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Si può ancora fare ricerca in Italia?

Intervista al ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. Si è svolta all’Università Bocconi al convegno “La ricerca in Italia”


BoeriGrazie ministro, per aver accettato il nostro invito a rispondere a una serie di domande sulla ricerca in Italia. Partiamo dalla valutazione della ricerca accademica. Non possiamo permetterci un altro Civr, una valutazione della ricerca rimasta nel cassetto, finita nel nulla. Il Governo doveva presentare un decreto per decidere come distribuire la quota premiale dell’Ffo utlizzando i risultati della cosiddetta Vqr (valutazione della qualità della ricerca) ma il decreto non è ancora stato presentato. In questo lei sta facendo peggio del ministro Gelmini che aveva presentato il decreto solo il 15 dicembre dell’anno in questione. Peraltro, in una situazione in cui i tagli alle Ffo sono mediamente del 4,6 per cento e in cui c’è una clausola di salvaguardia del 5 per cento, il margine per ridistribuire sembra praticamente nullo. Come pensa il Governo di rispettare l’impegno preso nel decreto del Fare ad attribuire non meno del 16 per cento nel 2014, del 18 per cento nel 2015, del 20 per cento nel 2016, e così via, fino ad arrivare progressivamente al 30 per cento di finanziamenti all’università basati sulla quota premiale?
CarrozzaAbbiamo preso l’impegno sull’utilizzo della Vqr dal 2014. Dall’anno prossimo avremo 840 milioni ripartiti per la sola Vqr su poco più di un miliardo disponibile per il premiale (quest’anno la Vqr impegna meno di 500 milioni) e andremo al 16 per cento dell’Ffo come quota premiale. Concordo sul fatto che il 2013 sia stato una gara a chi perde meno: ci sono una serie di tagli che si sono sovrapposti negli anni e il 2013 è stato il punto più basso. Dall’anno prossimo avremo 150 milioni in più e abbiamo recuperato altri circa 41 milioni di fondi che destineremo alla premialità. Stiamo cercando di aumentare le risorse dell’Ffo e queste risorse aggiuntive andranno proprio alla parte premiale.
B. – Prendiamo atto di questo suo impegno.
C. – Non è un impegno, è una legge dello Stato.
B. – La valutazione ha messo in luce un’alta percentuale di inattivi che non fanno ricerca nelle università al di sopra di standard minimi di qualità. Cosa pensa di fare per affrontare queste criticità? La quota di inattivi tende ad aumentare con l’età in tutte le discipline, in parte perché invecchiando si fa meno ricerca. Ma c’è anche un effetto di coorte molto forte, con generazioni che cambiano e che tendono a produrre di più. Col turnover si può migliorare molto la qualità della ricerca. Che strumenti diamo a chi gestisce le università per accelerare il ricambio generazionale?
C. – Credo che si possa accettare l’idea che alcuni professori non dedichino il 100 per cento del loro tempo alla ricerca o che con l’età producano meno, ma in ogni caso non si può accettare la totale inattività. Penso però che concentrare la valutazione solo sull’attività della ricerca sia un errore e che dovremmo valutare di più la didattica. In un professore non conta solo la produttività nell’attività scientifica, ma anche la qualità della didattica. Questo non toglie che l’attività di ricerca sia importante e che vada bandita l’inattività. Riguardo agli strumenti per gestire il turnover, bisogna muoversi verso l’autonomia degli atenei. È impensabile gestire il ricambio dal centro  con norme che sarebbero continuamente sottoposte al Tar e a un’infinità di ricorsi. A questo proposito, dovremmo sviluppare un diritto più robusto contro i possibili ricorsi. Tornando alla ricerca, dovremmo pensare a piani di pensionamento per i docenti inattivi e in ogni caso non si dovrebbe stare all’università senza essere impegnati in didattica e ricerca. Dobbiamo entrare nella logica che queste valutazioni servono anche a questo anche se -è importante precisarlo- la Vqr non nasce con questa funzione perché non si occupa di valutazione dei singoli.  C’è stato un ampio dibattito sulla proposta di rendere pubblici i dati sui singoli ricercatori e io sono contraria. L’obiettivo della Vqr era diverso e alla base c’era un patto di fiducia sulla valutazione delle strutture che oggi sarebbe scorretto rompere.
Vorrei che aumentasse la percentuale dei docenti e dei ricercatori che stanno nella parte alta della distribuzione della produttività. Uno dei motivi per cui dobbiamo finanziare la ricerca. Dobbiamo irrobustire maggiormente docenti e professori con programmi di ricerca che consentano loro di essere più produttivi.
B. – C’è una forte correlazione tra qualità della ricerca e qualità della didattica. Convengo che quest’ultima sia molto importante. Ci sono molti dipartimenti e non pochi atenei che fanno fatica a raggiungere livelli di ricerca vicini a standard internazionali. Perché non spingere queste realtà a concentrarsi sulla formazione tecnica avanzata, venendo incontro a una forte domanda di qualifiche intermedie da parte delle nostre imprese, sul modello delle Fachhochschule tedesche?
