Una vera revisione della spesa pubblica non può non passare attraverso una semplificazione del sistema amministrativo che riduca drasticamente i livelli di governo e i centri di spesa che negli ultimi decenni hanno proliferato incontrollati.
L’incalzare della crisi in cui versa la finanza pubblica nel nostro Paese ha prodotto negli ultimi tempi una serie interventi sui media in cui sono stati autorevolmente indicati i settori di più immediato intervento e, fra questi, ha finalmente iniziato ad affermarsi quello del drastico ridimensionamento delle regioni e dei loro apparati.
Infatti, una vera “semplificazione” amministrativa non va tanto perseguita in termini di procedure, come si è cercato di fare con le norme recate dalla cosiddetta legge Bassanini, ma con l’eliminazione dei troppi livelli di governo (e rispettivi apparati) che oggi pullulano nel nostro Paese con enorme dispendio di risorse ed energie.
Certamente l’apparato statale costituisce ancora terreno fertile per inefficienze e privilegi e bene ha fatto il Commissario straordinario per la revisione della spesa a dedicare ad esso ben quattordici punti nel programma di lavoro presentato il 12 novembre scorso, ma essenziale è l’intervento sul sistema delle autonomie locali cui, purtroppo, sono stati dedicati – in quel documento – solo tre punti.
Ci sono voluti molti anni e l’esplosione degli scandali sulla gestione del danaro pubblico da parte delle autonomie regionali (circa 400 consiglieri ad oggi indagati) per focalizzare l’attenzione dei media sulle storture venutesi a creare nel nostro sistema istituzionale specie dopo la mai sufficientemente deplorata riforma del titolo V della Costituzione del 2001.
Negli ultimi tempi abbiamo così assistito alla degenerazione incontrollata ed autoreferenziale degli enti pubblici territoriali e delle società pubbliche (tali da far rimpiangere le vecchie “partecipazioni statali”) che ha concorso all’esplosione della spesa pubblica e a cui va posto urgente e drastico rimedio se si vuole consentire una significativa riduzione della pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese, anch’essa stratificatasi negli ultimi anni su un sistema “multilivello” che strangola ogni genere di iniziativa economica.
Le regioni rappresentano la massima espressione di questa deriva: esse si dovevano differenziare dagli altri enti locali per essere dotate di potestà legislativa finalizzata – nel disegno del costituente – ad adeguare la normativa primaria alle varie realtà locali: l’analisi delle poche leggi annualmente emanate evidenzia invece come esse si interessino prevalentemente di materie “singolari” e/o di scarso impatto sociale.
Le regioni sono così diventate come grandi Asl e hanno finito per connotarsi quali centri di gestione del potere amministrativo autoreferenziali che si alimentano attraverso un sistema tanto capillare quanto costoso di società, agenzie, enti, comitati, consorzi , autorità, ambiti, commissari, garanti, etc.
Dunque, razionalmente non è più sostenibile il mantenimento in vita dei costosi apparati regionali che si connotano al più per l’emanazione di leggi de minimis, in un sistema di gerarchia delle fonti che vede già accanto alla legge statale, quale fonte primaria, una sempre più ampia normativa comunitaria tesa a creare uno “spazio giuridico comune europeo”.
Infatti il declino delle regioni non è solo la conseguenza degli uomini che le hanno gestite ma dell’evoluzione dei tempi in quanto nel nuovo millennio gli ordini di grandezza sono mutati a causa delle globalizzazione e l’assetto disegnato dal costituente del 1946 è completamente cambiato: è un vero peccato che nel 2001 non se ne siano accorti realizzando una riforma del titolo V della Costituzione che oggi ben possiamo definire “anacronistica” e dannosa.
Sicchè in questi ultimi anni è stato in gran parte snaturato il previgente saggio sistema di contrappesi fra poteri pubblici e fra Stato ed autonomie: ne è risultato un meccanismo frammentato e costoso che brucia inutilmente risorse ad ogni livello di governo, talvolta indulge a forme eccessive di assemblearismo, talaltra consente nuovi “autoritarismi”, e spesso crea artificiose contrapposizioni difficili da mediare anche in sede giudiziaria (attualmente un quarto del contenzioso innanzi al Giudice amministrativo vede come parti esclusivamente enti pubblici).
Dunque vi è un evidente squilibrio fra costi e benefici recati da un sistema così farraginoso su cui bisogna agire immediatamente per contribuire ad una riduzione strutturale della spesa pubblica senza ulteriormente intaccare il livello dei servizi realmente offerti ai cittadini.
In un contesto di globalizzazione economica che postula nuovi ordini di grandezza, le regioni sono ontologicamente troppo piccole per legiferare seriamente e troppo grandi per svolgere efficacemente funzioni amministrative, non comprendendo realtà omogenee (come le province, storici enti di “area vasta”) tanto da essere efficacemente definite “conchiglie vuote sul piano identitario”.
A tutt’oggi alcuni rimedi approssimativamente indicati o adottati si sono rivelati peggiori dei mali, come dimostra il recente ddl di abolizione delle province che non solo parte dall’apodittica considerazione che questi sarebbero i veri enti territoriali inutili ma poi anziché semplificare il sistema lo complica ulteriormente prevedendo due tipi di città metropolitane, due tipi di unione di comuni, province depotenziate ed un intrico di competenze e funzioni ad assetto variabile ed imprevedibile, spesso rimesso al legislatore regionale con perdita di ogni unitarietà dell’assetto territoriale del Paese, come ha anche sottolineato la Corte dei Conti.
