta il rischio di overeducation, suggerendo che il nostro sistema, all’apparenza aperto a tutti, in realtà tende a perpetuare la struttura sociale esistente.
LA PENALITÀ SALARIALE
Un overeducated/overskilled guadagna fra il 15 e il 25 per cento meno della media dei laureati, proprio perché lavora in un posto per diplomato e usa poco le competenze acquisite all’università. Se si controlla per le caratteristiche osservate dei laureati, la penalità salariale scende al 12 per cento per l’overeducation e al 7 per cento circa per l’overskilling. Ciò conferma che i sovraistruiti hanno caratteristiche del capitale umano inferiori alla media. E spiega in parte perché guadagnano meno degli altri laureati.
Correggendo per il possibile errore nella selezione del campione, dovuto al fatto che non si considerano i laureati non occupati, si è stimato che la penalità aumenta di poco più dell’1 per cento: ciò suggerisce che, come ipotizzato dal job competition model e dal job assignment model, i disoccupati hanno un capitale umano di qualità leggermente inferiore rispetto agli occupati e quindi avrebbero una maggiore probabilità di essere overeducated/overskilled se occupati.
CHE FARE
Quanto ai rimedi, vanno considerati sia quelli dal lato della domanda sia quelli dal lato dell’offerta di capitale umano. Dal lato della domanda, è evidente che se ci fosse un tipo di sviluppo economico più orientato a produzioni che usano lavoro ad alta qualifica, la domanda di lavoro per i laureati sarebbe più alta, riducendo la quota degli overeducated/overskilled. Ma per aumentare la domanda occorre anche aumentare l’offerta di capitale umano: lo sviluppo tecnologico a favore delle alte qualifiche è endogeno e si sviluppa quando il capitale umano è abbondante e perciò a buon mercato.
Dal punto di vista dell’offerta, la nostra analisi suggerisce la necessità di intervenire sia sulle istituzioni che regolamentano la transizione scuola-lavoro sia sulle caratteristiche individuali dei giovani. In primo luogo, occorre aumentare la qualità dell’istruzione terziaria e del capitale umano in generale. Non è sufficiente aumentare la percentuale di laureati se questi hanno poi competenze poco collegate al mondo del lavoro. Un miglioramento della qualità dell’istruzione si potrebbe ottenere anche dando piena attuazione al processo di Bologna. Occorre, innanzitutto, rilanciare il percorso del 3+2, con una laurea triennale generalista, orientata al lavoro, con percorsi anche di formazione in azienda, e pieno riconoscimento del titolo di studio nel mondo del lavoro. Invece, il biennio deve essere fortemente specialistico e consentire percorsi di alto profilo, ma pur sempre con formazione in azienda, quando il corso di laurea non è strettamente rivolto alla formazione accademica.
Per coloro che sono fuoricorso oppure abbandonano il percorso universitario principale, bisogna fornire la possibilità dell’università professionalizzante, come in Germania. Spesso il ritardo e l’abbandono universitario sono una conseguenza della scarsa motivazione, dovuta al tempo troppo lungo che occorre per conseguire il titolo e alla scarsa utilità pratica dello stesso percepita dallo studente.
In secondo luogo, occorre migliorare l’attività di orientamento nella scelta degli studi in tutte le fasi del percorso universitario, sia prima, che durante e dopo. Nella fase post-lauream, occorre incentivare l’utilizzo delle competenze teoriche acquisite. Uno strumento potrebbe essere l’apprendistato per l’alta formazione, previsto dal Testo unico del 2011.
(1) Questo articolo è una sintesi di un lavoro più ampio e dettagliato: Caroleo, F.E. e F. Pastore (2013), “L’overeducation in Italia: le determinanti e gli effetti salariali nei dati AlmaLaurea”, Scuola democratica, in corso di pubblicazione.
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Stefania
Ma il sistema universitario 3+2 quando l’hanno creato non aveva già questo scopo? Altra domanda…ma il decreto del fare non sta disincentivando l’istruzione secondo Voi?