C. – Credo che uno dei problemi della nostra scuola secondaria sia considerare gli insegnanti solo dei trasmettitori di sapere e non persone che devono continuare a fare ricerca per approfondire il loro bagaglio culturale. Vedo male una ghettizzazione in cui la scuola è soltanto trasmissione del sapere mentre l’università è solo ricerca avanzata. Un tempo c’era più mobilità tra i due mondi e sarebbe bene riattivarla perché la sua assenza è uno dei mali della scuola. Per quanto riguarda l’istruzione tecnica, sarà una delle priorità del mio governo darle una dignità pari a quella del mondo universitario. E per mia formazione sono contraria a una dicotomia tra formazione tecnica e formazione “superiore”. Con questo mi riallaccio a quello che è uno dei principali mali della nostro sistema universitario, vale a dire l’incapacità di elaborare piani strategici: prima di eleggere un rettore deve essere obbligatorio che chi lo diventerà dovrà presentarsi con un piano che comporti delle scelte: quali dipartimenti potenziare, quali dipartimenti fare evolvere.
B. – Qual è la sua visione sull’università italiana tra dieci anni? Bisogna puntare su alcuni centri d’eccellenza oppure distribuire le risorse a macchia di leopardo? E in questo contesto, come possiamo affrontare la questione del divario territoriale? Prevedendo delle quote per delle macroaree? E come sfruttare realtà come quelle dell’Istituto italiano di tecnologia per cercare di aumentare le esternalità positive per l’intero sistema della ricerca?
C. – Bisogna distinguere due aspetti. Se noi spendiamo il 90 per cento dell’Ffo in stipendi è inutile pensare che questo possa diventare uno strumento di finanziamento dell’eccellenza e di potenziamento delle aree o quant’altro, perché dobbiamo pagare gli stipendi. Negli ultimi cinque o sei anni abbiamo ridotto all’osso stipendi e funzionamento, per cui aumentare la quota premiale… Io la aumenterei ma lo farei con dotazioni diverse, non con la stessa dotazione con cui paghiamo gli stipendi perché altrimenti comprimiamo le possibilità e non otteniamo niente, nemmeno la crescita. Sarebbe come assediare un castello, seccare i pozzi e prenderlo per morte di sete, ma noi non vogliamo questo. Noi vogliamo utilizzare le politiche pubbliche per incentivare la strategia, la differenziazione, la crescita. E incentivare il sistema a fare quello che deve fare, vale a dire aumentare il numero di diplomati e laureati. Non è necessario che tutti abbiano un dottorato, ma un titolo di studio adeguato per entrare in un mondo del lavoro che richiederà sempre più competenze e che richiederà di studiare più volte nel corso della vita lavorativa. Spero di riuscire a ottenere la possibilità di avere piani straordinari di finanziamento con obiettivi specifici, aggiuntivi rispetto al normale funzionamento che è il pagamento degli stipendi e delle strutture. Servono però strategie ricettive che tengano conto di quelle che devono essere le strategie di un ateneo, del contesto, delle prestazioni nella ricerca, della didattica, della qualità dei laureati.
B. – Converrà però che in Italia ci sono delle realtà che, non solo hanno un livello molto basso nella ricerca, ma che anche assumono addirittura al di sotto di questi livelli, per cui abbassano ulteriormente il livello medio della ricerca. La valutazione dovrebbe servire come deterrente a una gestione clientelare del reclutamento, nessuno si augura di arrivare a licenziamenti o esuberi, ma non si può continuare a destinare le poche risorse disponibili per la ricerca a realtà di questo tipo.
C. – Secondo me uno dei lati positivi della Vqr è di avere offerto una valutazione della politica di reclutamento. Queste assunzioni vengono fatte con fondi pubblici e quindi è giusto che si rendiconti ai cittadini come vengono spesi i soldi. Questa è una delle prossime sfide per l’università: rendere pubblici i bilanci e più trasparenti le politiche di reclutamento. Al momento il bilancio di un ateneo è di difficile interpretazione e leggibilità. Infatti noi stiamo pensando a un premio per l’ateneo col bilancio più leggibile chiamando degli studenti di scienze delle finanze a far parte della giuria.
B. – Molti ritengono che il Prin (Progetti di ricerca di interesse nazionale), il principale programma italiano di finanziamento della ricerca di base, sia morto. Quest’anno gli sono stati destinati 38 milioni a fronte dei 175 degli anni precedenti. L’impressione è che si voglia puntare tutto sui finanziamenti europei dell’Erc (European research council). È questa davvero la sua intenzione?
C. – Il Prin non è morto. Ho trovato una situazione in cui il bilancio disponibile per la ricerca era molto basso, poco più di 50 milioni che ho pensato di anticipare a un bando per giovani ricercatori in modello Erc – starting grant, quindi ricerca fondamentale basata sui settori previsti dall’Erc. Ciò permette ai giovani ricercatori di ottenere finanziamenti indipendenti e di innescare un meccanismo positivo da diffondere in Italia. Il prossimo anno cercheremo di riservare dei punti organico per le chiamate dirette di vincitori dell’Erc non in settori specifici. Ci sarà anche una parte per la ricerca umanistica. Piuttosto che frazionare un bando di soli 50 milioni, abbiamo pensato  di destinare quest’anno le risorse ai giovani ricercatori. In ogni caso il Piano Nazionale della Ricerca servirà anche a questo: ottenere impegni per la ricerca libera.