Si impongono invece scelte chiare e responsabili che ben potranno essere individuate in sede di Commissione per la revisione della spesa ma necessitano anche di una coraggiosa revisione della Costituzione con un serio ripensamento della Riforma del titolo V° avvenuta nel 2001 .
In particolare, nelle more dell’auspicabile revirement, va subito esplicitamente introdotta in Costituzione la clausola dell’interesse nazionale in modo da consentire al Parlamento di legiferare subito anche nel dettaglio in ogni materia e su tutto il territorio quando lo esiga il “superiore interesse nazionale”.
Solo in tal modo sarà possibile superare gli ostacoli oggi esistenti a livello costituzionale per una efficace riorganizzazione amministrativa e avviare il rilancio dell’apparato pubblico in modo da trasformarlo in un volano per l’economia nazionale .
Il debito pubblico che ci schiaccia e la crisi economica e finanziaria che stiamo attraversando sono certamente figli anche del segnalato fenomeno degenerativo che, per essere contrastato, necessita di una concreta e non accademica semplificazione istituzionale per la cui realizzazione c’è però bisogno non solo di vere competenze e di meditate riforme, ma anche di capacità di autocritica e di indifferibili “controriforme”.
Michele Oricchio
Procuratore Regionale della Corte dei Conti per la Basilicata
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Piero
Perché togliere le regioni, basta fare una legge statale che riduca i compendi dei consiglieri regionali, elimini le partecipate, la regione e’ il federalismo che abbiamo ottenuto, non possiamo far ritornare tutto a Roma.
Giorgio
Articolo interessante, condivisibile e coraggioso. Difficilmente però leggeremo un pezzo con analogo contenuto sui grandi quotidiani nazionali a firma di qualche illustre commentatore di cose politiche. Da vent’anni il federalismo è un feticcio di cui non si può parlare che bene e politici, giornalisti e studiosi si sono adeguati andando oltre l’originario impianto costituzionale le Regioni sono diventate venti piccole repubbliche la cui esistenza nelle forme attuali non è più sostenibile dal punto di vista economico anche a prescindere da altre motivazioni.
Fabio Atzeni
L’articolo è davvero interessante, solleva tante riflessioni in merito. mi soffermerei sulle seguenti:
– competenze delle Regioni;
– articolazione degli apparati;
– benefici per la comunità amministrata.
Le Regioni hanno ampliato le loro competenze soprattutto in coincidenza con l’abitudine di redigere bilanci con risorse incrementali anno dopo anno. Da questo punto di vista è inevitabile una ricognizione puntuale delle competenze per “snellire” il campo d’azione e di conseguenza ridurre la spesa pubblica.
Nel tempo sono anche aumentati gli apparati a corredo dell’Ente Regione: alcuni operano a livello provinciale altri addirittura a livello comunale andando in questo caso a creare duplicazioni di uffici, di sedi e di poltrone. Sarebbe stato meglio trasferire competenze e personale al Comune. Con l’armonizzazione contabile pero’ sarà possibile un raffronto tra Regioni e un corretto benchmarking della spesa consentirà di attribuire obiettivi di riduzione della spesa.
Una Regione snella andrebbe a beneficio dell’intera collettività regionale perchè eviterebbe duplicazioni, invasioni di campo e di competenze e concentrerebbe la propria azione a coordinare e controllare i livelli amministrativi piu’ vicini ai cittadini oltre ad alcune competenze proprie utili all’intera collettività regionale. Da questo punto di vista, operare in maniera trasparente e con il coinvolgimento dei cittadini consentirebbe di rispondere alle loro esigenze anche in termini di semplificazioni.
AM
Il modo con cui è stato realizzato il federalismo in Italia presta il fianco a numerose critiche. Forse si doveva cercare di trarre profitto dalle esperienze e dagli errori degli altri paesi. Il risultato di questo pastrocchio è stato un notevole appesantimento del costo della Pubblica Amministrazione al quale non ha fatto riscontro un miglioramento dei servizi resi ai cittadini. Probabilmente si volevano creare posti di lavoro. Ha poco senso e poca equità la presenza di regioni a statuto speciale. E’ inoltre necessario un attento e severo controllo delle spese delle regioni, soprattutto per le regioni che hanno un saldo passivo con il governo centrale e che quindi sistematicamente beneficiano di aiuti da altre regioni più ricche. E’ giusto aiutare che ha bisogno, ma non chi spreca.
rob
Tornare sulla scempiaggine che la “politica” ha fatto negli ultimi trent’anni è inutile. Ma attenzione la “non -cultura” di questo Paese parla di “diritti acquisiti”. In che modo? Come? A questa fauna non interessa. Il “fatti i c…i tua!” del bravissimo Crozza sintetizza in maniera perfetta con chi abbiamo a che fare. La crisi peggiore di questo Paese non è finanziaria o economica o di produzione ma di uno spaventoso “baratro culturale” di un buco nero che nessuno sa come affrontare. Attenzione che non è solo la politica ad offrire il peggio di sé, ma anche settori produttivi e professionali privati (lasciamo stare quelli pubblici). Provate a parlare con un funzionario bancario di un piano di sviluppo, di un piano industriale di una azione di mercato e vi accorgerete di essere guardati come marziani. Provate a spedire 10 e-mail aziendali e vedete quanti rispondono e in che tempi rispondono. Pensare di risolvere il dramma con altre leggi e regole o modifiche della Costituzione è credere alla favole. Oggi tutti hanno in bocca la parola cultura pensando che come con una bacchetta magica si risolve. La norma o la modifica si fa con una seduta di 10 minuti, per saper leggere e scrivere i nostri padri ci hanno insegnato che ci vogliono anni.