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Pubblicazioni in cerca d’autore

Nei paesi anglosassoni ci si interroga da anni sul concetto di autore. Ma anche in Italia è tempo di ammettere che forse non è più funzionale al buon funzionamento del mercato del lavoro degli scienziati e a una efficiente ed equa allocazione delle risorse. Un sistema che penalizza donne e giovani.
CHI È L’AUTORE?
La reputazione e la carriera dei ricercatori accademici dipendono dai loro lavori e dal loro impatto all’interno della comunità scientifica. Nel corso degli anni, questo principio ha originato una serie di indicatori quantitativi bibliometrici, alcuni dei quali adottati in via ufficiale dagli esercizi di valutazione della ricerca pubblica, come la Vqr in Italia o il Ref nel Regno Unito. (1)
Le controversie che accompagnano questi indicatori si concentrano, almeno in Italia, sul concetto di “prodotto della ricerca” (Quali pubblicazioni scientifiche considerare come tali?) e sull’affidabilità delle metriche. Nessun dibattito ha invece suscitato il concetto di “autore”, che pure è centrale nell’esercizio di valutazione: sono le affiliazioni di ciascun autore a questa o quella struttura scientifica che determinano come questa verrà valutata; e sono gli autori i destinatari ultimi dei sistemi di incentivi che accompagnano la valutazione. Purtroppo, la mancanza di una riflessione approfondita sul concetto di autore impedisce di anticipare alcuni comportamenti “perversi” nell’ambito dell’assegnazione della paternità dei prodotti valutati (pubblicazioni, ma anche brevetti), tali da vanificare, almeno in parte, gli obiettivi della valutazione.
La letteratura specializzata mostra chiaramente che il concetto di “autore scientifico” contiene molti elementi di ambiguità e rischia di essere obsoleto. In moltissime discipline, il numero medio di autori presenti su una pubblicazione è cresciuto in modo significativo negli ultimi decenni. L’aumento riflette un cambiamento profondo nella natura dell’attività di ricerca, nel quale trovano sempre più spazio la divisione del lavoro e la condivisione di dati e strutture. La ricerca è condotta da team i cui membri contribuiscono in modo assai diverso al risultato finale e sono legati fra loro da rapporti gerarchici, in funzione della posizione occupata (senior o junior, permanente o temporanea) e del controllo esercitato sugli strumenti e la direzione della ricerca. (2)
Vi è quindi una distanza fra la reale pratica scientifica e il concetto di autore e, spesso, l’elenco degli autori e il loro ordine è il risultato di negoziazioni all’interno del team in cui il peso dei membri più senior è preponderante. Pratiche diffuse come la gift authorship e la honorary authorship comportano l’inclusione di co-autori il cui contributo alla ricerca è stato marginale, ma ai quali gli altri membri del team di ricerca sono legati da vincoli gerarchici o di riconoscenza (ad esempio, possono ricompensare un collega che abbia procurato finanziamenti o altri benefici). Per converso, la ghost authorship rimanda al caso in cui la lista degli autori non comprende alcuni scienziati che invece avrebbero avuto i requisiti per essere inclusi. L’evidenza empirica sul primo fenomeno è sostanziale. Ad esempio, uno del studio del 2004, pubblicato sul Journal of American Medical Association, ha analizzato gli articoli apparsi su varie annate degli Annals of Internal Medicine e del British Medical Journal, trovando che, rispettivamente, il 21,5 per cento e il 9,5 per cento degli autori non soddisfaceva i criteri stabiliti dall’International Committee of Medical Journal Editors in materia di contributo effettivo alla ricerca. (3)
BREVETTI E PUBBLICAZIONI
Un nostro recente articolo sfrutta le “coppie” di brevetti e pubblicazioni realizzate da vari gruppi di accademici italiani per analizzare l’allocazione degli autori delle pubblicazioni e degli inventori dei brevetti. (4) Un brevetto e una pubblicazione rappresentano una “coppia” quando il loro oggetto è il medesimo, ovvero un risultato di ricerca di interesse scientifico e sfruttabile industrialmente (e dunque brevettabile). Le leggi sulla proprietà industriale determinano in modo restrittivo chi debba essere considerato inventore ed è dunque naturale attendersi che alcuni autori della pubblicazione siano esclusi dal brevetto. Tuttavia, ciò che dimostriamo è che a parità di contributo alla ricerca, sono le donne e i giovani gli autori a maggior rischio di esclusione, risultato che interpretiamo in termini di minor potere negoziale e minor valore (relativo) attribuito al brevetto da parte degli esclusi.
Che fare, dunque? Per prima cosa, occorre ammettere la possibilità che il concetto di autore non sia più funzionale al buon funzionamento del mercato del lavoro degli scienziati e alla promozione di una efficiente ed equa allocazione delle risorse. La discussione trascende il contesto italiano, ma non può essere delegata al solo mondo delle riviste anglosassoni, come avviene attualmente. Dopo i risultati di un’inchiesta del 1999, molte oggi propongono di sostituire al concetto di authorship quello di contributorship, inteso a identificare con chiarezza “chi ha fatto cosa” per arrivare alla pubblicazione, sulla base di elenchi predefiniti, di tutte le funzioni di ricerca: dall’ideazione, all’analisi dei dati, alla revisione del manoscritto. (5) La contributorship, aumentando la trasparenza, potrebbe ridurre il rischio di esclusione di giovani e donne dalla “inventorship” dei brevetti.
In secondo luogo, è importante che chi gestisce gli esercizi di valutazione sia consapevole di come la definizione di autore e i conseguenti meccanismi di incentivazione possano influire sugli esiti delle “negoziazioni” tra scienziati in merito alla distribuzione della authorship. L’attuale penalizzazione dei dipartimenti con molti membri non attivi, ad esempio, potrebbe incoraggiare politiche locali intese a offrire a questi ultimi una o più “gift authorship”, un rischio che sarebbe ridotto se fossero considerati solo gli articoli per i quali la “contributorship” è trasparente e dichiarata. (6) Nel 1997, il British Medical Journal annunciava le sue nuove linee-guida editoriali con un editoriale dal titolo significativo: “Authorship is dying: long live contributorship”. (7) Sedici anni dovrebbero essere sufficienti per cominciare a prenderne nota.
(1) Vedi rispettivamente, Vqr, Valutazione della qualità della ricerca ottobre 2013; [1] Research Excellence Framework  ottobre 2013. Sul tema lavoce.info ha pubblicato il dossier “Valutazione della ricerca
(2) Si vedano, ad esempio, Jones B.F., Wuchty S., Uzzi B. (2008), “Multi-University Research Teams: Shifting Impact, Geography, and Stratification in Science”, Science 322, pp. 1259-1262; e, per una prospettiva sociologica, Biagioli M., Galison, P. (eds.). (2003), Scientific authorship: Credit and intellectual property in science (pp. 255-279). New York: Routledge.
(3) Bates T., Anić A., Marušić, M. Marušić A. (2004), “Authorship Criteria and Disclosure of Contributions”, Journal of American Medical Association 292(1), pp.86-88.
(4)  Lissoni F., Montobbio F., Zirulia L. (2013), “Inventorship and Authorship as Attribution Rights: An Enquiry into the Economics of Scientific Credit”, Journal of Economic Behavior and Organization 95, pp. 49-69.
(5) Il rapporto menzionato è l’Authorship Task Force White Paper, Council of Science Editors (ottobre 2013). Come esempio di “contributorship form” si veda Science: http://stke.sciencemag.org/about/SciSignalAuthorshipform.pdf (ottobre 2013).
(6) In alternativa, i vantaggi di tali pratiche scomparirebbero se fosse eliminato il vincolo al numero massimo di prodotti che ciascun autore può presentare. Per una proposta in tal senso, con riferimento al contesto britannico, si veda Shaw D. (2012), “Unethical Framework: Red Card for the REF”, Times Higher Education, 21/1/2012.
(7) Smith R. (1997),“Authorship is Dying Long Live Contributorship”, British Medical Journal 315 (7110), p. 696.