B. – Prendiamo atto di questo impegno. Bene il programma per portare i vincitori di Erc in Italia. Mi sembra però di capire che nel programma Montalcini II ci sia un difetto che è proprio di tutti i programmi per il rientro dei cervelli: vale a dire che studiosi che hanno posizioni di rilievo nelle università straniere, sicurezza nell’impiego, ottime prospettive di carriera, possano venire da noi con contratti a tempo determinato e per di più in un contesto, come l’università italiana, che non è sempre molto accogliente per chi viene da fuori. Come sa poi nei contesti in cui ci sono poche risorse e posizioni da difendere coi denti, la vita degli outsider non è la più semplice. Per esperienza personale, l’unico modo per attrarre i cervelli è offrire posizioni “tenured” e quindi contratti a tempo indeterminato. Si può cercare di fare meglio? Magari prendendo l’esempio della Catalogna, una regione in difficoltà economica come noi, che ha creato un’agenzia che è riuscita a fare arrivare 300 persone di altissimo livello da tutto il mondo, in tutti i campi, offrendo dei contratti a tempo indeterminato e con una selezione non fatta dai docenti dell’università, ma da esterni. Perché non proviamo a replicare questa esperienza?
C. – Penso anch’io che un programma per il rientro dei cervelli che non preveda il tempo indeterminato non abbia senso. Noi possiamo cercare di spingere riservando dei punti organico a questo tipo di chiamata poi però sono gli atenei che si devono muovere. Ci sono atenei italiani, anche nel Sud, che hanno l’autorizzazione a utilizzare punti organico però non lo fanno. Gli atenei dovrebbero ricongiungere la capacità di assumere con le risorse disponibili e rendere più trasparente anche questo passaggio.
B. – Quello che sembra mancare molto nel nostro sistema universitario e nella ricerca è il fatto di avere persone con capacità di management e che al contempo conoscano a fondo il mondo della ricerca. Questo vale anche per i centri di spesa dei ministeri che spesso hanno un rapporto difficile con chi è coinvolto nella ricerca. Cosa pensa di fare per migliorare la governance delle università? Qual è il suo giudizio sui piani strategici degli atenei? È utile, secondo lei, creare una sorta di cabina di regia che funga da interfaccia tra centri di spesa dei ministeri e le università?
C. – Sicuramente c’è un problema di gestione e di formazione della classe dirigente, dei direttori generali, dei rettori. Il tema di governance è importante e non so se sia stato risolto semplicemente con la regola che il rettore non viene rinnovato perché il fatto che non debba più confrontarsi con chi lo ha eletto lo rende solo più forte  rispetto a prima e meno attento agli equilibri interni. Secondo me, il rapporto con gli organi accademici, il consiglio di amministrazione o il senato accademico, è fondamentale. Non deve esserci un uomo solo al comando anche perché spesso si tratta di persone che non hanno perfetta conoscenza del bilancio dell’ateneo o di tutte le regole del gioco. Per quanto riguarda l’altro problema della governance, la burocrazia, bisogna capirne le origini. C’è una burocrazia autogenerata per controllare dal centro e porre dei limiti all’autonomia degli atenei e una burocrazia che viene da una stratificazione normativa, da eccessivi meccanismi di controllo che io ho sempre contestato perché rende più difficile la vita di chi opera in un’università. Se, per fare un esempio, il Politecnico di Milano ha una mole di burocrazia molto maggiore rispetto al Politecnico di Vienna non potremo mai chiedere al Politecnico di Milano di competere ad armi pari, perché il fattore tempo nella didattica e nella ricerca è fondamentale. Per quanto riguarda infine la nostra capacità manageriale, credo che i progetti europei abbiano fatto molto bene ai nostri atenei: la mescolanza di chi gestiva i fondi europei con l’amministrazione nazionale classica ha portato a una crescita collettiva. Probabilmente dovremmo fare questo sforzo utilizzando il programma Horizon 2020 della Commissione europea e l’occasione offerta dalla presidenza italiana della Ue come opportunità di crescita anche nel nostro ministero.
B. – E sulla questione della cabina di regia dei ministeri cosa ne pensa?
C. – È  una cosa che mi sta molto a cuore. Penso che la ricerca, così come la scuola, debba essere una delle priorità del presidente del Consiglio. Spesso glielo dico ricordandogli che io dovrei essere un esecutore delle decisioni del Governo in materia. Ritengo che la frammentazione della ricerca in vari ministeri abbia fatto male alla ricerca italiana. Nel caso del Piano nazionale della ricerca conto di riuscire a coinvolgere il ministero della Salute. Spero di riuscire a fare anche un coordinamento interministeriale che dovrebbe rappresentare la sperimentazione di una cabina di regia.