Randolph Carter
sì, ma il 3+2 di oggi in molte università il percorso di studi è tutto pianificato per i 5 anni. In poche parole la laurea triennale è volutamente poco spendibile, in modo da “costringerti” a proseguire.
La convenienza per gli atenei mi pare chiara…
Claudio
Sono uno studdente di Ingegneria Civile, e mi sento di dire che in questo campo il 3+2 è stato assolutamente disastroso. 3 anni non sono sufficienti neanche a completare la preparazione di base di un ingegnere civile e ogni università italiana si è gestita autonomamente nella ripartizione di quei corsi “fondamentali” fra triennio e biennio. Figuriamoci se è possibile creare lo spazio per un profilo professionalizzante. Fra l’altro, i primi tre anni sono generalmente così impegnativi che non ha senso interrompere gli studi (tanto vale completare il percorso, se se ne ha la disponibilità). I laureati triennali che decidono di entrare nel mondo del lavoro con solo quella qualifica sono un esempio lampante di overeducation/overskilling: lo stesso Ordine degli Ingegneri ha oggi il problema di definire le mansioni dei laureati triennali in ingegneria. Peccato che, quando il sistema 3+2 venne introdotto, all’Ordine andasse più che bene.
I risultati che la laurea triennale in Ingegneria Civile è in grado di produrre la rendono molto meno conveniente di un semplice diploma di Geometra (o tecnico per l’ambiente e il territorio, come si chiama ora): si entra prima nel mercato del lavoro, si ha una preparazione molto più professionalizzante (lo dico per esperienza, alle superiori ho fatto il geometra) e si risparmiano i soldi dell’università.
pierluigi beomonte zobel
sono un ing. meccanico vecchio ordinamento (corso di 5 anni) cinquantenne, docente di meccanica applicata e di automazione industriale in una medio-piccola università del centro italia. L’esperienza personale dei miei (ex) studenti, che vanno a lavorare principalmente in azienda, mi fa pensare che il livello di overeducation nei laureati in ing. meccanica sia ampiamente superiore al 2,3 % del dato alma laurea, a spanne direi che sia almeno del 15-20 %. Questo dato credo si possa motivare con la presenza in Italia di molte PMI manifatturiere i cui prodotti, purtroppo, sono spesso nella fascia bassa di mercato avendo poco valore aggiunto. Bene in queste aziende l’ing. meccanico è spesso sottoutilizzato, nel senso che le sue competenze non vengono sfruttate realmente. Certo la forma-mentis dell’ingegnere lo rende molto utile e prezioso in numerosi ambiti aziendali, e forse questo fa si che molti ingegneri abbiano la percezione di utilizzare le proprie competenze tecniche, e chissà se questa è una possibile chiave di lettura dei risultati del sondaggio alma laurea, che ribadisco mi lasciano molto perplesso. La overeducation è poi ancora più marcata per i dottori di ricerca in ing. meccanica che in Italia hanno poche opportunità di lavoro e diverse aziende hanno paura ad assumere, proprio per il loro titolo superiore che aumenta il rischio di turn over per l’azienda.
Alessandro
Esiste uno studio sui laureati italiani che lavorano all’estero?
Io ho sempre avuto un dubbio su di loro: sono overeducated e/o overskilled e quindi, per evitare di svolgere in Italia un lavoro inferiore alle loro competenze o titoli preferiscono emigrare all’estero dove c’è una domanda maggiore, oppure emigrano all’estero nonostante abbiano la possibilità di un buon posto di lavoro qui in Italia perché preferiscono avere possibilità di carriera e/o compensi maggiori?
Luca Cozzuto
la percentuale di overskilled e overeducated sarebbe altissima se non ci fosse un costante afflusso di personale altamente qualificato all’estero ed un import corrispondente di personale poco qualificato. A questo punto l’universitá sembra essere piú una penalitá che un vantaggio in termini salariali e/o di carriera.
