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Quell’inciucio locale che frena il credito

Tre casi recenti indicano che per le fondazioni bancarie le lezioni della crisi sembrano essere servite a poco. Continuano a perpetuare un sistema in cui la politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario. I rischi per l’economia italiana e il passo indietro dei partiti.
TRE CASI EMBLEMATICI
Le nostre banche vivono un momento difficile. Otto di loro sono state messe sotto sorveglianza speciale dalla Banca d’Italia, perché hanno accantonamenti insufficienti a coprire i crediti deteriorati. Il passaggio al sistema di supervisione bancaria unica presso la Bce comporterà controlli ancora più stringenti. Negli anni a venire la maggior parte dovrà ristrutturarsi pesantemente per abbattere i costi e riguadagnare efficienza. Le banche dovranno rafforzare il loro patrimonio e selezionare meglio i loro impieghi. Prima lo fanno, tanto meglio è, non solo per le banche in sé ma per l’economia italiana che senza un sistema bancario ben funzionante rischia di trasformare la ripresa in una lunga stagnazione. Le interferenze politiche cui il sistema bancario italiano è soggetto possono però bloccare e distorcere il processo.
A poco sembrano essere servite le lezioni di questa crisi: le perdite patrimoniali patite dalle fondazioni per aver concentrato il loro investimento nella banca di riferimento, gli effetti sulla gestione delle banche della presenza delle fondazioni, di cui il caso Mps è la rappresentazione plastica. Oggi tanto quanto ieri la politica non molla la presa sulle fondazioni bancarie e, attraverso queste, sulle banche. Tre casi ne sono la testimonianza. Primo quello della Fondazione Carige, che si è opposta strenuamente all’aumento di capitale di 800 milioni di Banca Carige richiesto da Banca d’Italia, pur di non vedere troppo diluita la propria quota (47 per cento) nel capitale azionario della banca ligure. Per questo ha fatto dimettere tutti i propri rappresentanti nel consiglio d’amministrazione di Banca Carige forzando il rinnovo dei vertici dell’istituto. Sarà ancora una volta la fondazione a scegliere i vertici della banca, che ha storicamente distribuito almeno 7 euro su 10 di utile alla Fondazione invece di usarli per rafforzare il patrimonio, avendo ai posti di comando una serie di politici locali, da ultimo il fratello dell’ex ministro Scaloja. L’esito più probabile è che a guidare l’istituto saranno messi il vice-presidente della Fondazione – già candidato sindaco per il Pdl- assieme ad un esponente dell’attuale comitato esecutivo della banca. Diversi politici locali (dal governatore Burlando all’ex senatore Luigi Grillo), a parole, chiedono che la politica si astenga dall’intervenire, ma da che pulpito viene la richiesta?
A Sassari l’avvicendamento, nei mesi scorsi, ai vertici del Banco di Sardegna e della sua fondazione, appannaggio da anni di politici di centro sinistra, è stato caratterizzato da una transumanza di poltrone: il presidente in scadenza della Fondazione, Antonello Arru, diventa presidente del Banco e si fa sostituire alla presidenza della Fondazione da Antonello Cabras, ex senatore Pd non rieletto. Nessun cenno a una dismissione della sostanziosa e per questo rischiosa partecipazione nel capitale del Banco (49 per cento del capitale). Anzi, è stata riaffermata ostinatamente la volontà di mantenerla per “meglio difendere il credito locale dal tentativo di erogarlo altrove” cedendo il risparmio dei sardi agli “stranieri”, questi ultimi essendo presumibilmente i modenesi della Bper che esercitano il controllo. Non c’è dubbio, i politici sono bravi a toccare le corde del localismo e del nazionalismo isolano; è il loro mestiere. Meno bravi a fare i banchieri e garantire rendimenti più elevati alle fondazioni che amministrano. Le uniche voci critiche all’operazione si sono levate da alcuni spiriti liberi del centro-sinistra; l’opposizione di centro-destra avrebbe avuto vita facile nel denunciare il gioco di poltrone fra la Fondazione Banco di Sardegna e la banca omonima, ma ha taciuto. Il silenzio talvolta parla più forte delle parole. In questo caso annuncia che quelle pratiche non destano scalpore perché sono essenzialmente condivise: i politici, siano di centro-destra o di centro-sinistra, non hanno alcun dubbio che uno di loro (politico buono o cattivo che sia) possa anche essere un ottimo banchiere. O, forse più correttamente, il dubbio lo hanno ma non gli conviene ammetterlo.
