Le università italiane non attraggono i migliori scienziati per eccesso di burocrazia, mancanza di fondi, assenza di meritocrazia. Deludenti i programmi per il rientro di nostri ricercatori. Una proposta per il nostro paese.
LA SITUAZIONE DELLA RICERCA
Le università italiane non riescono ad attrarre i migliori ricercatori. I motivi sono tanti: eccesso di burocrazia, strutture inadeguate, mancanza di fondi, ostracismo di molti docenti interni all’inserimento di forze fresche, assenza di una strategia per selezionare e premiare il merito, scarsa attenzione all’internazionalizzazione. A questo si aggiunge il fatto che i programmi di rientro finora attivati non sono stati in grado né di competere con le migliori pratiche internazionali, né di fornire prospettive stabili a ricercatori, italiani o stranieri, impegnati all’estero. Come dimostrano le esperienze di altri paesi, risalire la china è difficile, ma non impossibile.
Per rendersi conto del problema, basta scorrere l’elenco dei vincitori dei cosiddetti “Erc grants”. La sigla Erc indica il Consiglio europeo per la ricerca, un’agenzia che amministra una quota importante e crescente nel tempo dei fondi europei per la ricerca. Tra questi, i progetti per giovani studiosi che hanno conseguito un dottorato di ricerca da non più di sette anni (starting grants) e quelli per ricercatori più anziani e già affermati nel proprio settore (senior grants). Attualmente sono i finanziamenti più prestigiosi e consistenti cui un ricercatore europeo possa ambire. La selezione avviene esclusivamente sulla base del merito da parte di commissioni internazionali di altissimo profilo. Per ciascun progetto, il finanziamento è consistente, circa un milione e mezzo di euro per quattro o cinque anni, a copertura non solo dello stipendio del vincitore, ma anche delle eventuali attrezzature di laboratorio e dei collaboratori alla ricerca. Al contrario di altri progetti di ricerca europei o nazionali, il finanziamento è legato a un particolare ricercatore, che può decidere dove utilizzarlo, anche spostandosi da un’istituzione a un’altra nel corso dei quattro anni. La sede scelta per la ricerca rappresenta quindi un indicatore di attrattività di un paese e delle sue istituzioni di ricerca, proprio come la scelta di investire nel nostro paese da parte di un’impresa straniera.
Come a suo tempo segnalato su questo sito, negli ultimi cinque anni solo il 7 per cento dei vincitori Erc ha scelto di utilizzare il finanziamento in Italia, rispetto al 15 per cento che ha scelto la Francia e la Germania e al 20 per cento che ha deciso di lavorare in Gran Bretagna. I risultati dell’ultimo bando sono ancora peggiori: tra i 287 vincitori, 60 hanno scelto di lavorare in Gran Bretagna, 46 in Germania e ben 32 in Israele (un piccolo paese, ma con ottime università). Solo otto ricercatori (meno del 3 per cento) ha scelto l’Italia come sede della propria ricerca; tra gli otto, un solo straniero, e nessuno che abbia scelto un ateneo del Mezzogiorno. Scorrendo l’elenco, tra i vincitori si trovano altri dieci italiani, che però hanno deciso di utilizzare il finanziamento per lavorare in altri paesi europei. Il quadro è perciò desolante. Per molte università europee, i fondi messi a disposizione da Erc forniscono un contributo crescente e di grande prestigio allo sviluppo della ricerca, soprattutto nelle istituzioni che riescono ad aggregare un numero consistente di progetti. Per l’Italia, invece, queste cifre sono un faro acceso sul declino del sistema nazionale della ricerca.
COSA HA FATTO L’ITALIA?
Gli interventi a favore del rientro di docenti e ricercatori residenti all’estero (articolo 17 del decreto legge n. 185/2008) erano riservati a chi era stato stabilmente residente all’estero e possedeva documentata attività di ricerca per almeno due anni consecutivi presso università o centri di ricerca. Si trattava dunque di una legge chiaramente indirizzata a favorire il rientro di talenti impegnati in attività di ricerca o con posizioni accademiche all’estero. È stata in parte utilizzata dalle università, ma non sembra avere avuto effetti apprezzabili, soprattutto perché non prevedeva un’immissione in ruolo alla scadenza del contratto.