Valentina
Sono una laureata emigrata all’estero, non ti posso dare una risposta statistica, ma posso parlarti della mia esperienza.
Ho una laurea magistrale in Lingue culture e comunicazione internazionale, ho studiato giapponese per cinque anni e possiedo il livello di proficiency più alto.
Sono emigrata in Giappone, perchè ciò, in un modo o nell’altro, è sempre stato tra i miei obiettivi, ma anche perchè in Italia non c’erano sbocchi.
Ho passato quasi un anno a cercare un lavoro che desse valore ai miei studi e per qualche mese ho lavorato in un’agenzia di traduzione facendo proofreading di traduzioni altrui e vedendo testi in giapponese giusto un paio di volte al mese. Appena ho avuto l’occasione ho fatto le valigie e sono venuta qui, a svolgere un lavoro appagante, assolutamente in linea con i miei studi e le mie competenze.
Mi rendo conto che la lingua giapponese non è esattamente l’abilità più richiesta dal mercato italiano, sta di fatto che per chi fa questa scelta è quasi impossibile trovare un lavoro rispondente al proprio percorso di studi.
Sono d’accrdo anche su ciò che viene esposto nell’articolo. Io nel corso dei miei studi mi sono interrogata più e più volte su quanto ciò che stavo apprendendo potesse poi effettivamente essermi utile nel mondo del lavoro. Tanta tanta teoria, ma quasi niente di applicabile alla vita reale.
Savino
La vergogna italiana nel mondo dei curricula dei giovani iperpreparati buttati nel cestino. E tanti ignoranti che non sanno scrivere nemmeno bene in italiano hanno, invece,un posto fisso, sia nel pubblico che nel privato. Abbiamo dei selezionatori di risorse umane incompetenti e corrotti, che danno lavoro solo ai raccomandati e ai segnalati dai politici e dai loro capi. Ma, quelli che vengono assunti, non sono i più bravi e si vede da come siamo ridotti.Bisogna cambiare il verice, sia nel pubblico che nel privato, e bisogna cambiare i selezionatori.
aldo lanfranconi
L’overeducation che visto a 180 gradi si chiama dequalificazione nuoce anzitutto alle aziende: è più facile che un individuo che puo dare al massimo 100 dia 100 che questo succeda per chi puo dare 150. Per quest’ultimo manca il gusto del challenging e se gli chiedi 100, pur potendo dare 150, darà 70. Nei suoi anni d’oro l’IBM scartava più candidati sovraistruiti rispetto alle caratteristiche del job offerto che candidati leggermente sotto prepaati. Quanto al fatto che in Italia ci siano pochi laureati ciò è come quello per cui l’Austria ha poche navi. Il mercato del lavoro italiano non richiede grandi qualificazioni ; esistessero grandi qualificazioni queste non cambierebbero le caratteristiche del mercato del lavoro.
ALMALAUREA
“Il lavoro è come un palo: ha due capi. Se lavori per uno che se ne intende gli dai qualità, ma se lo fai per uno stupido, basta contentare
l’occhio.”
(A. Solzenitsyn)
Quattro manager su dieci non hanno la laurea
Il 37 per cento degli occupati italiani classificati come “manager” ha completato tutt’al più la scuola dell’obbligo.
Dati 2010, la situazione non è cambiata. La media dei 15 Paesi dell’Unione europea occidentale è del 19 per cento; in Germania, con un peso del settore manifatturiero simile al nostro, la consistenza dei
manager senza laurea arriva appena al 7 per cento.
Il gap fra laurea ed occupazione è uno dei punti centrali del ragionamento fatto da Almalaurea nel suo Profilo dei laureati 2012.
E’ un panorama di ombre e luci, che sfata anche alcuni luoghi comuni come quello dei troppi laureati (sostenuto ultimamente dalla rivista Focus e dal sindaco magnate di New York, Bloomberg, e rilanciato
nel nostro Paese): in Italia i laureati fra i giovani dai 25 ai 34 anni è la metà che negli Usa, 21% contro il 42.
