Il costo delle riforme delle pensioni è stato sopportato in minima parte dai pensionati. I giovani rischiano di pagare due volte. Oggi, perché entrano in un mercato del lavoro duale con altissima disoccupazione, domani perché avranno una pensione molto più bassa dei loro padri in età più avanzata.
LE RIFORME DAL 1992 A OGGI
Lasciate stare i pensionati! Questa l’invocazione di Fracaro e Saldutti sul Corriere della Sera, secondo la quale ai pensionati va concessa una tregua da ulteriori cambiamenti dell’età previdenziale, dell’indicizzazione delle pensioni e da altre misure restrittive. “Pensionandi, e pensionati” dicono Fracaro e Saldutti “hanno il merito di aver fatto i sacrifici necessari per aiutare i conti pubblici”. Ma le cose stanno veramente così?
Partiamo dall’inizio, ovvero dalla situazione previdenziale in Italia nel 1992, alla vigilia delle riforme Amato e Dini. Il sistema retributivo in vigore garantiva pensioni molto generose, con tassi di rimpiazzo pari all’80 per cento del salario medio degli ultimi cinque anni prima del pensionamento (ovvero i salari tipicamente più elevati della vita lavorativa), per i lavoratori con 40 anni di contributi. I benefici previdenziali erano indicizzati al tasso di crescita dei salari – e dunque crescevano più dell’inflazione, assicurando un aumento del potere di acquisto durante gli anni trascorsi in pensione. Infine, l’età di pensionamento era estremamente bassa: a 58 anni la metà dei lavoratori era già transitata dal mercato del lavoro alla pensione. Questo sistema previdenziale era insostenibile sul piano finanziario ed iniquo su quello intergenerazionale. Infatti, gli elevati rendimenti sui contributi previdenziali assicurati ai pensionati e pensionandi degli anni 80 e 90 si sarebbero rivelati molto maggiori di quelli che goduti dai pensionati futuri.
DINI, AMATO, FORNERO
In seguito alla crisi valutaria del settembre 1992, una riforma delle pensioni, a lungo osteggiata dai sindacati, fu rapidamente approvata dal governo Amato. La generosità dei benefici previdenziali venne sostanzialmente ridotta, l’età normale di pensionamento aumentata e le pensioni furono indicizzate ai prezzi, e non più ai salari. Queste misure miglioravano la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale, poiché assicuravano una riduzione pari a 1600 milioni di lire (del 1992) della ricchezza previdenziale netta (ovvero la differenza tra i benefici previdenziali presenti e futuri da pagare e i contributi, presenti e futuri, ottenuti dai lavoratori). La sostenibilità politica della riforma si ottenne invece disegnando un lungo periodo di transizione, che tenesse al riparo dalle misure restrittive coloro che avevano raggiunto almeno 15 anni di contributi alla fine del 1992. A quanto ammontava il contributo sacrificale di pensionati e pensionandi alla riforma Amato? Secondo alcuni studi (1), agli ultra-sessantenni è toccato pagare solo lo 0,5 per cento del costo (misurato come la riduzione della ricchezza previdenziale netta) della riforma, contro il 7,8 per cento dei cinquantenni, il 23per cento dei quarantenni, ed il 32per cento di trentenni e ventenni.
Ed ai pensionati e pensionandi andò ancora meglio nel 1995, quando la riforma Dini modificò interamente l’architettura del sistema previdenziale italiano, trasformandolo da un sistema retributivo (a benefici definiti) ad un contributivo (nozionale) – ancora una volta con un lungo periodo di transizione, che garantiva l’incolumità previdenziale ai meno giovani. La riduzione della ricchezza previdenziale netta fu meno sostanziale – 151 milioni di lire (del 1992), ed interessò solo i più giovani: il 55 per cento fu a carico dei 30enni ed il resto a carico dei più giovani. Non una lira di riduzione fu sostenuta da pensionati e pensionandi.
Solo nel 2011, con la riforma Fornero, il periodo di transizione stabilito dalle riforme Amato e Dini è stato finalmente annullato, ma solo per i nuovi pensionati. Dal 2012 tutti i pensionandi sono passato pro-quota al sistema contributivo (nozionale), con una conseguente (minima) riduzione dei benefici previdenziali, ma solo per quelle (poche) coorti di lavoratori che avevano almeno 18 anni di contributi nel 1995 e che nel 2011 non erano ancora andati in pensione.
