Ci sono delle parole che non avremmo più voluto sentire in bocca a un presidente del Consiglio o a un ministro dell’Economia: “la manovra può essere cambiata, purché a saldi invariati”.Non avremmo più voluto sentire queste parole perché esprimono un’indifferenza che non può esserci rispetto ai contenuti della manovra. Vogliamo credere che i provvedimenti inseriti nel disegno di legge di stabilità varato dal governo non fossero il risultato di una disperata raccolta di idee dell’ultima ora, ma fossero stati attentamente valutati sulla base degli effetti micro e macroeconomici di breve, medio e lungo periodo di ciascuno e non soltanto sulla base del loro contributo ai saldi. L’attenzione alla mera invarianza dei saldi esprime un’ottica di breve periodo che non ci saremmo attesi da un governo prevalentemente composto da tecnici (di valore).
Davvero non importa al governo se un dato saldo è ottenuto aumentando ancora la pressione fiscale o riducendo le spese? E davvero non importa quali spese vengano ridotte, quali aumentate e di quanto? E sul serio il governo è indifferente tra una manovra che riduca un po’ le aliquote sugli scaglioni più bassi, riducendo al contempo le detrazioni fiscali e una che punti a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro dipendente per rilanciare la competitività del nostro export?
Come si può accreditare l’idea ragionieristica che gli effetti macroeconomici della manovra siano uguali, indipendentemente dalla sua composizione, dopo i tanti studi fatti per capire se siano meno recessive le manovre prevalentemente basate sugli incrementi delle tasse o quelle prevalentemente basate sulla riduzione delle spese? E come è possibile che il governo sia indifferente nei confronti degli impatti distributivi della manovra, se a pagare di più sono i poveri oppure i ricchi? E neppure interessa se quel saldo è ottenuto aumentando di un terzo le ore di lezione degli insegnanti di scuola (a parità di stipendio) o, tanto per dire, riducendo (di un quarto, per esempio) gli stipendi degli alti dirigenti della pubblica amministrazione, dei ministri, dei parlamentari, dei consiglieri regionali e provinciali, dei consiglieri di Stato, di quelli della Corte dei Conti, della Corte di Cassazione, dei dirigenti della Banca d’Italia, ecc., aumentando al contempo l’orario di lavoro di tutti i dipendenti pubblici (insegnanti compresi) del 10 per cento a settimana?
No. Non possiamo credere che il governo sia indifferente a tutto questo.

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