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L’acqua alla prova del fuoco

Il Tar Lombardia si esprimerà nei prossimi giorni sul ricorso presentato dai movimenti referendari e dalla Federconsumatori contro il metodo tariffario per il servizio idrico approvato dopo il referendum. Il rischio è che si debba rinunciare ai più che necessari investimenti nella rete idrica. 

SERVIZI PUBBLICI E PROFITTI

Nei prossimi giorni, il Tar della Lombardia sarà chiamato a esprimersi sul ricorso presentato dai movimenti referendari e dalla Federconsumatori contro il metodo tariffario per il servizio idrico approvato nel 2012 dalla competente Autorità di settore, l’Aeeg. Il referendum del 2011 ha abrogato la norma secondo cui la tariffa doveva prevedere “un’adeguata remunerazione del capitale investito”. I promotori spiegarono che il senso era quello di sottrarre la gestione del “bene comune” alla logica del profitto. Chi scrive, già all’epoca, provò inutilmente a far notare che il quesito (e il fine che si proponeva) derivavano da un colossale fraintendimento. La norma abrogata, infatti, non garantiva alcun profitto, e nessuno ha mai consegnato il servizio idrico (o altri servizi pubblici) al lucro di chicchessia. Quella norma, al contrario, aveva la finalità di garantire che le aziende disponessero dei mezzi per poter finanziare gli investimenti ricorrendo al mercato dei capitali, invece che alla fiscalità generale. La remunerazione del capitale altro non è che il costo necessario per poterlo ottenere – poco importa se a prestito o come capitale di rischio – da parte degli investitori finanziari o delle banche. “Adeguato” voleva dire: atto a garantire alle gestioni di potersi finanziare a condizioni competitive, mantenendo un accettabile equilibrio economico-finanziario, senza extra-profitti. Potrà spiacere dover constatare che gli italiani hanno votato solennemente contro un fantasma: ma è proprio così. [tweetability]Non c’era bisogno del voto per ribadire quanto era ed è sempre stato chiaro [/tweetability]: ossia che l’erogazione di servizi pubblici deve essere regolata proprio con il fine di evitare che i gestori ottengano indebiti profitti di monopolio. Remunerare le risorse impiegate (capitale compreso) al loro costo di mercato: né più, né meno. Il vecchio “metodo normalizzato” attuava questo principio in modo sommario e inadeguato e per questo fin dall’origine fu criticato (anche dal sottoscritto): ma un conto è riformare tecnicamente un metodo che applica in modo errato un principio, un’altra cosa è abolire il principio. Principio che, nei termini in cui l’ho appena espresso, continua a valere anche dopo il referendum. La norma attualmente in vigore, non a caso, continua a imporre che la tariffa del servizio idrico copra tutti i costi e che dei costi da coprire facciano parte anche gli investimenti. Negli stessi principi dell’ordinamento europeo – cui la Corte Costituzionale rimanda direttamente in esito al referendum – è del tutto pacifico che dei costi da coprire in tariffa facciano parte tutti i costi economici, compresi quelli finanziari necessari per procurarsi il capitale.

