La maggioranza di Governo può trovare un accordo sulla riforma delle norme sull’immigrazione. Non serve l’abrogazione della Bossi-Fini, perché è solo uno dei tanti provvedimenti legislativi sul tema. E delle disposizioni che ha introdotto, sono poche quelle ancora vigenti.
LE RIFORME RADICALI
Matteo Renzi ha citato la modifica della legge Bossi-Fini tra i temi che dovrebbero essere inclusi nel patto di coalizione tra i partiti che sostengono il Governo Letta. Bisognerà aspettare di conoscere nel dettaglio le proposte del segretario Pd per valutarne la qualità. Nell’attesa, provo a delineare gli elementi di una riforma auspicabile, distinguendo tra provvedimenti di carattere radicale e provvedimenti di carattere correttivo. Mi limito alle norme sull’immigrazione, rinviando a un precedente articolo per possibili azioni da adottare in ambito europeo in materia di asilo.
Tra le modifiche delle norme in materia di stranieri, le due più radicali riguardano l’acquisto della cittadinanza (oggi regolato dalla legge 91/1992) e l’immigrazione per lavoro. Sul primo punto, la commissione affari costituzionali della Camera ha discusso per mesi e un accordo è certamente a portata di mano, a condizione che nessun gruppo parlamentare pretenda di intestarsene in modo esclusivo il merito. Nessuno pensa a introdurre uno ius soli assoluto (è cittadino italiano chi nasce in Italia), quanto piuttosto uno ius soli temperato (è cittadino italiano chi nasce in Italia da genitore, straniero o comunitario, legalmente soggiornante a tempo indeterminato) o il cosiddetto ius culturae (acquista la cittadinanza italiana lo straniero che completi in Italia uno o più cicli di istruzione). Delle due possibilità, quest’ultima è certamente la più importante, perché dà rilievo all’inserimento socio-culturale degli esponenti della seconda generazione, anziché a un requisito meramente burocratico. Il fatto, paventato da alcuni ambienti ministeriali, che dall’acquisto della cittadinanza da parte del minore deriverebbe l’inespellibilità del genitore non dovrebbe essere visto come un aggiramento delle norme restrittive sull’immigrazione, ma piuttosto come il meritato traguardo della volontà di integrazione dell’intero nucleo familiare.
Riguardo all‘immigrazione per lavoro, si tratta di tradurre in norme quello che tutti sanno: [tweetability]i rapporti di lavoro a bassa qualificazione non si costituiscono “a distanza”, ma richiedono un incontro diretto [/tweetability], sul posto, tra domanda e offerta. Significa consentire l’ingresso per ricerca di lavoro, che è già possibile, senza alcun limite e senza conseguenze negative per la nostra società, per i lavoratori comunitari. Per i lavoratori di paesi terzi si potrebbero introdurre limiti numerici e, per far fronte a possibili fallimenti delle avventure migratorie individuali, opportuni correttivi in sede di rilascio del visto di ingresso: la registrazione delle impronte digitali e di una copia del passaporto, per una identificazione immediata dello straniero; e il deposito vincolato (da parte dell’interessato o di un garante) di un ammontare di risorse sufficienti al sostentamento del lavoratore per il periodo di ricerca di lavoro e per l’eventuale viaggio di ritorno. Una riforma di questo genere equivale semplicemente a dare veste legale e controllabilità alla modalità effettiva di ingresso degli stranieri nel mercato del lavoro italiano. Ma il fatto che le norme attuali, che impongono la costituzione di un contratto di lavoro prima dell’ingresso in Italia, abbiano resistito per ventisette anni è segno che i politici sono terrorizzati dall’idea di cambiarle. Se il terrore permane, un buon passo in avanti potrebbe essere costituito da una sperimentazione: si autorizzi, a certe condizioni, l’ingresso di un piccolo contingente di lavoratori stranieri in cerca di lavoro, se ne monitori il percorso di inserimento, si valuti l’efficacia delle possibili misure a sostegno del loro inserimento e di quelle di controllo; si ripeta poi l’esperimento con l’opportuna modifica delle condizioni che si siano rivelate inadeguate. Per inciso: se l’esperimento fosse stato messo in piedi durante l’emergenza Nord Africa a vantaggio delle persone accolte, l’enorme quantità di denaro spesa in quel contesto avrebbe trovato una più solida giustificazione.