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  1. Marcello

    Alla fine il Ministro non dice nulla di nuovo. I soldi non ci sono, i tagli sono necessari e sottointeso “E’ l’Europa che ce lo chiede”.
    Vero però che, da quanto risulta dalla stampa, l’istituto del quale era rettore il Ministro ha avuto un numero di punti organico stratosferico, secondo molti non collegato con le, seppur alte, qualità dello stesso. Non ci si guadagna molto in credibilità.
    Sinceramente vorrei sentire qualcosa di più concreto. Dire che c’è un eccesso di burocrazia è come dire che l’acqua bollente brucia. Il problema è cosa si pensa di fare e qui io non ho sentito ancora dire nulla. Lo stesso vale per i finanziamenti. Dove si prendono i soldi? o si vuole continuare a tagliare e a foraggiare enti privati (in contrasto con la Costituzione)?
    Infine benissimo richiamare cervelli dall’estero, ma senza penalizzare quelli che già ci stanno.

  2. Mirko

    Avvilente. Le solite risposte evasive. Ma la mia domanda e’ anche questa: esiste in Italia un tessuto produttivo, un sistema, in grado di sfruttare i prodotti della Ricerca? I soldi investiti in Ricerca che ritorno hanno in realta’? Onestamente, io non lo so.

  3. Enrico

    E’ vero quello che dice Boeri <>, ma è anche vero che nell’intervento del ministro emerge chiaramente che non c’è alcuna intenzione di incidere significativamente. Tempi biblici in cui si assume che fare uan riforma in 2 anni o in 20 abbia gli stessi effetti; questo deriva dal concepire il sistema, anche della ricerca, come statico, per cui si fa un riforma e non lo si tocca più o il meno possibile. Purtroppo il mondo evolve…..

  4. maria maione

    Mi chiedo come mai non vengono considerati i ricercatori con contratto a progetto in centri privati dove hanno svolto per anni ricerca in campo scientifico, senza appoggi politici e si sono trovati a casa per mancanza di fondi, venuto meno l’appoggio di influenti politici, perchè indagati, senza alcun sostegno neanche di sussidi di disoccupazione. Sono un nulla per lo stato. Si scopre, in seguito, che i fondi vengono riassegnati per vie traverse, e i quarantenni ricercatori non hanno però alcuna possibilità di riciclarsi neanche all’estero, dopo sacrifici e aver dovuto tollerare ingiustizie di ogni tipo. Mi premeva rendere noto ciò che è di pubblico dominio, come si può riporre fiducia in uno stato ed in governi che non garantiscono alcun diritto ai deboli e favorisce sempre e solo i disonesti e i furfanti venditori di frottole.

  5. Giorgio Pastore

    Pochi commenti in ordine sparso:
    Perche’ non riportare anche il sottotitolo del convegno (Cosa distruggere, come ricostruire ?) che la dice lunga sui preconcetti di chi l’ ha organizzato ?
    E’ interessante vedere come il problema principale sembri essere quello della qualita’ (o forse sarebbe meglio dire la quantita’) della ricerca universitaria, senza porsi il minimo problema sulla qualita’ della ricerca industriale e sulla capacita’ del sistema produttivo di sfruttare l’ innovazione. Come mai?
    Gli “inattivi”. E’ la versione politically correct dei fannulloni di brunettiana memoria. Chissa’ perche’ mai in altri paesi si tollera che alcuni docenti universitari possano avere una bassa o bassissima produzione di ricerca a fronte di un impegno considerevole sull’ insegnamentio, in particolare sui cosiddetti “corsi di servizio”, in cui il valore aggiunto della ricerca e’ praticamente nullo.
    In ogni caso, il numero degli “inattivi” italiani, inclusi quelli della Bocconi, non sembra fuori norma.

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