“Sarebbe un errore imperdonabile sottovalutare o tardare ad affrontare in modo deciso le questioni della condizione giovanile e della valorizzazione del capitale umano” dice Andrea Cammelli, direttore
di AlmaLaurea. Già nel 2004-2008 L’Italia ha visto una riduzione delle professioni ad alta specializzazione (manager, imprenditori, liberi
professionisti) in controtendenza rispetto agli analoghi Paesi Ue, dal 31% della Gran Bretagna al 17% nostro. La situazione è peggiorata con la
crisi in un meccanismo che si mangia la coda, dice Cammelli. La struttura occupazionale italiana va ricondotta soprattutto al modello di specializzazione produttiva del Paese e ai tratti tipici del nostro
tessuto imprenditoriale: ridotta dimensione aziendale, prevalenza di una gestione familiare. “Un sistema produttivo arretrato non assorbe laureati” dice AlmaLaurea. La quota dei lavoratori con solo la licenza media raggiunge il 35,4% , contro il 22% della Ue e il 13,5 della
Germania. L’obiettivo Ue per il 2020 è il 40%, L’Italia non ce la farà (ora 15,9% i giovani e 24,7 le ragazze con laurea). E gli stranieri iscritti alle nostre università sono solo il 3,5%, contro l’8 dei Paesi
Ocse.
Il Profilo si pone quindi come obiettivo dare uno strumento agli atenei e al governo per valutare la situazione e migliorarla. La laurea nonostante tutto “rende”: nell’intero arco della vita lavorativa, l’occupazione dei laureati è del 12% superiore rispetto ai diplomati. Così crescono i figli dei non laureati che ottengonouna laurea: il 71%, aumentano i giovani di estrazione operaia (28%). I
lavoratori-studenti sono il 7,7 che sale al 23 e 18% per Giurisprudenza e
Magistero. La frequenza dichiarata è altissima ad Architettura, 91%, e Ingegneria, 81, bassa a Legge, 36% su una media di tutte le facoltà del
68. Considerando solo chi si immatricola nell’età canonica, l’età alla
laurea passa da 26,8 dei laureati 2004 a 24,9 anni di quellii 2012: 23, anni per i laureati di primo livello; 25,2 anni per i magistrali; 26,1 per i magistrali a ciclo unico.
Claudio Resentini
Interessante articolo per quanto riguarda l’analisi del fenomeno ma sui rimedi si rilevano alcune incongruenze.
Non sono affatto d’accordo sul fatto che per aumentare la domanda di lavoro per i laureati occorra aumentare l’offerta di “capitale umano” per renderlo più “a buon mercato”. E’ una visione economicistica del mercato del lavoro che non tiene in alcun conto della realtà di un paese in cui anche a laureati brillanti e/o con percorsi professionali già avviati si propongono già tirocini a 300 euro mensili!
Non si capisce poi come una laurea triennale possa essere nel contempo “generalista” e “orientata al lavoro”… magari però gli autori sono in grado di spiegarci questa apparente contraddizione in termini.
AlessioF.
A mio parere c’è un’impostazione sbagliata di fondo ovvero che l’università sia o debba essere un percorso professionalizzante. Certamente lo PUO’ essere, ma deve essere innanzitutto un percorso formativo. Le statistiche e le critiche al mondo universitario, sempre lecite ed anche costruttive, spostano il fuoco dell’attenzione da quello che, a mio parere, è la vera lacuna del sistema italiano: la formazione post universitaria ed il raccordo tra lavoro ed istruzione. Le vere fabbriche di titoli sono qui ed è piuttosto evidente che se mi fregio anche del master x o della specializzazione Y, ma non trovo uno sbocco lavorativo coerente sarò statisticamente overskilled, mentre in realtà le cose sono diverse. Ancora: Quanti abbandonano o non intraprendono una formazione post lauream visto l’effettivo apporto che essa dà? Quanto è facile fermarsi ai titoli acquisiti nel cv di un candidato, senza valutare la sostanza di quei titoli? Qual è il ruolo del diritto allo studio nella formazione specialistica?