I CORRETTIVI
Accanto alle riforme più radicali, o in attesa che su queste vi sia un consenso sufficiente, si può migliorare la normativa con interventi di portata più ridotta, mirati a rendere più agile e amichevole il rapporto tra l’amministrazione statale e lo straniero, con beneficio di tutti. Per l’acquisto della cittadinanza, per esempio, il requisito di residenza legale, comunemente richiesto dalla legge 91/1992, potrebbe essere interpretato come semplice soggiorno legale. Oggi invece il regolamento di attuazione di quella legge prevede la somma di soggiorno legale e iscrizione anagrafica, un adempimento rispetto al quale lo straniero ha in genere scarsissime informazioni. Così, pure, ai fini della concessione della cittadinanza per naturalizzazione, si potrebbe prescindere dal requisito di reddito, che appare anacronistico e assai poco indicativo della volontà di integrazione dell’aspirante cittadino.
Riguardo all’immigrazione per lavoro, si dovrebbe consentire ai datori di lavoro di presentare le domande di nulla-osta all’ingresso di un lavoratore straniero in qualunque momento dell’anno, anche con molto anticipo sull’eventuale adozione del decreto-flussi. In questo modo, con tutti i limiti della normativa vigente, il Governo avrebbe un dato affidabile sulla domanda di lavoro straniero (nei fatti già soddisfatta da un’offerta di lavoro fornita da overstayers), senza dover azzardare ipotesi scarsamente fondate. (1) Il bacino di immigrazione illegale potrebbe così essere svuotato rapidamente, azzerando i costi di un’inutile repressione.
Con le stesse finalità, si potrebbe consentire il rilascio di un permesso per lavoro o per altri motivi a qualunque straniero legalmente soggiornante, sia pure per turismo, in possesso dei requisiti sostanziali: [tweetability]non vi è alcuna utilità nell’esigere, come oggi si fa, che lo straniero torni in patria per poi rientrare in Italia [/tweetability], con spese rilevanti, con un nuovo visto di ingresso. A ogni straniero in possesso di un permesso di soggiorno che abiliti allo svolgimento di attività lavorativa dovrebbe inoltre essere riconosciuto il diritto di accedere ai concorsi per il pubblico impiego. La cosa è ormai data per scontata dalla giurisprudenza, già in base a una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme vigenti; ma, paradossalmente, il dipartimento della Funzione pubblica, che dovrebbe avere a cuore l’interesse dello Stato, quale datore di lavoro, di eliminare ogni barriera protezionistica sul versante dell’offerta, resiste a ogni tentativo di sancirla in modo esplicito. Si perde così uno dei più efficaci strumenti per attrarre o trattenere in Italia l’immigrazione ad alta qualificazione.
IL PERMESSO DI SOGGIORNO
Le norme che regolano il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno dovrebbero essere fortemente semplificate, nello spirito di quanto oggi già si fa nei confronti dell’immigrazione comunitaria, in base al diritto dell’Unione europea. Fermo restando il diritto dello Stato di allontanare le persone ritenute pericolose per la sicurezza pubblica, il rinnovo del permesso dovrebbe avere carattere quasi automatico: la certificazione relativa a condizioni, per esempio, di reddito e alloggio dovrebbe essere rimpiazzata da dichiarazioni sostitutive dello straniero interessato. (2) L’amministrazione sarebbe comunque libera di far seguire verifiche, a campione o per eccessivo ricorso all’assistenza pubblica da parte dello straniero; e, in caso di provata mancanza dei requisiti, decidere la revoca del permesso.
L‘alloggio, poi, dovrebbe essere considerato idoneo a prescindere dalle dimensioni e in una logica di parità tra italiani e stranieri, se non risultano interventi delle autorità comunali per impedirne l’uso abitativo.
[tweetability]Dovrebbe anche essere estesa la funzione protettiva dell’istituto del permesso di soggiorno [/tweetability], oggi prevista per categorie particolarmente vulnerabili, come le vittime di tratta, di violenza domestica o di grave sfruttamento lavorativo. In particolare, il rilascio di un permesso per motivi umanitari potrebbe essere previsto in tutti i casi in cui lo straniero, privo di altro titolo di soggiorno, agisca a tutela di un diritto fondamentale: per esempio, di fronte al giudice del lavoro per il riconoscimento di un rapporto di lavoro in nero; oppure quando sia segnalata dai servizi sociali o dalla scuola la presenza di un minore straniero inserito in un nucleo familiare illegalmente soggiornante: paradossalmente, la situazione di questi minori oggi è molto meno tutelata di quella dei minori non accompagnati.