IL METODO AEEG

Il metodo Aeeg prevede che agli investimenti che non siano finanziati dalla fiscalità venga applicato un costo standard del capitale, calcolato in ogni periodo regolatorio sommando al rendimento base dei titoli di Stato un premio che tiene conto del rischio specifico di settore. In modo uguale per tutti i gestori, qualunque sia il mix di fonti finanziarie che questi utilizzano, in modo da non privilegiare né ostacolare a priori nessuna forma di gestione e nessuna forma di finanziamento. Si noti che il metodo non esprime alcun tipo di preferenza verso il finanziamento di mercato: nessuno vieta alla fiscalità di farsi carico della spesa, se ci sono la volontà politica e i mezzi per farlo. In tal caso, espressamente previsto, in tariffa entreranno solo gli ammortamenti di quell’investimento, ma non gli oneri finanziari. E nessuno vieta alla Cassa depositi e prestiti, o ad altre istituzioni pubbliche, di prestare a tassi agevolati: in tal caso sarà il tasso agevolato, e non quello standard, a rilevare ai fini della tariffa. L’Aeeg si limita a dire che, nella misura in cui ci si finanzia sul mercato, occorre prevedere in tariffa i mezzi per sostenere l’onere a condizioni di mercato. Ricorrere a un costo standard ex ante, anziché al rimborso degli oneri finanziari ex post, ha l’intento (virtuoso) di costringere il gestore a darsi da fare per ottimizzare la situazione: se riesce a fare meglio dello standard, potrà pure guadagnarci: il che non deve fare scandalo, sempre che lo standard sia calcolato in modo da corrispondere davvero a una condizione di efficienza. Secondo i comitati referendari, il metodo sarebbe contrario al quadro normativo che scaturisce dal voto. In base al ricorso, la tariffa dovrebbe semmai garantire il rimborso dei prestiti contratti, ma non la remunerazione del capitale proprio (in quanto quest’ultima sarebbe un profitto, che il referendum avrebbe tout court espunto). È appena il caso di notare che se si remunera il debito, ma non il capitale di rischio, nessuno conferirebbe più capitale di rischio; le aziende, nella migliore delle ipotesi (ammesso che trovino qualcuno disposto a prestar loro dei soldi in mancanza di un capitale proprio) dovrebbero finanziare tutti gli investimenti a debito, pagandone il costo corrispondente. Non si vede quindi quale sarebbe il vantaggio per i cittadini. Affinché il capitale azionario sottoscritto nel frattempo non sia oggetto di una sorta di esproprio proletario, oltre tutto, le azioni esistenti dovrebbero essere convertite in obbligazioni o qualche altra forma di debito irredimibile. Dunque, quella che prima era comunque una variabile dipendente dalla capacità del gestore (l’utile netto) si trasformerebbe in una variabile indipendente (un reddito fisso, questa volta, sì, garantito). Altrettanto chiaro è che se la tariffa riconosce ex post (ossia, a piè di lista) il costo del debito onde poter escludere la remunerazione del capitale proprio, il profitto che si è voluto negare ai gestori lo faranno al posto loro le banche: i gestori non avranno infatti a quel punto alcun incentivo a negoziare condizioni migliori, certi che qualunque tasso pagato sarà riconosciuto in tariffa. Le poche operazioni di finanziamento concluse nell’ultimo biennio, un po’ per le incertezze legate al post-referendum, un po’ per le conseguenze della crisi finanziaria, evidenziano tutte tassi nettamente maggiori di quelli riconosciuti dal metodo Aeeg. I comitati referendari, seraficamente, rispondono che è proprio quanto si voleva ottenere: impedire ai gestori di finanziarsi sul mercato, al fine di costringere la fiscalità generale a farsi carico della spesa. Ora, se così fosse, [tweetability]vorrebbe dire che agli elettori è stato sottoposto un quesito che attiene alla materia fiscale [/tweetability](notoriamente esclusa dallo strumento referendario). Ma anche sorvolando su questo aspetto, i casi sono due, a seconda di quale tra gli investimenti e le tasse sia la variabile indipendente. Nel primo caso, gli investimenti si faranno: ma aumenteranno le tasse (magari sotto forma dell’ennesima “tassa di scopo” che si sommerà al controverso prelievo sugli immobili e sui servizi locali (Iuc). E i cittadini si sentiranno giustamente presi in giro – anche perché si scoprirà che gli aumenti saranno maggiori di quelli delle tariffe Aeeg, per il semplice motivo che finanziare gli investimenti a carico della spesa pubblica corrente significa che l’uscita di cassa sarà maggiore. Se per comprare casa faccio un mutuo, le mie uscite saranno pari alla rata del mutuo. Se non voglio o non posso indebitarmi, l’uscita dovrò sostenerla tutta e subito a carico delle mie ricchezze personali. Se invece la fiscalità è costretta a muoversi entro limiti dettati dai vincoli alla finanza pubblica, saranno fatalmente gli investimenti a essere sacrificati. Un simile esito sarebbe sciagurato. Sono almeno trenta anni che questo paese investe poco o nulla nelle reti idriche, con risultati noti, ma che forse è utile ricordare: reti colabrodo, depuratori malandati o inesistenti, sanzioni europee che fioccano (siamo già fuori tempo massimo con la direttiva del 1991 sulle acque reflue, e quanto alla direttiva quadro del 2000 – quella che impone di portare tutti i corpi idrici al “buono stato ecologico” – non abbiamo ancora cominciato neppure a calcolare seriamente cosa servirebbe fare). Viene da sorridere amaramente di fronte a quanti invocano il “bene comune” per giustificare il perpetuarsi di un simile scempio. Ora la parola è al Tar. Non sarà l’ultima parola: qualunque sia la decisione, il ricorso al Consiglio di Stato è assicurato. E qualunque sia la decisione del Consiglio di Stato, toccherà al legislatore riprendere in mano la questione. Del resto, non saremmo arrivati a questo punto se il legislatore, dopo il voto, avesse avuto il coraggio di decidere – in un senso o nell’altro – di quali risorse dovrà campare il sistema idrico nazionale negli anni a venire. Ma il legislatore questo coraggio non lo ha avuto, forse perché avrebbe dovuto scegliere fra due alternative entrambe indigeste: ribadire agli elettori che il costo dell’acqua (compreso quello finanziario) va pagato in tariffa; oppure, provare a convincere Bruxelles e i sottoscrittori dei nostri Btp che nel nostro bilancio pubblico c’è spazio per reperire anche i 3-5 miliardi all’anno (ogni anno, per sempre) necessari per adeguare e mantenere in buono stato le nostre infrastrutture idriche. [tweetability]Ancora una volta, saranno i giudici a sopperire all’ignavia dei politici [/tweetability].