La “legge controesodo” (238) del 2010 ha proposto una serie di incentivi fiscali temporanei (abbattimento per tre anni del reddito imponibile crescente con il reddito dichiarato, con un limite massimo alla agevolazione fiscale di 200mila euro in tre anni) per indurre nostri connazionali a rientrare in Italia. I beneficiari delle agevolazioni dovevano soddisfare una serie di condizioni non sempre legate al merito e certamente non tali da identificare necessariamente talenti. (1) La legge è entrata pienamente in vigore solo nel 2012 dato il ritardo con cui sono stati varati i decreti attuativi. Non sembra avere avuto un effetto addizionale nel rientro di lavoratori italiani dall’estero. Nel 2012, l’unico anno in cui sono disponibili dati, sono rientrate dall’estero circa 31mila persone, in linea con gli anni precedenti; tra queste, i beneficiari sono meno di 4mila. Oltre all’incertezza normativa, uno dei fattori che ha limitato l’efficacia della misura è il fatto di non poter contare su finanziamenti strutturali.
L’ESPERIENZA DELLA CATALOGNA
Per superare il gap, proviamo a imparare dagli errori e dall’esperienza di altri paesi. Per attrarre ricercatori, il Governo della Catalogna finanzia un’apposita agenzia per la ricerca, l’Icrea, Catalan Institution for Research and Advanced Studies, creata per rispondere alla necessità di trovare nuove formule per assumere ricercatori e competere con altri sistemi di ricerca ad armi pari. L’obiettivo di Icrea è assumere scienziati di alto livello, rafforzare la base scientifica esistente e aprire le università a nuove linee di ricerca. Lavora in stretta collaborazione con gli atenei per integrare pienamente i ricercatori Icrea nel sistema universitario e della ricerca. (3)
Ogni anno, Icrea emette un bando per assumere i migliori ricercatori (spagnoli o stranieri) che decidono di trasferirsi in una delle università della Catalogna. I profili richiesti sono quelli di docenti in grado di aprire nuove linee di ricerca o rafforzare in modo significativo quelle già presenti. Le candidature sono proposte dalle università, con l’obiettivo di lungo periodo di integrare stabilmente i nuovi docenti nelle proprie strutture. In dodici anni di attività, Icrea ha assunto quasi 300 docenti nelle diverse discipline, una massa critica che ha contribuito a rendere alcune di quelle università competitive nello scenario internazionale. Nonostante la crisi economica, il Governo della Catalogna sta cercando di difendere il programma con i denti perché si rende conto che si tratta di un investimento strategico. La chiave del successo è la tipologia di contratti offerti, la massima pubblicità del bando e la trasparenza delle decisioni: le assunzioni sono decise da commissioni di settore a cui partecipano scienziati di tutto il mondo e da cui sono esclusi docenti della Catalogna, per evitare conflitti di interesse. (3)
Dal 2001, Icrea ha assunto 293 ricercatori con contratti permanenti. (4) Il successo del programma è testimoniato dal fatto che 49 ricercatori Icrea hanno ottenuto un Erc grant. È essenziale che i contratti siano permanenti, perché i vincitori sono molto spesso docenti all’apice della carriera, con una posizione permanente in università straniere. L’importo dei contratti è negoziabile con i candidati, a secondo del loro profilo e posizione. (5)
L’agenzia finanzia poi un programma chiamato Icrea Academia programme (giunto alla quinta edizione) per accrescere l’attività di ricerca di professori nella fase più produttiva e di maggiore potenzialità, con contratti di ricerca della durata di cinque anni. Infine, gestisce anche il Conference Awards Fund per conferenze internazionali di alto livello scientifico, mediante una selezione ristretta ai vincitori Icrea. In precedenza gestiva anche un programma di contratti temporanei per ricercatori più giovani.
UNA PROPOSTA PER L’ITALIA
Alla luce dei nostri vincoli di bilancio, crediamo che in Italia si possa prendere spunto dall’esperienza di Icrea creando un analogo programma per il rientro dei cervelli con contratti di lavoro permanenti. Il programma dovrebbe avere notevole flessibilità organizzativa, con la possibilità di sottoscrivere contratti di diritto privato e certezza di budget nel lungo periodo. I costi sarebbero inizialmente contenuti e crescenti nel tempo.