E’ in definitiva possibile “pesare” la sostanza di un titolo?
Il mercato certamente ha la necessità prima che l’obbligo di provarci, ma certo lo stato potrebbe fissare meglio le regole di base in cui si muovono i selezionatori: l’abolizione del valore legale del titolo di studio potrebbe essere un buon inizio. Solo allora si vedrà come i diplomati, laureati, dottorati e specializzati si posizioneranno, anche valutando gli istituti di provenienza, nel mercato del lavoro.
Ancora: sarebbe auspicabile una limitazione non al momento dell’accesso all’università, ma all’accesso/tirocinio di molte professioni con esami severi e pochi posti selezionati (per concorsi o graduatorie) e remunerati. Solo con la qualità e la remunerazione della qualità si riuscirà a contemperare la doppia esigenza della ricerca di figure specializzate e della desiderio di (auto)formazione di profili siffatti.
Finanziamenti alla formazione in azienda.
Istituzione di giornate di job market settoriali.
Pubblicizzazione delle graduatorie di merito delle università italiane (ora sembra che ci siamo grazie al rapporto anvur..)
Meno assistenzialismo ad ex occupati in favore di un reinserimento anche previo nuovo percorso formativo.
Semplificazione dei contratti di lavoro: sarà l’azienda a decidere se preferire l’esperienza di un 50enne o la freschezza di un 25enne.
Possibilità di iniziare gli stages ed i tirocini obbligatori anche prima della laurea.
Solo alcune idee buttate lì di getto in reazione all’articolo.
Cordialità .
Mauro Palumbo
Il saggio segnala un problema assai grave, per correggere il quale non si fa abbastanza. Da parte mia aggiungo un elemento che reputo rilevante: la legge 92/2012 introduce finalmente in Italia il tema del riconoscimento degli apprendimenti non formali e informali e apre la possibilità che le università riconoscano in termini di crediti formativi (modificando l’art. 14 della legge 240/2010) l’esperienza comunque acquisita. Questo permetterebbe di bilanciare dal lato adulti la presenza di laureati dotati anche degli skill necessari. Una sfida che spero le Università siano in grado di cogliere, riconoscendo all’utenza adulta un’importanza per ora assolutamente sottovalutata.
Mauro Palumbo
Francesca
cioè in pratica vorresti che l’università riconoscesse il lavoro che hai fatto fino adesso in termini di crediti, così puoi prenderti una laurea dando 6-7 esami ed essere un adulto laureato? Detta in parole povere…
lavoceinfo
Approe
Inviato da iPhone
Il giorno 27/lug/2013, alle ore 06:12 PM, “Disqus” ha scritto:
Stefano
Ho 45 anni, sono un modesto ragioniere, dirigo un team di 8 persone quale responsabile di funzione all’interno di un’azienda del settore utility ed ho riscontrato il fenomeno numerose volte in occasione di nuove assunzioni sia all’interno della mia équipe che di altre unità di lavoro. Occorre però tenere presente, e la mia esperienza lo conferma, che c’è una sostanziale differenza tra overeducation e overskilling teorici e pratici. Spesso il laureato ottiene una posizione inferiore a quanto il suo livello di studio ed esperienza (poca) gli consentirebbero a livello teorico in quanto, alle prove pratiche, dimostra competenze e conoscenze nettamente inferiori a quanto riportato sui curricula.
Stesso problema per i diplomati per cui si può dedurre che la qualità dell’istruzione abbia avuto un decadimento generale. Nella mia esperienza questo sarebbe confermato confrontando il livello di formazione acquisito da mio figlio, che ha studiato nella vicina Francia, il quale, pur avendo ottenuto un risultato finale deludente ha però acquisito competenze pratiche nettamente superiori a quelle conseguibili dai coetanei nel nostro paese.