Si dovrebbe infine prevedere il rilascio di un permesso a tempo indeterminato di tipo nazionale (che non abiliti, cioè, al trasferimento di lunga durata in altro Stato membro dell’Unione europea) a categorie meritevoli di speciale considerazione: studenti particolarmente brillanti, altri stranieri altamente qualificati, persone che abbiano dimostrato un alto grado di integrazione o che soggiornino in Italia da un tempo così lungo da rendere improponibile il loro rimpatrio, e così via.
Quanto al diritto all’unità familiare, oltre alle semplificazioni già citate per l’idoneità dell’alloggio, sarebbe giusto prevedere, in analogia con quanto disposto per i familiari di cittadini comunitari, che lo Stato consideri con favore l’ingresso e il soggiorno per ricongiungimento di altri familiari a carico dello straniero inserito in Italia (in particolare, figli maggiorenni e fratelli). Conseguenze negative per il sistema di welfare potrebbero essere evitate escludendo l’accesso a misure assistenziali degli stranieri così ammessi, finché il loro soggiorno sia autorizzato solo in virtù del legame familiare.
La condizione dei familiari stranieri di cittadini italiani dovrebbe poi essere messa al riparo da uno stravagante orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto di soggiorno in Italia è loro riconosciuto solo dopo che abbiano ottemperato a certi adempimenti burocratici. Non si tratta di un dettaglio: nelle more di quegli adempimenti, il familiare di cittadino italiano risulta molto meno protetto del familiare di cittadino comunitario rispetto al rischio di allontanamento, con intollerabile discriminazione alla rovescia.
IMMIGRAZIONE ILLEGALE
La riforma radicale della disciplina dell’immigrazione per lavoro potrebbe lasciare alla repressione dell’immigrazione illegale un carattere meramente residuale. Comunque, alcune modifiche possono ridurne immediatamente i costi umani e finanziari. In primo luogo, [tweetability]dovrebbero essere abrogate le disposizioni che hanno introdotto il reato di soggiorno illegale [/tweetability]: la sanzione prevista è di carattere pecuniario e non costituisce affatto un deterrente adeguato per gli stranieri che puntino, lasciando il proprio paese, a un miglioramento drastico delle proprie condizioni di vita, né ha alcun impatto su efficacia ed efficienza dell’espulsione amministrativa. Per contro, appesantisce inutilmente il lavoro della magistratura e dissuade lo straniero illegalmente soggiornante da ogni contatto con la struttura pubblica, anche nei casi in cui il contatto potrebbe giovare a categorie vulnerabili (per esempio, ai minori) o essere nell’interesse della collettività.
Il ricorso alla detenzione nei centri di identificazione ed espulsione (i Cie, introdotti, con altro nome, dalla legge Turco-Napolitano) dovrebbe poi essere limitato ai casi in cui lo straniero da allontanare rifiuti di collaborare alla propria identificazione e, quindi, all’individuazione del paese di destinazione. Non si dovrebbe invece dar luogo a detenzione nei casi in cui la responsabilità del ritardo nell’allontanamento gravi tutta sulle autorità del paese di appartenenza dello straniero. In generale, investire risorse in progetti di rimpatrio assistito (condizionato alla fattiva collaborazione dello straniero) può tradursi in un cospicuo risparmio, dal momento che il costo di un mese di detenzione di un immigrato era stimato di 1.650 euro nel 2008, e che oggi la detenzione può prolungarsi fino a diciotto mesi. Infine, ci si dovrebbe astenere del tutto dall’adottare un provvedimento di espulsione nei casi in cui lo straniero, a dispetto della sua condizione di soggiorno illegale, risulti positivamente inserito nel tessuto sociale.
Su molti di questi punti, l’attuale maggioranza può trovare un accordo in nome del buon senso, senza che questo venga percepito come abiura delle proprie posizioni passate. A questo scopo può giovare la rinuncia a riferimenti insistenti alla abrogazione o alla modifica della legge Bossi-Fini (legge 189/2002). Non perché quella legge meriti particolari rimpianti, ma perché l’attuale normativa sull’immigrazione (per lo più contenuta nel decreto legislativo 286/1998) è frutto della sedimentazione di una cinquantina di provvedimenti legislativi. La Bossi-Fini è solo uno di questi e delle disposizioni che ha introdotto, poche sono quelle ancora vigenti. (3)
(1) Gli overstayers sono immigrati che hanno prolungato illegalmente un soggiorno inizialmente autorizzato (generalmente per turismo).