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  1. Sergio Ascari

    Caro Antonio, cari economisti e cari regolatori, state invecchiando e state diventando testardi e noiosi, ripetete sempre le stesse cose. Vi scrivo casualmente dall’Egitto, dove sono a fare tariffe, e mi è capitato naturalmente di chiedermi se si potrebbero fare tariffe regolate in un contesto di finanza islamica, che come noto non ammette l’interesse. In un certo senso l’esito del referendum chiede la stessa cosa: che non sia garantito un ritorno al capitale investito. Eppure c’era un metodo semplice per evitare i ricorsi, bastava seguire l’esempio della stessa Aeeg, che quando ha voluto ridurre le interruzioni elettriche ha predisposto un sistema di incentivi (e punizioni) basati sui risultati, invece che sulla remunerazione degli investimenti in quanto tali. Bastava trovare adeguati parametri di qualità del servizio idrico e collegare gli incentivi a quelli. Poi per fare ovviamente le imprese investiranno, il regolatore si informerà su quanto costa ottenere certi risultati in modo da tarare gli incentivi, e qualcuno ci farà anche un margine (insh’allah): ma quel che conta è il risultato. Senza premiare l’investimento a mo’ di rendita: fare un ricorso contro un meccanismo simile è molto più difficile! Se non vi piace la finanza islamica (che peraltro va molto bene nel mondo), chiamatela performance based regulation. Tra parentesi, in Egitto con la restaurazione laicista nessuno critica gli interessi, e sto facendo una noiosa tariffa (di trasporto gas) con tanto di WACC.

    • Alice

      Ho 2 obiezioni: 1) nel costo dell’energia elettrica sono comunque compresi anche gli investimenti e non credo (ditemi se sbaglio) che il loro costo sia considerato al netto della remunerazione del capitale con cui sono stati finanziati; 2) il fatto che venga fissata una tariffa che includa la remunerazione del capitale non esclude che possano esserci penalità se il servizio non raggiunge determinati standard di qualità.