L’INNALZAMENTO DELL’ETÀ DI PENSIONAMENTO
Le altre misure attuate nei vent’anni dalla riforma Amato ad oggi hanno riguardato prevalentemente l’innalzamento dell’età di pensionamento. In diverse occasioni, sono state introdotte delle restrizioni che posticipavano il pensionamento di qualche mese, spesso in cambio di benefici previdenziali più elevati. E’ questo il grande sacrificio compiuto dai lavoratori italiani anziani per aiutare i conti pubblici? Per capirlo, vediamo cosa accadeva negli altri paesi Ocse. La figura 1 mostra l’età media di pensionamento in Italia, Grecia, Spagna e nella media dei paesi Ocse. A partire dalla seconda metà degli anni 90 l’età di pensionamento è aumentata quasi ovunque. E tuttavia l’età di pensionamento in Italia rimane di gran lunga inferiore che altrove. Se di sacrificio dunque si è trattato, i lavoratori anziani italiani sono stati meno generosi dei loro coetanei degli altri paesi Ocse.
Figura 1: Età media di pensionamento degli uomini nei paesi Ocse, 1985-2011.
Fonte: Ocse
LO SQUILIBRIO TRA GENERAZIONI
In realtà, tutto sembra indicare che le vere vittime sacrificali siano da ricercare nelle giovani generazioni, strette tra un mercato del lavoro duale ed un sistema previdenziale contributivo, che penalizza le carriere lavorative discontinue. I giovani rischiano di pagare il conto due volte. Subito, perché accedono ad un mercato del lavoro duale che produce elevata disoccupazione (giovanile) e precarietà. Ma anche da anziani, quando scopriranno che la loro discontinua carriera lavorativa si traduce in benefici previdenziali molto limitati. Secondo un nostro studio (2), se i giovani seguissero le scelte di pensionamento dei genitori il loro tasso di rimpiazzo sarebbe attorno al 50 per cento (contro il 70 per cento dei padri).
Per le giovani generazioni, un sostanziale aumento dell’età di pensionamento sarà dunque inevitabile. Anziché una tregua per i pensionati, un beau geste di equità intergenerazionale – magari volto a ridurre lo squilibrio di rendimenti previdenziali tra generazioni (si veda a questo proposito la proposta di Boeri e Nannicini) – sarebbe oggi più appropriato.
(1) Beltrametti L., 1996. Il Debito Pensionistico in Italia. Bologna: Il Mulino.
(2) Boeri T. and Galasso V. , 2013, “Is Social Security Secure with NDC?” in R, Holzmann, E. Palmer and D. Robalino (eds.) Nonfinancial Defined Contribution Pension Schemes in a Changing Pension World, The World Bank
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Francesco
Naturalmente i giovani pagheranno enormemente la crisi di adesso anche in termini di future pensioni molto magre (se ci saranno, beninteso); tuttavia qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai il bilancio contributivo dei lavoratori dipendenti è sempre stato in attivo e lo è tuttora, mentre chi ci fa andare in deficit sono gli autonomi (che evadono sia tasse che contributi) e soprattutto il considerare le pensioni di reversibilità, invalidità, ecc ecc a carico dell’INPS… Caro Galasso, è giusto sottolineare il cosiddetto conflitto generazionale (che è un conflitto tra poveri però), ma se tutti i lavoratori avessero lavorato 40 anni e versato i loro contributi regolarmente non ci sarebbe stato nessun bisogno di alcuna riforma. Per quale motivo il sistema contributivo attuale prevede un’età minima di pensionamento quando in un sistema contributivo (ricevo quello che ho pagato più un minimo interesse) dovrebbe essere il lavoratore a decidere quando smettere e basta, tanto prenderà quello che ha versato e non di più? L’elevamento dell’età di pensionamento, in un contesto di recessione, non fa che aumentare la disoccupazione giovanile e non potrebbe essere altrimenti, se il lavoro non cresce (anzi diminuisce) far rimanere al lavoro i vecchi significa far entrare i giovani più tardi. E’ inutile che diciate sempre il contrario mostrando gli scatter plot dei paesi nordici, lì c’è semplicemente più lavoro per tutti, correlation (tassi più alti di occupazione sia per i giovani che per i vecchi) is not causation (i tassi più alti di occupazione dei giovani sono causati da quelli più alti dei vecchi), non è Econometria questa?