(2) Una disposizione in questo senso è già contenuta nella legge 35/2012, ma la sua entrata in vigore è stata procrastinata, con ben tre rinvii, dall’1/1/2013 al 30/6/2014.
(3) Si veda in proposito il quadro riportato alla pagina http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2013/dicembre/bossi-fini-residua.html.
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mikid
L’articolo, molto preciso, si dimentica completamente del problema fondamentale; in Italia abbiamo gia milioni di disoccupati Italiani e anche stranieri residenti da lungo tempo. A mio avviso non possiamo accogliere più nessun ulteriore straniero a prescindere dal titolo. L’Italia non è, e non possiamo permetterci di essere, un ente di assistenza mondiale, accogliere altri immigrati significa mantenerli a vita, fino alla pensione e oltre. Bisognerebbe, inoltre, prendere le impronte digitali a tutti gli stranieri che entrano nel territorio nazionale (come si fa negli USA) questo per impedire il giochino di entrare regolarmente per turismo o studio e poi gettare i documenti per non essere riconosciuti e realmente rimpatriati.
Alberto Chilosi
“Il fatto, paventato da alcuni ambienti ministeriali, che dall’acquisto della cittadinanza da parte del minore deriverebbe l’inespellibilità del genitore”. Per evitare questo basterebbe che l’ auspicabile concessione della cittadinanza per ius culturae avvenisse al raggiungimento della maggiore età.
AM
E’ giusto pensare ad uno ius soli temperato. Aggiungerei che la cittadinanza sino al conseguimento della maggiore età non debba essere definitiva e debba invece essere revocabile o prevedere la possibile rinuncia da parte dell’interessato. Cause di revoca potrebbero essere: comportamento criminale, rientro definitivo nel paese di origine della famiglia, insediamento definitivo in un paese terzo, etc.
Piero
Ius soli o ius sanguinis: in primis siamo in Europa e penso che l’Italia si faccia portavoce di una direttiva o anzi meglio di un regolamento sulla cittadinanza per i singoli stati. E’ naturale che se divento cittadino spagnolo posso successivamente avere i diritti in Italia, quindi la normativa va gestita a livello europeo. Se vediamo le regole europee, non vi sono tanti discorsi da fare: per avere la cittadinanza occorre la regolarità del permesso del cittadino straniero, in certi casi a tempo indeterminato, quindi è da respingere ogni ius culturae. Con tale malsana idea si avranno scuole per gli immigrati finalizzate alla cittadinanza, non sarà mai una vera integrazione. Prendiamo esempio dalle regole degli altri stati europei.
carlo matteo crotti
Non credo che la frequenza ad un ciclo scolastico possa essere un parametro necessario e sufficiente per concepire l’integrazione di una persona. Se così fosse, non si spiegherebbero le migliaia di giovani, nati in Francia o Belgio, che ora sono in Siria a combattere con i gruppi integralisti. I Servizi segreti di quei Paesi parlano di cifre intorno a 2000 uomini. Molti di loro alla fine torneranno, avendo in tasca un passaporto europeo. Cosa dobbiamo aspettarci ? A mio avviso, se davvero un immigrato decide che il suo mondo e la sua vita debba svolgersi in Italia o in Europa, ha un modo molto semplice per dimostrarlo: gli basta rinunciare alla nazionalità del Paese d’origine. Lo stesso principio dovrebbe valere per chi fosse nato nella Penisola. Non vorrei che capitasse come succede in Olanda (notizia presa da Economist) dove il numero di persone con almeno 2 passaporti è arrivata al 10% della popolazione, mettendo in imbarazzo gli autoctoni che si trovano svantaggiati in termini di diritti e doveri.
LEOPARDO GIACOMI
Mi imbatto per caso in questo articolo, complimenti per chiarezza e completezza, una domanda secca: a che punto è ora (Marzo 2014) la riforma in Parlamento della “Bossi-Fini” ? Ero rimasto ad una prima approvazione fatta mi pare alla Camera, ora – dopo la nascita del governo Renzi – a che punto siamo? E con quali prospettive? Grazie.