Fab
Non è che ci vogliono chissà quali studi a capirlo:
a) il diploma si da a tutti dal più somaro al più bravo, nessuna selezione, una sorta di scuole medie di un tempo.
b) le lauree triennali sono il diploma di un tempo, le lauree tre + due sono molto teoriche perchè collegamento fra teoria e pratica ossia fra università e mondi del lavoro è molto poco diffuso.
A parte tutto poi, tutte ste aziende italiane che hanno bisogno di chissà quali cervelli sono leggende metropolitane che servono solo a giustificare l’università di massa dove chi ci mangia davvero sono i professori e l’indotto (personale amministrativo, ecc.. ), ma siccome il numero chiuso fatto seriamente e i licenziamenti dei prof universatori sono tabù e allora il disastro dell’università di massa continuerà!!
Ma a parte questo poi mi sembra anche ovvio perchè se nel parlamento italiano sono in 900 ( più del doppio della Cina e USA ) a fare chiacchiere e prendersi stipendioni e quindi forniscono un pessimo esempio, che l’università si autoriformi seriamente è mission impossible!!!!!!!!!!!!!!
Saluti.
Fab
alessandro
Buongiorno,
leggendo questo articolo ho provato a capovolgere il problema: e se non fossimo in presenza di overskilling e overeducation, ma al contrario fossero le universita’ a sopravvalutare il loro valore? lo dico da direttore generale di una media azienda che fa selezione di persone in piu’ paesi d’Europa. Un’azienda ha sicuramente bisogno di persone valide che producano valore e io se ne trovo di questi elementi provo a tenermeli stretti…pero’ che fatica trovarne in Italia. CV perfetti che alla prova pratica si rivelano un romanzo di fantasia, megatitoloni di master e corsi e poi mancano nozioni di base sulla partita doppia e cosi via, non parliamo della voce lingua straniera dove la parola piu’ ricorrente e’ Fluent…
io credo che abbiamo bisogno di piu’ umilta’ e di piu’ severita’ nelle scuole, il buonismo non e’ mai stata una medicina efficace, il mercato (internazionale) poi fa la vera selezione al di la dei titoloni scritti su un foglio A4.
saluti
alessandro
Fabio
Assolutamente d’accordo. Forse i ragazzi dovrebbero studiare più seriamente, anzichè accumulare titoli. Per più seriamente, intendo approfondire quello che studiano, metterlo in pratica. E soprattutto continuare a studiare anche dopo l’università, sul lavoro. Riporto la mia esperienza: ho studiato economia, mi sono sciroppato ore e ore di modelli matematici e statistica. Alla fine in azienda volevano che io sapessi molto bene la contabilità. Che ho fatto? Me la sono studiata! E adesso ho una buona padronanza del bilancio. Tuttavia conosco persone che si rifiutano di studiare la contabilità (ma l’esempio può valere per le lingue, l’informatica, il diritto), lo ritengono degradante, da ragionieri… Questo, a mio parere, è il vero problema: poca umiltà e disponibilità a studiare tecniche utili per il lavoro.
gianmarco
Assolutamente in disaccordo con quello che stai dicendo e ti dico anche il perché: ex studente di Economia e Commercio che ha conseguito solo la laurea dei 3 anni, una laurea completamente inutile per vari ordini di motivi:
1) troppi esami nell’arco dei tre anni: io ne ho fatti ben 26, quando nell’ordinamento vecchio a 5 anni se ne contavano 24. Se a questo aggiungi anche la severità dei professori rischi di non uscirne più.