    • Antonio

      In base a quel poco che so (ammetto) di finanza islamica, mi risulta che questa non ammette l’interesse, ma ben ammette il profitto. E infatti i banchieri islamici, per poter prestare a interesse facendo finta di non farlo, si inventano transazioni collaterali con il debitore in cui comprano qualcosa a poco e gliela rivendono a molto. I comitati referendari, al contrario, dicono: interesse sì, profitto no (ossia il contrario). Dunque, temo che la tua proposta non li accontenterebbe. Già che sei in Egitto, prova un po’ a vedere se trovi qualcosa sul metodo utilizzato dai faraoni. Dopotutto, le infrastrutture idriche le hanno inventate loro! A bientot

  2. Massimo Matteoli

    Prima del referendum il rendimento garantito, quale fosse l’efficacia della gestione, era il 7% sul capitale investito.
    Di fatto si vuol riproporre il solito sistema e mi stupisce che non siano gli stessi assertori dei valori liberali ad insorgere per primi contro quella che è, nè più nè meno, che una rendita totalmente slegata dalla capacità industriale.
    Non capisco poi delle preoccupazioni per i consumatori, poiché per loro cambia ben poco o nulla che gli investimenti siano finanziati con un mutuo invece che con conferimenti di capitali, visto che saranno sempre loro a ripagarli con le bollette.

  3. Antonio

    Il 7% non era un “rendimento”, bensì un costo parametrico (stimato male, sono d’accordo). Il rendimento si misura sul capitale proprio, ed è il rapporto tra l’utile di esercizio e il capitale. Una delle tante confusioni che si fecero all’epoca del referendum è proprio quella tra il costo del capitale (calcolato in rapporto agli investimenti) e il tasso di profitto (calcolato in rapporto al capitale sociale). La remunerazione degli investimenti e il profitto sono due cose completamente differenti, e solo il dilagante analfabetismo economico di questo paese poteva confonderli. Se le può interessare, abbiamo calcolato il ROE medio delle gestioni idriche tra il 2000 e il 2011: il valore medio che risulta è inferiore al tasso sui BTP. Nessuna “rendita garantita, come può vedere: a investire sui titoli a rendita fissa si guadagnava di più.
    Se ha mai stipulato un mutuo per comprare casa, saprà che ci sono quelli a tasso fisso e quelli a tasso variabile. Nel primo caso, si sa quanto si paga, ma non quanto guadagna la banca (a seconda che i tassi di mercato siano più alti o più bassi del tasso fisso, può guadagnare o perdere). Nel secondo caso so quanto guadagna la banca (lo spread, le commissioni) ma non esattamente quanto pago.
    Scegliere di riconoscere il costo standard ex ante, come ha fatto l’AEEG, serve proprio a premiare la capacità industriale: se sei bravo, riuscirai a stare sotto il benchmark e a guadagnare, altrimenti ci perderai. Se il benchmark è calcolato bene, le aziende di efficienza media non guadagneranno nulla, copriranno solo i loro costi, quelle più efficienti della media guadagneranno. Se invece si sceglie di riconoscere il costo effettivo ex post, il gestore potrà coprire qualunque finanziamento a qualunque tasso. Sono io a stupirmi del fatto che lei preferisca pagare di più pur di non far guadagnare chi se lo merita. A meno che lei non sia un banchiere: saranno infatti i banchieri gli unici a guadagnare da una simile prospettiva.

    • Massimo Matteoli

      Forse, anzi sicuramente, “rendimento” è un termine tecnicamente impreciso ma rimane il fatto che si vuol garantire un’entrata a carico dei clienti-utenti calcolata sul capitale investito e non sull’ efficienza della gestione. Insisto a dire che i primi a ribellarsi ad una simile stortura dovrebbero essere i paladini del liberismo. Se non ho capito male, poi, tale “costo” è legato alla quota di capitale investito, e quindi fisso nel tempo e senza scadenza (confesso, però che di questo non ho certezza obiettiva ed accetto volentieri correzioni o precisazioni) mentre gli interessi sui mutui vengono a cessare, diminuendo via via che si pagano le rate, alla scadenza del finanziamento.
      Se fosse così non riesco a capire, con tutta sincerità, dove sia il vantaggio per i consumatori che ci vorrebbero farci credere.