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  1. Amegighi

    Interessante articolo che pone un problema già nell’aria da tempo (direi forse qualche anno) soprattutto a livello extra-italiano. Purtroppo noi arriviamo sempre dopo (male) e soprattutto ricopiando gli altri e i loro errori (peggio).
    Il problema co-autorship o autorship forse è più sentito eticamente, fuori. Da noi, se mi permettete, non cambia la sostanza, di molto. Ci sarà sempre “qualcuno” che ha “partecipato” alla “stesura” del paper.
    Ma veniamo al succo del problema: chi ha partecipato realmente a quel lavoro ? Alla fine la risposta sarà sempre nella capacità di sostenerne criticamente i risultati. Cioè nell’interview.
    Da noi, questa manìa degli indici bibliometrici è scoppiata per dare una “regola” ai Concorsi, quasi che scegliere un bravo ricercatore sia materia di numeri (ma allora basta introdurre il QI , o no ? ). Fuori ciò non succede perchè il reclutamento avviene per intervista e colloquio da parte di chi deve prendersi carico del nuovo ricercatore (Dipartimento).
    E’ utile per il finanziamento dei fondi di ricerca ? Direi no, dal momento che il problema, fuori dall’Italia, è scoppiato proprio per questo. Tanto è vero che si parla di autorship, ma ci si dimentica anche del fatto che se la ricerca non è svolta bene si salta il giro (NIH). E forse, di nuovo, andare realmente a guardare e spulciare in quello che si fa o si è fatto è la procedura migliore.

  2. nessuno autore donna… c’e’ un ghost writer?

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