2) la nostra università ha solo un’impostazione teorica: studi, studi, studi per che cosa? Per niente, perché il giorno dopo l’esame il libro lo hai dimenticato. Tu lamenti grandi lacune nella partita doppia, sai perché? Perché all’università studi solo le voci interne alla partita, fai due esercizi e poi ci vediamo all’esame. L’università non ti insegna nulla di concreto. Se vuoi veramente che uno studente quando esce sia, non dico pronto, ma almeno preparato sulle basi devi metterlo di fronte a casi concreti: serve tanta pratica perché poi le aziende non ci fanno niente con i teorici. L’università dovrebbe colmare le lacune esistenti nella transizione scuola-lavoro, altrimenti prendi solo un pezzo di carta da appendere al muro con una cornice. La colpa è anche delle aziende: chiedevate la flessibilità, l’avete avuta e che cosa ci avete fatto? Avete continuato a perseguire i vostri scopi capitalistici, profitto, profitto, profitto a tutti i costi. Prendo un giovane, lo faccio sgobbare a 500 euro al mese per 2/3 anni e poi lo caccio e me ne prendo un altro: questo fanno le aziende italiane, non facciamo gli ipocriti. Manca il dialogo tra voi aziende e lo Stato, non siete due entità diverse. Quindi non parlare di severità, perché ti assicuro che ce n’è già abbastanza, forse parli perché non ci sei mai andato, ma prendersela con i giovani quando poi per 3 anni li fai sgobbare come muli per 400 euro al mese è troppo semplice.
3) L’italia purtroppo non è un paese per laureati e lo dimostra la scarsa spesa sia pubblica che privata in R&S: siamo tra i paesi industrializzati che spendono meno e i laureati che aspirano ad avere un futuro migliore non possono che andare via dall’Italia. Molti amici ingegneri, molto preparati, si sono visti chiudere le porte in faccia, sai perché? Perché l’azienda non poteva permettersi il suo stipendio, quindi o stava lì per 1000 euro al mese o se ne andava.
Ti ho elencato 3 ordini di motivi, ma non sono gli unici. La realtà è che voi aziende pensate solo ai vostri interessi e scaricate le colpe sulla fascia più debole della società quando poi, a conti fatti, siete i primi responsabili dell’attuale situazione del Paese. Cominciate a pensare più alle persone che avete di fronte come “esseri umani” e non come “macchine al vostro servizio” e vedrai che forse le cose potranno cambiare.
gloria
Domanda: è possibile ridurre il numero di parole prese dall’inglese? Perchè non iniziamo ad usar e a coltivare di più la nostra lingua che all’estero è molto apprezzata e fonte di guadagno per chi in Patria è considerato “sovraistruito”?
Lettrice di italiano in Australia
vincenzo
Sono perfettamente d’accordo con Alessandro e fab. Il 3+2, che l’articolo vorrebbe addirittura potenziare, pretende di rispondere con una mediocre aziendalizzazione, che ha addirittura le sue basi nelle teorie operaiste di fine anni 60 e nel mito del superamento della divisione tra lavoro intellettuale e manuale, alla mediocre qualità dei percorsi formativi universitari e secondari e proprio delle tanto bistrattate ”conoscenze teoriche”.Da qui, fra l’altro, la proliferazione di inutili master accessibili solo ai figli dei ricchi
Fabio
Gloria ha perfettamente ragione! Troppi anglicismi!
Fabio Gori
Condivido l’idea di fare anche delle università professionalizzanti;
sono presenti non solo in Germania ma anche nei Paesi Bassi, e suppongo
altri paesi. Ho fatto il dottorato ad una università, ma accanto c’era la Hogeschool HAN (HBO) che rilasciava bachelor e masters professionali. È assurdo che in Italia ci sia solo l’università “teorica” ad offrire formazione post-diploma.
Visto il calo degli iscritti universitari, magari adesso c’è già del
personale in esubero da poter utilizzare in queste scuole. Come promuovere sviluppi in questa direzione?
Carlo
Tradurre educated con educati invece che istruiti non è segno di grande, beh, istruzione!