Silvestro De Falco
La riforma delle pensioni è fallace e penalizzante per le generazioni future proprio per la presenza del sistema NDC, che non è altro che il metodo a ripartizione alla base dello squilibrio del sistema pensionistico, in cui i lavoratori attivi finanziano le pensioni pregresse con i loro contributi.
Se la riforma delle pensioni era stata effettuata a causa dell’invecchiamento della popolazione e della denatalità, e quindi del calo dei lavoratori attivi che avrebbero dovuto finanziare le pensioni delle generazioni precedenti, la cosa
logica da fare era ed è intervenire sulla causa mentre il passaggio al contributivo, un metodo di calcolo delle prestazioni pensionistiche, è un intervento
sugli effetti.
È grazie all’NDC che l’unico modo per garantire l’equilibrio del sistema corrente non può essere altro che abbassare gradualmente l’importo delle pensioni future – svalutandole di fatto, grazie a rendimenti legati al PIL, di molto inferiori a quelli anche solo dei BTP – e riducendo ogni due anni il coefficiente di trasformazione del montante
accumulato da ogni lavoratore attivo.
La soluzione era ed è una sola, cambiare il metodo di finanziamento a ripartizione e passare gradualmente
ad uno ad accumulazione – che prevede l’accumulazione reale del risparmio previdenziale – finanziando la transizione con la fiscalità generale.
Alessio Repetto
Sono d’accordo ma c’è anche da dire che i nonni e i padri fanno parte del welfare.
Se si tocca la pensione ad un genitore o ad un nonno si va inevitabilmente a sminuire il patrimonio dell’intera famiglia.
Era quindi evidente che non avrebbero potuto forzare la mano su chi già prende pensioni non certo d’oro come si pensa:con 1500,2000 euro di pensione netta non mi pare uno possa pensare di fare il nababbo magari se ha anche da pagare un affitto e aiutare i figli-nipoti.
L’unica soluzione è nello sviluppo futuro del lavoro che può permettere anche a noi giovani di ottenere una certa dignità,ma ripeto se toccassero fortemente e bruscamente quelle persone che adesso ci aiutano,la mazzata la sentiremmo subito senza avere la possibilità di combattere e rialzarci.
La conseguenza a questo punto inevitabile è il ritorno ad una famiglia vecchio stampo in cui i figli vivono a casa con i loro genitori fino ad età avanzate.
Mi rendo conto che non è giusto per gli sprechi che ben conosciamo di chi ha troppo e di chi ha troppo poco a questo mondo, ma mi pare al momento l’unico palliativo possibile: le vere soluzioni ovviamente devono essere altre.
Alessandro Repetto
Sinceramente mi sembra veramente perverso continuare ad accanirsi contro i pensionati. Ammetto che ci siano pensioni d’oro ma queste non sono certamente quelle comprese tra i 3000 ed i 5000 euro (netti). La norma sarebbe da applicarsi sopra questi valori.
Enrico
La pensione d’oro probabilmente non è da definire in base all’importo netto, ma in rapporto ai contributi versati: per me è d’oro una pensione da 700 €/mese se ottenuta con le baby pensioni (15 anni, 6 mesi e 1 giorno)., l’importo netto è basso, ma vengono percepite da 30 anni e magari ne hanno 60 adesso. Chi ne beneficia non ha versato assolutamente quanto ha percepito e percepirà (+ reversibilità etc)
Vitale Salvatore
Oltre la soglia di 3 mila euro mensili nette non è giustificabile la rivalutazione di pensioni calcolate con il vecchio sistema contributivo.
Bruno Cipolla
Propongo un contributivo retroattivo per tutti.
Che si possa andare in pensione quando si vuole, dopo cinque o cinquant’anni di contributi.
Si fa il calcolo, contributi versati, rivalutazione (*) speranza di vita e via!
(*) Se il sistema fosse ad accumulo la rivalutazione sarebbe corretta, ma con un sistema a ripartizione diventa un costo molto alto per lo stato.