Supponiamo che si vogliano finanziare venticinque posizioni permanenti ogni anno e che ogni posizione abbia un costo medio di 150mila euro all’anno. Ipotizzando un’età media di ingresso di 45 anni e la pensione a 65 anni, ogni contratto ha una durata media di venti anni. A regime, vi saranno quindi circa 500 docenti assunti, con costo, sempre a regime, di 75 milioni di euro (a questi andrebbero aggiunti i costi di gestione del programma). Si può pensare che le Regioni possano aumentare il fondo, con l’obiettivo di attirare ricercatori nelle proprie università; ovviamente, anche i privati e le fondazioni possono essere invitati a contribuire.
(1) In particolare tra i requisiti figuravano: (i) avere meno di 40 anni; (ii) avere maturato, da laureati, esperienze lavorative all’estero, per la durata di almeno 24 mesi continuativi oppure avere frequentato, ottenendo una laurea o una specializzazione post laurea, un corso di studi all’estero per la durata di almeno 24 mesi continuativi. Inoltre, si attribuisce il beneficio solo a chi viene assunto in Italia o decide di esercitare un’attività d’impresa o di lavoro autonomo in Italia.
(2) Un’altra esperienza interessante, in un paese più maturo sotto il profilo del sistema di ricerca, è il Canada Excellence Chairs: per ogni cattedra, l’università riceve un contributo (con tetto di 10 milioni di dollari canadesi su sette anni e cofinanziamento al 100 per cento). Le università possono contestualmente chiedere finanziamenti per infrastrutture di ricerca, che coprano fino al 40 per cento dei costi. Le cattedre richiedono presenza a tempo pieno in Canada. Per ulteriori informazioni si veda il sito.
(3) La selezione delle domande è affidata a cinque commissioni internazionali, ognuna composta da 5 o 6 membri nelle seguenti discipline: (1) experimental sciences and mathematics, (2) humanities, (3) life and medical sciences, (4) social and behavioural sciences, (5) technology and engineering. Dal momento della selezione al momento della presa di servizio passano circa nove mesi, necessari per negoziare i contratti e predisporre l’arrivo dei vincitori nelle università o centri di ricerca.
(4) 28 per cento nelle scienze mediche e della vita, 28 per cento nelle scienze sperimentali e in matematica, 12 per cento nelle scienze sociali e comportamentali, 16 per cento nelle scienze umane e 16 per cento in quelle tecnologiche e dell’ingegneria.
(5) Il requisito per la partecipazione è un PhD conseguito almeno sei anni prima della scadenza del bando e almeno quattro anni di esperienza in centri di ricerca o università internazionali. I vincitori sono sottoposti a valutazione periodica, inizialmente dopo tre anni e successivamente ogni cinque anni da parte di valutatori esterni. Nel caso di valutazione positiva, sono previsti incrementi salariali.
* I temi espressi in questo articolo verranno discussi direttamente con il ministro Maria Chiara Carrozza nel convegno “La ricerca in Italia” presso l’Università Bocconi il 9 dicembre 2013. A questo indirizzo il form da compilare per partecipare al convegno.
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rocco
Uno dei problemi dell’università in Italia è il fatto che c’è confusione tra il ruolo del ricercatore (inteso come produttore di ricerche) e il ruolo dell’insegnante , queste due figure rispondono a logiche diverse ed una divisione dei due ruoli sarebbe auspicabile sia in termini di lavoro sia in termini della valutazione del loro lavoro .
rob
la disinformazione, in un Paese dove 7 persone su 10 non capiscono il significato di un articolo di giornale, la fa da padrona. La cultura del “tengo famiglia” fa il resto
Paolo Quattrone
Carissimi, la proposta (che avevo anche fatto io qualche anno fa nel quadro della definizione del piano strategico nazionale) funzionerebbe in Paesi ‘normali’. Non vedo, allo stato, né la volontà politica, né quella accademica per farla funzionare. Non è una questione di risorse, ne basterebbero relativamente poche, né di incentivi (quelli funzionano con chi già è ‘normalizzato’). Conosco parecchi ricercatori che vorrebbero tornare, che hanno pure chiesto, ai quali è stato pure promesso, e le cui promesse sono cadute nel vuoto. Stanno perdendo la speranza. Io l’ho persa da tempo, sarà l’età che avanza! un caro saluto.