Paola Villa
Concordo con il commento di Carlo. L’ uso di inglesismi errati è inaccettabile da parte di docenti universitari, come Caroleo e Pastore, persone istruite che dovrebbero scrivere in buon italiano. Purtroppo è un fenomeno così diffuso che anche gli studenti usano “educazione” al posto di “istruzione”, in modo simile ” fertilità” al posto di “fecondità”, ecc. La Redazione di lavoce.info dovrebbe cercare di correggere questi intollerabili errori controllando la forma di chi non sa più scrivere in italiano.
Carlo
Sono fermamente convinto che la maggior parte dei lavori nelle aziende e nella finanza non richieda alcun tipo di laurea. Mi sono laureato con 110 alla Bocconi e lavoro da tempo in finanza a Londra. Il 90% di quello che ho studiato si è rivelato fuffa inutile, il 90% di ciò che mi serve sapere l’ho imparato sul campo. L’inutilità dell’istruzione universitaria è particolarmente elevata in questi settori perché economisti e aziendalisti, a differenza di medici avvocati biologi etc, hanno la pretesa di insegnare realtà che conoscono poco, e solo superficialmente. Un docente di medicina è un medico, un docente di diritto è tipicamente un avvocato etc, ma un docente di materie economiche o aziendali molto raramente è un dirigente che sa bene cosa significhi gestire un’azienda. Non a caso abbondano casi di imprenditori fattisi da sé, e di manager con fior fior di master che falliscono miseramente, mentre non esistono neurochirurghi autodidatti! L’economia, poi, non è una scienza perché non rispetta il concetto galileiano di testare le teorie e abbandonare quelle che si rivelano false.
elena
lettura interessante
ciao
Pino
Alessandro
Perfettamente d’accordo con il commento di Gloria del 4/8/2013. Ho smesso di leggere l’articolo, peraltro interessante, quando giunto a metà mi sono reso conto che gli autori non volevano smettere di baloccarsi con overeducation, overskilling, background, job application…
A questo punto perché usare post-lauream, meglio post-graduation, no?
In Italia è difficile un approccio culturale e ragionato ai problemi anche perché chi fa informazione non si preoccupa (più) di farsi capire.
hübner
Articolo interessante e preciso. Ma una domanda: che bisogno c’è di utilizzare tutti questi anglicismi? Overskilled, overeducated, etc.? Parole italiane per questi concetti esistono già. Quanto vi piace “fa l’ammerigani”, pensando abbia un effetto professionale. Ebbene, non lo ha. Su una pubblicazione scientifica, poi, si rasenta il ridicolo. “step”, “jobs act”, “spending review”, “location”, “food and beverage”, “packaging”. Torniamo a utilizzare bene la nostra lingua, non male quella di altri.
guido
Gli anglicismi sono semplicemente i termini tecnici che tutta la comunita’ scientifica internazionale utilizza per esprimere determinati concetti. Utilizzarli evita fraintendimenti. Inoltre i termini inglesi rendo spesso l’idea da trasmettere con grande semplicita’. trovo molto piu’ immediato capire overskilled che “persona con competenze professionali maggiori di quelle necessarie a svolgere il suo lavoro”! Per fortuna ci sono cultori di discipline umanistiche come gloria che riescono a trovare il termine italiano equivalente piu’ appropriato mettendo cosi’ a frutto le loro competenza professionali.
hübner
Perfettamente d´accordo sul fatto che siano usati dalla comunità scientifica internazionale. Ma trasportarli anche nell’italiano è assolutamente superfluo, nonché pericoloso, visto che i “cultori di discipline umanistiche” ex post non sono neanche lontanamente influenti come chi introduce il termine per primo.
Non c’è bisogno di esagerare come ha fatto Lei con una locuzione del genere, basterebbe utilizzare “sovraistruito” e “sovraqualificato” al posto di “overeducated” e “overskilled”. A riprova di ciò c’è il fatto che gli autori hanno dovuto specificare nell’articolo il significato dei “termini professionali”.