  4. Tristan

    Come è noto il TAR ha rinviato al 20 febbraio la discussione. Dovremo aspettare. Ma mentre “aspettiamo” riflettiamo su questa legge di riorganizzazione (dei servizi idrici), che ritengo sia stata una delle riforme più largamente fallimentari del panorama politico nazionale, non soltanto per la ricchezza che ha distrutto, ma anche per gli impegni che non ha mantenuto. Si parla solo di investimenti, ma è bene ricordare che la riforma nacque nel 1994 con l’obiettivo principale di industrializzare le gestioni del sud del paese (Sicilia e Calabria ad esempio), e le gestioni in economia, largamente presenti su tutto il territorio nazionale. Dopo 20 anni esatti il sud è ancora lì senza aver mutato la propria condizione di un millimetro, mentre le gestioni in economia, benché formalmente accorpate in ambiti di gestione sovraordinati, anche loro non hanno ancora raccolto alcun beneficio se non quello di veder crescere le loro tariffe e scendere la qualità del servizio reso, incardinati spesso contro la loro volontà a relazionarsi con un gestore che vedono lontano, spesso lontanissimo. Per raggiungere questo “invidiabile” stato di cose, come ho accennato prima le aziende che nel 1994 erano leader in Italia e che hanno governato il processo di riforma (quelle che oggi si definiscono ex-municipalizzate) sono state letteralmente distrutte sia sotto il profilo tecnico sia e soprattutto sotto il profilo finanziario, ed è stata sottratta loro una quantità di ricchezza probabilmente seconda soltanto a quella portata via a Telecom. Benché le tariffe siano aumentate in maniera importante, (nel decennio l’aumento delle tariffe idriche è stato secondo soltanto a quello dei prodotti petroliferi) di investimenti in giro se ne sono visti pochini, non soltanto nel settore delle acque reflue (che era il settore di maggiori esigenze), ma anche e soprattutto nella rete idrica. In questo contesto di vere e proprie macerie si è inserita l’AEEG (grazie a Monti mi sembra…), con i suoi provvedimenti “risolutori”. Nonostante io abbia una laurea in ingegneria ed un PhD, debbo concentrarmi con tutte le mie energie, credetemi, per seguire le sue asserzioni, esposte in formule per la scrittura delle quali non bastano tutte le lettere dell’alfabeto italiano e greco sommate insieme. Leggendo i suoi provvedimenti ho capito che questa non può essere la strada del futuro della regolazione di questo settore, a meno che non si voglia ridurre l’acqua a quanto già fatto per il servizio elettrico, per il quale riceviamo bollette letteralmente incomprensibili (provate a leggerne una) che giustificano tariffe fuori da ogni logica nazionale ed europea. Se non vogliamo diventare come la Bulgaria dobbiamo riprenderci l’acqua, dobbiamo considerare l’acqua, come altri settori strategici, un servizio privo di rilevanza economica da gestire in forma pubblica mediante l’istituto dell’azienda speciale o consortile. Gli investimenti debbono far carico alla fiscalità generale. Rispondo a chi dice che non ci sono risorse che l’assegnazione delle risorse economiche è una scelta politica. Altrimenti, basandoci sulla carenza di risorse finiremo per privatizzare anche le forze dell’ordine ed i nostri organi di difesa. Se 20 anni di fallimenti non sono sufficienti per farci capire che si è sbagliato, allora…..Dimenticavo, l’onorevole Galli, autore della legge di riforma, ha quasi disconosciuto questa legge, visti i deludenti risultati.

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