Il terzo caso è quello senese. A Siena si procede al rinnovo del consiglio della Fondazione che ha portato il Monte dei Paschi sull’orlo del fallimento come se niente o ben poco fosse avvenuto. Il rinnovo avviene sullo sfondo delle rivelazioni del presidente uscente della Fondazione, Gabriello Mancino, che ha tolto il velo al re testimoniando ai giudici inquirenti – e quindi ufficializzando a tutti quello che tutti sapevano ma non ammettevano – come le nomine siano sempre state fatte dai “maggiorenti della politica locale e regionale, con l’approvazione del Pdl all’opposizione, con la condivisione della politica nazionale ai massimi livelli (Gianni Letta, sentito Silvio Berlusconi)”. Analogo discorso per le nomine nelle società controllate, soggette a “una forte ingerenza dei partiti” e per i “finanziamenti dei progetti da parte della Fondazione” oggi vicina a portare i libri in tribunale.
IL CAMBIAMENTO POSSIBILE
Questi tre esempi provano l’esistenza di un sistema, condiviso dall’intero arco dei partiti tradizionali, in cui la politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario attraverso il “mercato” delle nomine nelle fondazioni bancarie e (attraverso queste) nelle banche. Il mercato avviene nell’ombra, forse nemmeno nelle segreterie, ma spesso in limitati gruppi di controllo all’interno dei partiti che accettano scambi trasversali. È un controllo fine a se stesso, serve solo a estendere le carriere dei politici. Tipico il caso della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata che ha bruciato il proprio patrimonio investendo il 70 per cento del proprio capitale in BancaMarche, lasciando peraltro che la banca, ignorando i richiami della Banca d’Italia, contravvenisse a ogni principio di sana e prudente gestione. Oppure della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara che, pur detenendo il 54 per cento della Cassa di Risparmio, l’ha docilmente accompagnata al commissariamento. Oggi la Fondazione si trova costretta a mettere i propri dipendenti in cassa di integrazione. Oppure ancora della Fondazione del Monte di Parma, salvata solo dall’intervento di Banca Intesa, che ha acquistato la sua quota di controllo in Banca Monte Parma.
I casi Mps, Carige e Sassari sono perciò tutt’altro che isolati. E l’assenza della politica dalle fondazioni è l’eccezione non la norma, come dovrebbe essere. Per questo, infatti, le fondazioni furono create: per dare alle banche un padrone diverso dal Tesoro e lontano dalle segreterie dei partiti. Purtroppo, la storia ha preso fino ad ora un’altra piega.
Ma non è mai detta l’ultima parola. La politica che interferisce può decidere di smettere di farlo, ma occorre la volontà di operare in tale senso, denunciando un sistema improprio e dichiarando di volerlo abbandonare. Matteo Renzi oggi si presenta come una persona esterna agli inciuci locali che pervadono la politica nazionale, giungendo talvolta fino a condizionare gli equilibri per la formazione di maggioranze di governo in un momento molto delicato per il nostro Paese. Se Renzi vuole dimostrare nei fatti di avere queste caratteristiche, può segnalarlo prendendo una semplice iniziativa. Chieda al sindaco di Siena, definito “renziano” dalla stampa, che il rinnovo dei vertici della Fondazione Mps avvengano in modo trasparente, con la definizione di criteri di competenza e l’adozione di bandi aperti a tutti coloro che soddisfino i requisiti. Chieda che si adottino per le fondazioni bancarie gli stessi criteri di apertura e trasparenza che lui giustamente pretende per le primarie del suo partito. Con un mandato chiaro: separare la fondazione dalla banca.

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  1. Alessio

    I soldi sono finiti nelle fondazioni. nuovi aumenti di capitale sono richiesti. Chi ha i soldi da metterci? gli stranieri. comprano gli stranieri i titoli del debito pubblico? chissà

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