EzioP1
Sarebbe ora di smetterla di mettere in conflitto vecchi e giovani e di guardare con sola emotività al teme delle pensioni. Parliamo chiaramente e diciamo che il sistema pensionistico retributivo è troppo generoso e quello contributivo troppo penalizzante e quindi la disonestà implicita del sistema va corretta. Il modo per correggerla è anche abbastanza semplice: 1) si deve stabilire che nel giro di massimo 10 anni tali disparità devono sparire; 2) per tutti i pensionati con il retributivo si calcoli quanto questi otterrebbero
con il contributivo e si stabilisca la scala decennale di rientro, ovvero un X% in meno anno su anno; 3) si stabilisca un tetto pensionistico ad esempio di massimo 10.000 euro lordi al mese e chiunque non deve superare detta soglia; 4) si stabilisca anche il minimo di pensione ragionevole per persona e per nucleo famigliare.
Dobbiamo smetterla di proteggere i nababbi in pensione e portare il sistema alla sua sostenibilità per noi, i nostri figli e nipoti, non lasciare a questi i nostri colpevoli disastri e omissioni.
Alfonso
Dipende da cosa si intende per carriere discontinue…i buchi iniziali pesano meno dei buchi finali nella carriera di un individuo. A fare la differenza sono i periodi centrali di inattività e maggiori di 3 anni. Se avessimo un welfare più serio, senza sprechi, e un contributivo a regime con alcune modifiche nella formula e magari introducendo una pension guarantee, sostenibilità ed adeguatezza non sarebbero in pericolo.
Jorge Pirola
Altro che “lasciare stare i pensionati”: la spesa pubblica negli ultimi anni di crisi ha continuato a crescere, di molti miliardi, solo e soltanto alla voce pensioni. L’affermazione più assurda dell’articolo del Corriere è quella finale, dove si invocano finalmente tagli proprio alla spesa pubblica…. ma non sanno gli autori che la voce nettamente più rilevante di tale spesa sono le pensioni? Come al solito si parla di tagli senza neppure fare uno sforzo per individuare dove e come.
Enrico
La pensione dovrebbe esseere un aiuto al mantenimento, non un modo per arrichhirsi, quindi giusta la proposta di un tetto massimo (es. 5000 €/mese lordi) con buona pace dei sindacati
Luigi Calabrone
La pensione, in un paese civile, non è un aiuto al mantenimento o una elemosina alimentare dello stato, che viene erogata ai bisognosi, indipendentemente al fatto che abbiano o meno lavorato. Nei paesi civili, la pensione è una retribuzione differita, e, come tale è commisurata alla “quantità e qualità del lavoro svolto” (Art. 36 Costituzione).
Nei paesi più civili dell’Italia – vedi la Svizzera – che non hanno sperperato i risparmi di tre/quattro generazioni nelle spese belliche e non hanno falsificato il valore della propria moneta, i lavoratori hanno pensioni a capitalizzazione, e, alla fine del lavoro, i capitali e gli interessi maturati, in via assicurativa, permettono ad ognuno di godere la relativa rendita. Nessuno mette in discussione tali rendite.
In Italia, purtroppo, le pensioni sono “a ripartizione”, cioè, dalla retribuzione di ogni lavoratore vengono detratte somme (contributi, Irpef, ecc.) che servono per pagare i pensionati.
Anche con questo sistema, la pensione – alta o bassa che sia – che verrà pagata alla fine del rapporto di lavoro, viene commisurata alle trattenute subite (contributi, Irpef) dal lavoratore durante il corso della sua vita lavorativa e all’anzianità di servizio maturata.
Se, da lavoratore, il pensionato aveva una retribuzione bassa e ha lavorato per un periodo breve, poco ha versato nelle casse dello Stato, ed avrà una pensione bassa, e viceversa.
“Pensioni d’oro” sono solo quelle che vengono pagate a chi non ha versato sufficienti contributi/tasse o/e non ha fatto il periodo di servizio che gli consentirebbe di andare in pensione. per esempio, i “pensionati baby”.
La pretesa di tagliare una pensione solo perché di importo elevato, di per se stessa è illegittima, anche a norma dell’Art. 36 della Costituzione, sopra citato: l’unico metro di giudizio è quello della proporzione tra contributi/Irpef pagati allo Stato durante il periodo di servizio e entità della pensione stessa.