Paola Artioli
L’offensiva della Germania
Tutto vero.
E che cosa dite di questa iniziativa strategica del governo tedesco?
http://www.make-it-in-germany.com/
Noi occupiamo gli stranieri come colf, camerieri e operai.
Noi investiamo in formazione, paghiamo per la scuola e le università, cresciamo i nostri figli, e poi…i nostri partner europei si trovano giovani pronti a creare valore nelle loro aziende e ospedali.
Va bene la libera circolazione delle persone, ma c’è qualcosa che non va.
Il mondo accademico, politico, imprenditoriale assiste inerte e perde tempo?
EzioP1
Nel 1970 alla Mayo Clinic di Rochester Minnesota i primari delle
varie sezioni facevano ogni anno un giro per i migliori ospedali del mondo e offrivano ai migliori talenti un posto di lavoro e ricerca in Mayo. Le persone selezionate dovevano occuparsi solo della ricerca e del lavoro in quanto il personale amministrativo della Mayo provvedeva alla ricerca della casa, alla sistemazione della famiglia, scuola compresa per i figli, auto, e quant’altro per assicurare che i prescelti e le loro famiglie non avessero problema alcuno di ambientamento. E’ così che la Mayo era ed è tuttora una delle migliori cliniche del mondo.
carlo
E nel frattempo “distruggiamo” anche un bel pò di dipartimenti di quelli esistenti (inclusi un paio della bocconi!) visto il titolo/presentazione del convegno? Gli autori cosa pensano del commento apparso su http://www.roars.it/online/bocconis-sympathy-for-destruction-una-vqr-a-doppio-taglio/ ?
rob
L’amministratrice delegata del Industria Alimentare Ferrarini, in un dibattito sui danni quotidiani della burocrazia, elencava 15 enti di controllo partendo dai NAS, che periodicamente le fanno visita facendo tutti la stessa cosa. Con situazioni paradossali, dove un ente dice esattamente il contrario dell’altro, creando difficoltà enormi.Credo che possiamo tirar fuori tutti i numeri e tutte le statistiche che vogliamo, ma il problema è solo politico e quindi di assetto gestionale dello Stato. A questo si aggiunge slogan populisti di economisti salottieri che suggeriscono di lasciar perdere ricerca e produzione e di dedicarci al turismo, in pratica un popolo di “bancarellari di souvenir”. Io credo che almeno la memoria di questo Paese andrebbe rispettata. Dai Natta, agli Olivetti, al “sor Checco”. Bisogna studiare all’Università per sostenere simili trovate?
Francesco
La Catalogna ha istituito l’ICREA in un periodo in cui ha avuto la fortuna di avere un politico di altissimo profilo come presidente (dal 1980 al 2004), Jordi Pujol. Dopo di lui è stato il disastro, e hanno cominciato a tagliare sulla ricerca. Un esempio: nel 2002 il governo catalano istituí la IGSOC (International Graduate School of Catalonia) per pagare borse di studio quadriennali a studenti stranieri che volevano fare il dottorato in Catalogna. Nel 2004 cambio di governo, e la prima cosa che è saltata è stata la IGSOC. E sí che c’era un governo ancora decente. I politici miopi di adesso, Artur Mas e Oriol Jonqueras, che non fanno altro che soffiare sul nazionalismo e rovesciare tutte le loro frustrazioni contro il resto della Spagna, secondo me neanche sanno che cosa sia l’ICREA.
Chiara
Sarebbe molto utile per i lettori avere alcuni indicazioni su dove trovare i bandi, le informazioni e le modalita’ per partecipare ai programmi sul rientro dei cervelli. L’ultimo bando sul sito MIUR risulta del 2009, le borse Levi Montalcini al momento sono chiuse. Quali sono attualmente i programmi aperti per agevolare il rientro dei cervelli? Ce ne sono?
Enrico
Nella proposta bisognerebbe tenere conto dell’eventuale calo di produttività scientifica: se dopo 3 anni il ricercatore immesso in ruolo “si siede”, come si affronta la questione?
Si sprecano i fondi dei rimanenti 17 anni aspettando che vada in pensione?
Forse non è la sezione giusta, ma la qualità della ricerca deve anche essere mantenuta e non solo assunta in ingresso.