Enrico
Ha ragione, sono perfettamente d’accordo con la sua conclusione
Bassano Perniceni
Le ricche pensioni dei dirigenti godono del blocco della rivalutazione Istat da due anni e del contributo di solidarietà almeno fino al 2017.
Da tempo tali pensioni hanno avuto un preciso tetto pensionabile per evitare il fenomeno delle pensioni d’oro.
Concordo pienamente con l’articolo del Corriere che almeno spiega in parte la situazione.
Franco da Parma
Alcune osservazioni: – prima del ’92 la percentuale per la pensione era differenziata per scaglioni di reddito.
– nel 1970 se non erro entrò in vigore la legge dei ciombattenti n. 336 che riguardava, e per certi versi riguarda tuttora, i dipendenti pubblici e di enti para pubblici (Casse di risp. Monti, INPS, INAM, ecc.) che generò pensionamenti allucinanti (pensione a 38 anni di età con 35 anni di anzianità contributiva utile per conseguire il diritto e per la misura, ecc.) con costi che non hanno mai trovato un corrispettivo di contrbuzione come per i pensionamenti agevolati nel pubblico impiego.
– oggi l’INPS, unico gestore di pensioni, si accolla i deficit rilevantissimi dei fondi INPDAP e INPDAI assorbiti senza che nessuno si ponesse il problema di chi doveva pagare.
Questo ed altro per dire che per riportare equità e ragionevolezza nelle pensioni in essere occorrerebbe fare un’operazione complessa senza considerare che si dovrebbero ridurre pensioni già liquidate ed erogate con tutti i problemi di legittimità connessi.
Ricordo anche che i pensionati in questi ultimi 5/10 anni in molti casi hanno supplito alle carenze del sistema nei confronti dei disoccupati (molti senza indennità come le partite IVA) e dei cassintegrati.
Paolo da Genova
Aggiungerei la Cassa integrazione etc…
E poi quando si riuscira’ a scaricare dall’Inps ”l’assistenza ” e darla in carico alla fisclità generale?
Gallo Antonio
Le conclusioni a cui giunge il Professor Galasso sembrano suggerire che il beneficio previdenziale dipenda essenzialmente da una carriera lavorativa priva di buchi (continua) e per confermare questa tesi sottolineano, citando lo studio in nota, che se i giovani seguissero le scelte di pensionamento della generazione precedente si troverebbero con un tasso di rimpiazzo solo del 50% contro il 70% dei padri.
Perché tale assunto possa essere accettato occorre che sia dimostrato che il tasso di rimpiazzo dipenda unicamente, isolato l’effetto della variabile “vita media”, dai contributi versati. Siamo sicuri che tale dimostrazione sia stata data e che la misura delle pensioni non dipenda anche dalla propensione delle collettività a farsene carico?
Ad esempio: quando si ipotizza il tasso di sostituzione pensionistico di un individuo trentenne che sarà pensionato quando sarà alle soglie dei settanta viene valutata la propensione a contribuire di coloro che saranno trentenni tra 40 anni?
pagni giuseppe
Scusate non so se la mia idea è realizzabile, ma non potrebbero essere ricalcolate tutte le pensioni sia attuali che future col contributivo? Cioè con i contributi effettivamente versati? A quel punto servirebbero dei correttivi per dare un minimo a quelle pensioni (penso ai baby pensionati o a coltivatori diretti) che sarebbero sotto la soglia di sopravvivenza. Così sarebbero annullate anche tutte quelle manovre che portano a pensioni altissime nelle forze armate o dirigenti privati (con balzi di carriera a fine lavoro).
E’ così difficile da attuare???
antoDistrib
Non è difficile da attuare, anzi, secondo me è anche giusto.
Però non lo faranno mai, e se lo facessero, tra un paio di mesi assisteremo a migliaia e migliaia di suicidi perchè ci sarà gente con 200€ al mese di pensione…
albadorataitalia
Ognuno si faccia il sistema suo, solo contributivo: tanto verso, tanto riscuoto! Il grande errore di Rumor nel 1973 appoggiato da Pci, Psi, Dc e per la gioia di Bertinotti è stato l’inizio della disgrazia infinita; da notare che si era in un periodo di forte austerità.